Ecumene

 

Dr. Mauro Velati

 

Gli Amici al concilio Vaticano II (1962-1965) – Prima parte

 

Quando negli anni 1959-60 si affacciò per la prima volta l’ipotesi di invitare al concilio i rappresentanti delle chiese non cattoliche in qualità di osservatori nessuno avrebbe potuto immaginare la profondità e la rilevanza che questa presenza avrebbe avuto per la storia stessa del concilio. Tale possibilità, già anticipata dal discorso di Giovanni XXIII del 25 gennaio 1959, divenne realtà grazie al lavoro del segretariato per l’unità dei cristiani, creato dallo stesso pontefice nel marzo 1960 ed affidato alla guida del card. Agostino Bea (come presidente) e di mons. Johannes Willebrands (come segretario). Facendo seguito ad una proposta dello stesso segretariato il principio di un invito agli osservatori non cattolici fu approvato ufficialmente dalla commissione centrale preparatoria nel giugno 1961, non senza il manifestarsi di riserve ed obiezioni soprattutto da parte di alcuni cardinali di Curia. Sulla base però di questa decisione il segretariato per l’unità dei cristiani avviò nei mesi seguenti i primi contatti per la definizione dei destinatari dell’invito e delle modalità di esso. In questa fase Willebrands ebbe la collaborazione del segretario generale del World Council of Churches (WCC) Willem Visser’t Hooft che vedeva tra i compiti primari dell’organismo ginevrino proprio una funzione di stimolo al cattolicesimo per la sua apertura al movimento ecumenico. Vista la grande frammentazione del mondo protestante si era pensato di indirizzare l’invito non alle singole chiese ma alle federazioni confessionali internazionali e per questo Willebrands fu invitato all’incontro di Ginevra dell’aprile 1962 che raccoglieva, sotto il patronato del WCC, i rappresentanti di tutte le principali organizzazioni mondiali del protestantesimo. La missione di Willebrands era finalizzata a raccogliere l’adesione dei grandi gruppi confessionali (luterani, riformati, congregazionalisti, metodisti, battisti) ma a Ginevra fu avvicinato anche dal rappresentante dei Quakers, B.W. Shaffer, che avanzò la disponibilità del Friends World Committe for Consultation (FWCC) ed ottenne da Willebrands rassicurazioni sulla possibilità di avere un osservatore a Roma. Tale possibilità non era stata forse prevista all’inizio dai membri del segretariato ma fu accettata di buon grado.

I quaccheri avevano partecipato alla fondazione del WCC nel 1948 e, almeno alcune delle organizzazioni del mondo degli Amici erano tra i protagonisti della collaborazione  ecumenica, soprattutto nel campo dell’impegno di fronte ai grandi problemi sociali e politici. Vi erano però visuali diversi nei confronti del tema specifico dell’unità cristiana e dal 1948 agli anni sessanta era aumentato il disagio nei confronti degli sviluppi dell’impresa ginevrina, soprattutto a riguardo del dialogo all’interno della sezione di Faith and Order. La ridefinizione delle basi dottrinali del WCC approvata all’assemblea di New Dehli aveva poi aggravato le riserve di molti esponenti quaccheri che poco gradivano una piattaforma dottrinale definita in senso trinitario e sempre più radicata nel testo biblico. L’atteggiamento di apertura del mondo quacchero non ebbe però riserve nei confronti della proposta proveniente da Roma, che d’altra parte non comportava alcun tipo di adesione a presupposti dottrinali specifici.

Nel luglio 1962 partì da Roma la lettera di invito al FWCC e nelle settimane seguenti furono nominati i rappresentanti quaccheri per la prima sessione conciliare, prevista per l’ottobre dello stesso anno. Tra le personalità del mondo quacchero che avevano avuto rapporti con il cattolicesimo vi era Douglas van Steere, docente di filosofia all’Haverford College, che non nascondeva il proprio interesse per la proposta. I suoi impegni accademici non consentirono però la realizzazione del suo progetto. Giunto ormai alla fine del suo percorso accademico, Steere era in quel momento visiting professor presso l’Union theological Seminary di New York e solo a partire dal 1963 sarebbe stato collocato a riposo. Per questo i rappresentanti nominati per la prima sessione furono Richard K. Ullmann e William Hubben. Titolare dell’incarico risultava Ullmann, proveniente dal Woodbrooke College di Birmingham e vice-presidente del Christian Council for peace. Si tratta di una figura importante del quaccherismo inglese. Richard Karl Ullmann (1904-1963) era nato a Francoforte da una famiglia di origine ebraica ed aveva iniziato i suoi studi in ambito letterario pubblicando alcuni testi sul romanticismo tedesco. Dopo una prima esperienza in Cina e la prigionia nel campo di concentramento di Buchenwald, potè rifugiarsi in Inghilterra nel 1938 grazie all’aiuto del Quacchero Rudolf Schlosser. Durante il secondo conflitto mondiale fu di nuovo rifugiato in Australia e solo nel 1949 decise di ritornare in Inghilterra con la propria famiglia, dopo aver aderito ufficialmente alla fede degli Amici. Dal 1948 al 1963 fu docente al Woodbrooke College di Birmingham. In qualità di sostituto fu designato invece il giornalista di origine tedesca William Hubben (1895-1974) che aveva aderito al Quaccherismo nel 1923, divenendo il direttore di “Der Quaker” il mensile della comunità tedesca. Il suo impegno a favore della pace si aggiungeva ad un esplicito impegno politico nelle fila del Partito Socialdemocratico. Nel 1933 però, con l’avvento del nazismo, Hubben fu costretto ad abbandonare il suo lavoro di preside in una scuola pubblica e decise di emigrare negli Stati Uniti. Nel dopoguerra divenne, dal 1955 al 1963, il direttore del principale organo di informazione degli Amici, il Friends Journal.

Gli osservatori a Roma avevano il compito di riferire alle proprie chiese di provenienza degli avvenimenti conciliari e delle discussioni in seno all’episcopato cattolico. Ben presto il loro ruolo divenne però più sostanzioso. Fin dai primi incontri con il segretariato (che si svolgevano ogni martedì pomeriggio e riguardavano generalmente l’argomento affrontato nelle congregazioni generali del periodo) giunse la richiesta di avanzare liberamente proposte ed osservazioni per mettere in luce il punto di vista dei vari gruppi confessionali sui temi affrontati dai vescovi. In questo modo anche i delegati degli Amici poterono portare il loro contributo. Gli articoli e i rapporti di Ullmann e Hubben mostrano in modo abbastanza chiaro la visione che del concilio si andava formando da un punto di vista così particolare. La discussione sulla liturgia che appassionava i vescovi cattolici non poté suscitare grande interesse, almeno nei suoi termini più dettagliati e particolari. Allo stesso modo lo stile delle discussioni all’interno del gruppo degli osservatori – formato per lo più da teologi di mestiere- non mancava di suscitare perplessità per un certo approccio scolastico alle questioni dibattute. Notava Ullmann riguardo alla riunione sul tema del rapporto tra Parola di Dio e liturgia che si era svolta il 13 novembre alla presenza del vescovo Hermann Volk: “un incontro molto tedesco” (“a very German conversation”). Risultava evidente la presa di distanza da un approccio “intellettualistico”, determinato dalla prevalenza del punto di vista degli osservatori di area protestante tedesca e olandese. La specificità della visuale e del contributo della Società degli Amici emerse piuttosto su alcuni temi specifici che in qualche modo erano stati toccati dalla discussione conciliare.

Nel quadro della breve discussione sul progetto di un messaggio al mondo che impegnò i padri nei primi giorni della sessione Ullmann prese l’iniziativa della redazione di un memorandum sull’obiezione di coscienza. A partire dalla citazione di un recente appello alla pace di Giovanni XXIII (il dicorso del 12 ottobre alle 86 missioni straordinarie cioè ai rappresentanti diplomatici di tutti i paesi presenti per l’inaugurazione del concilio) il delegato dei quaccheri faceva leva sulla tradizione specifica del proprio gruppo di appartenenza ma anche sull’ampiezza di un consenso che nelle chiese del mondo protestante si andava allargando. Il materiale preparatorio non aveva cenni espliciti alla questione dell’obiezione di coscienza, a parte un riferimento generale ai diritti della coscienza individuale (sebbene informata e soggetta alla volontà di Dio) nello schema De Ordini morali Cristiano (cap. II). La criticità del contesto internazionale esigeva però una presa di posizione. Per questo secondo Ullmann il concilio avrebbe potuto muoversi in una triplice direzione: il riconoscimento da parte ecclesiastica della scelta di obiezione come il frutto di una vocazione speciale, con il conseguente cambio di atteggiamento a livello pastorale, l’esercizio di pressioni sui governi per l’introduzione del diritto all’obiezione nelle legislazioni nazionali e infine il sostegno ad una campagna per l’introduzione di questo diritto nella Carta dei diritti dell’uomo. Il tema venne affrontato brevemente in una riunione dei soli osservatori ma non sembrò emergere una posizione comune. Si trattava evidentemente di un problema decisamente nuovo per molti ambienti delle varie chiese. Al gruppo degli osservatori fecero riferimento poi altre iniziative esterne su questi temi. Il vescovo pentecostale americano Tomlinson -dopo aver contattato i vertici del segretariato- incontrò alcuni osservatori all’interno di una iniziativa denominata “Bandiera della pace”, che suscitava a dire il vero reazioni piuttosto scettiche nei suoi interlocutori. Ben più disponibile apparve il delegato del WCC, L. Vischer, di fronte ad una iniziativa analoga di Jean Goss, uno dei responsabili del Mouvement international de la réconcilition (MIR) in Francia, il quale aveva presentato alla commissione centrale preparatoria un dossier sul tema della pace e della guerra.

Il concentrarsi di queste iniziative in questo scorcio di ottobre non era casuale: si trattava dei giorni della “crisi di Cuba”. La crisi si risolse dopo il 25 ottobre anche grazie all’intervento di Giovanni XXIII ma nel complesso apparve chiara la mancanza di un coordinamento nelle azioni delle varie chiese. Negli stessi giorni un appello di pace era stato lanciato da parte della Christian Peace Conference, l’organizzazione fondata dal pastore boemo Hromadka e co-diretta dallo stesso Ullmann, che raccoglieva quei settori delle chiese dei paesi dell’Est che avevano accettato un modus vivendi con il comunismo. Anche il WCC aveva promosso un documento che Willebrands, un un colloquio con Vaijta, non esitava però a definire troppo politicizzato. Nei corridoi del concilio emergeva l’esigenza di trovare una voce sola nei pronunciamenti dei cristiani sulle vicende internazionali ma sia da parte degli osservatori che dei dirigenti cattolici si era consapevoli delle difficoltà. I due documenti presentati (da Ullmann e Goss) avevano caratteristiche diverse. Il secondo aveva un taglio piuttosto politico e non si prestava ad una diffusione tra i padri anche per le sue dimensioni. Il primo era invece una proposta sintetica e ben delimitata che avrebbe potuto avere più chance di diffusione tra i padri e che trovava apprezzamento anche in Bea proprio per il suo carattere non politico. L’appoggio del presidente del segretariato non fu però sufficiente per far uscire la proposta da uno stadio meramente interlocutorio.

La seconda iniziativa di Ullmann fu quella di proporre – in relazione alla discussione che si avviava in concilio sullo schema De Liturgia– la trattazione del tema del sacerdozio dei fedeli e del ruolo dei laici nella chiesa alla riunione degli osservatori con il segretariato. La questione del sacerdozio regale dei fedeli era stata al centro di molti interventi dei vescovi durante il dibattito in aula. In una visuale non cattolica esso assumeva però un carattere decisivo vista la caratteristica non di molti gruppi protestanti. L’incontro fu introdotto da Jerome Hamer, teologo domenicano e membro del segretariato, il quale sottolineava la complementarietà del ministero dei sacerdoti e dei laici nella chiesa, utilizzando le più recenti prospettive della teologia cattolica che proprio sul tema dei laici aveva visto uno sviluppo significativo ed un avvicinamento alle posizioni del protestantesimo (ad esempio con la rivalutazione dell’idea di popolo di Dio come superamento di una visione solo gerarchica della chiesa). A parte le puntuali osservazioni di esegeti e teologi come Cullmann e Vajta, che del tema si erano occupati, la discussione si spostò immediatamente sul piano concreto e coinvolse in modo paritario membri del segretariato ed osservatori. L’anglicano Pawley poneva il problema dell’assenza dei laici al concilio e il vescovo De Smedt fu costretto ad ammettere che non sempre gli interventi dei vescovi in concilio riflettevano un lavoro collegiale all’interno della propria diocesi, con il coinvolgimento reale della componente laicale. Ullmann da parte sua argomentava che, sottolineando la peculiarità dell’ufficio sacerdotale, il cattolicesimo aveva inevitabilmente posto le basi per una situazione di inferiorità dei laici nella chiesa. Proponeva anche un’interessante analisi terminologica. Il sacerdote è pontifex cioè “costruttore di ponti” e in questo senso nella chiesa tutti lo sono: la dottrina cattolica suggerisce però che il prete lo sia in modo diverso e superiore al laico, creando uno stato di inferiorità per il secondo. La messa in luce di un certo “clericalismo” cattolico non aveva intenti polemici ed era d’altra parte condivisa anche da alcuni dei membri del segretariato. L’auspicio comune emerso dalla riunione era proprio quello di vedere al concilio la consacrazione di un nuovo approccio con una rivalutazione dell’aspetto laicale anche nel cattolicesimo.

La prima sessione conciliare si era chiusa senza l’approvazione definitiva di alcuno schema ma erano già chiaramente individuati alcuni orientamenti di fondo dell’assemblea che avevano portato al rigetto di alcuni progetti provenienti dalla fase preparatoria. Il bilancio finale della   esperienza degli osservatori degli Amici era senz’altro positivo come documenta il giudizio di Hubben: “[…] già ora è divenuto evidente che la chiesa non è più la struttura monolitica e impenetrabile quale il Protestantesimo l’ha considerata tradizionalmente”. Ma erano in molti – tra gli osservatori- a parlare della scoperta di una realtà viva e variegata, contrassegnata dalle più diverse posizioni e mentalità, lontana dal monolitismo del passato. Anche rispetto all’evento conciliare i delegati degli Amici, pur riconoscendo la necessità di qualche “sacrificio intellettuale” (Hubben) richiesto dalla partecipazione a riti e procedure a loro del tutto estranee, esprimevano la convinzione di aver assistito ad un evento “spirituale”, capace di sovvertire ogni pregiudizio sul presunto “autoritarismo” romano. Scriveva Ullmann: “In più di una occasione ho sentito l’unica vera autorità, lo Spirito Santo, riempire le gigantesche navate di San Pietro e guidare la sua Chiesa sotto la Propria legge. Mi sono inoltre convinto che per mezzo del Concilio vaticano sono rivelati aspetti molto importanti della volontà di Dio, non solo per la Chiesa cattolica ma per tutta la cristianità e per l’intera umanità”.

La seconda sessione conciliare era stata fissata per la fine di settembre del 1963 ma la morte di Giovanni XXIII e l’elezione del suo successore Paolo VI lasciarono spazio ai timori di chi temeva la sospensione del concilio. Subito dopo la sua elezione Montini espresse però la sua volontà di continuare l’opera del predecessore e le diverse federazioni di chiese furono di nuovo invitate ad inviare i loro osservatori. Il delegato degli Amici alla prima sessione, Richard Ullmann, era nel frattempo defunto suscitando un largo cordoglio in quella piccola comunità inter confessionale che si era formata a Roma durante la prima sessione. Venne quindi sostituito da Douglas van Steere che nel frattempo si era ritirato dall’insegnamento ad Haverford. Steere veniva da una famiglia composita sia dal punto di vista religioso che etnico: il padre era un inglese di famiglia metodista, la madre olandese con una presenza quacchera in famiglia. L’adesione di Steere al quaccherismo nel 1932 era stato l’avvio di una percorso biografico e spirituale connotato da un’esperienza viva della universalità e dell’ecumenismo. Il suo primo contatto con il cattolicesimo risaliva agli anni venti quando era giunto ad Oxford per preparare una dissertazione di dottorato ed aveva scelto di studiare le opere del barone Friedrich von Hügel, uno dei più importanti esponenti del modernismo inglese. Sotto la guida di C. C. J. Webb Steere ebbe l’opportunità di approfondire il pensiero di questo filosofo della religione che aveva tentato di rendere conto della complessità del fenomeno religioso attraverso l’individuazione di tre elementi essenziali tra loro in perenne dialettica (storico-istituzionale, scientifico- intellettuale, mistico-esperienziale). Lo studio di von Hügel fu però l’occasione per risalire a ritroso nella catena della tradizione cristiana europea, seguendo una linea che potremmo definire mistico-religiosa, caratterizzata dalla centralità del tema della conoscenza di Dio. Da Cusano all’Imitazione di Cristo, da Pascal a von Hügel il pensiero di Steere aveva cercato una strada trovando infine un punto di appoggio nella filosofia di S. Kierkegaard. La conoscenza diretta del mondo cattolico ebbe però inizio con un soggiorno in Germania presso l’abbazia di Maria Laach e l’avvio di alcuni legami con personalità come il benedettino Damasus Winzen e il teologo svizzero Romano Guardini. L’influenza del mondo monastico benedettino è visibile anche in quella che fu una delle iniziative più importanti avviata da Steere la fondazione cioè di un Quaker Center for study and Contemplation agli inizi degli anni trenta. Esso prese il nome di “Pendle Hill” in omaggio ad uno degli episodi più noti della vita di George Fox, quando il fondatore della Società degli Amici ebbe una visione sulla collina di Pendle Hill in cui si prefigurava l’irradiamento universale del nuovo gruppo religioso. Il Center fondato da Steere intendeva essere una sorta di “monastero” quacchero in cui le attività di studio, il lavoro e i momenti di silenzio si intrecciavano secondo una scansione tipica della tradizione benedettina.

L’interesse per la mistica si era intrecciato nella vita di Steere con un impegno costante nell’insegnamento, svolto all’Haverford College a fianco di Rufus Jones, un’altra grande figura di teologo e filosofo che ebbe influenza duratura sul giovane Steere, e nelle attività tipiche del mondo degli Amici in favore della pace, della riconciliazione e del dialogo tra le culture. E’ un connubio che lo stesso Steere aveva definito come “misticismo pratico”, salva la contraddittorietà della definizione stessa. Durante il secondo conflitto mondiale e nel primo dopoguerra Steere era stato in Germania e in Finlandia per sostenere la difficile situazione delle locali comunità degli Amici. Dai primi anni cinquanta era stato in Africa (dapprima presso la missione di Albert Schweitzer a Lambarené poi nel Sudafrica dell’Apartheid) e in Asia (in India e Giappone dove ebbe i primi contatti con il mondo religioso buddista e induista) . Steere giungeva quindi a Roma con un bagaglio di esperienze ormai consolidate, una visione del mondo non provinciale ed un atteggiamento di simpatia verso il cattolicesimo che non era mai venuto meno rispetto agli anni della formazione. La partecipazione al concilio significava in primo luogo l’essere inseriti in un ambito celebrativo e liturgico del tutto estraneo al mondo degli Amici.

Steere – che ebbe in seguito a definirsi un “quacchero High Church”- riuscì però ad apprezzare tutti quegli aspetti che incontravano la sua sensibilità religiosa. Nei primi rapporti inviati da Roma inserì un traduzione integrale della preghiera dell’Adsumus che costituiva un elemento essenziale della tradizione conciliare e che, in quanto preghiera di invocazione dello Spirito, aveva indubbiamente un sapore molto vicino al senso della preghiera dei quaccheri: “Siamo qui Santo spirito di Dio; siamo qui coscienti del peso del nostro peccato ma radunati insieme nel Tuo nome. Vieni a noi e resta con noi; degnati di entrare nei nostri cuori. Insegnaci cosa fare e come procedere; e mostraci ciò che dovremmo portare a termine così che con il Tuo aiuto noi possiamo piacerti in ogni cosa…”. In seguito ebbe poi l’occasione di proporre in varie sedi una riflessione sulla consonanza – almeno nel loro significato ultimo- tra le diverse forme liturgiche cattoliche e della tradizione degli Amici:

In campo liturgico la forma originale del culto che consiste nella riunione di un gruppo di persone sedute in una preghiera d’attesa silenziosa per circa un’ora con occasionali interventi di persone che si sentono guidate a parlare, è un momento in cui Cristo può radunare i fedeli silenti e formare sé stesso di nuovo nel loro cuore. Tutto ciò sembra meno estraneo di quanto possa saltare agli occhi a quello che appare il polo opposto della scala liturgica, la Messa romano-cattolica. Perché entrambi questi servizi liturgici esistono per l’adorazione di Dio, ed entrambi sono servizi ai quali ci accostiamo come anime fragili e cenciose chiedendo allo Spirito Santo – la presenza vivente di Cristo- di riunire le nostre anime dopo i i loro singoli percorsi. Ed in entrambi, quando sono apprezzati, vi è un dono e un compito che scende sui singoli partecipanti

Durante la seconda sessione conciliare erano in programma i dibattiti su alcuni temi tra i più importanti quali la chiesa, l’ecumenismo, la libertà religiosa. Gli schemi usciti dalla preparazione erano stati in buona parte archiviati e rifatti a partire da un approccio più attento alle istanze provenienti dalla periferia del cattolicesimo. Vi era poi la novità del nuovo papa che molti consideravano vicino ai settori del riformismo e proprio per questo era atteso al varco di una verifica. Il primo discorso di Paolo VI in concilio il 29 settembre 1963 ebbe una vasta risonanza e fu anche per Steere l’occasione per una prima valutazione. Il segretariato infatti aveva chiesto agli osservatori –a nome dello stesso papa- di far pervenire le loro reazioni sul discorso papale. Così come altri anche il delegato degli Amici inviò un breve scritto dal quale emergeva soprattutto la valorizzazione del gesto di Paolo VI che –seppure in modo molto cauto- aveva avanzato una richiesta di perdono per le colpe del cattolicesimo nella dinamica della divisione. Scriveva Steere: In questo discorso il consolidamento ed una più vigorosa affermazione della preoccupazione per coloro che sono fuori della chiesa cattolica sono andati così lontano da includere un fatto finora unico nella storia del papato: un papa che chiede perdono a nome della chiesa cattolica per i peccati che possono aver portato alla separazione e offre perdono per gli eccessi che sono stati compiuti contro di essa durante questi infelici eventi

Il punto era stato valutato positivamente da tutti gli osservatori accreditando la figura del nuovo papa come un degno continuatore dell’eredità roncalliana. Con molta franchezza Steere avanzò anche alcune osservazioni critiche al discorso papale. Il papa aveva accennato alla riunione di tutti i cristiani sotto un unico “capo” senza specificare il tenore di questa unificazione: si trattava di un primato di carattere spirituale o di una supremazia giuridica nel senso quindi di un assorbimento? In esso ortodossi e protestanti potevano vedere “il sottile potere monarchico e l’autorità che spesso si tramutano in un’inaccessibile burocrazia che essi vogliono a tutti costi evitare”. Vi era inoltre la questione della pace che secondo Steere era la condizione essenziale per il rapporto tra la chiesa e il mondo, vista la divisione attuale tra i due mondi dell’est e dell’ovest.

Paolo VI non aveva fatto cenno al tema che invece era stato affrontato pochi mesi prima nella enciclica di Giovanni XXIII Pacem in terris (“Mancava nel discorso il riconoscimento di Giovanni XXIII che anche i paesi comunisti possono cambiare i loro obiettivi immediati e che un terreno comune deve essere trovato e coltivato e ciò ha reso questa sua parte un po’ astratta”). L’auspicio di Steere era che non si trattasse di un’omissione voluta, preludio ad un cambio di strategia da parte della chiesa cattolica, e che la cosa potesse poi trovare spazio in una futura enciclica (la prima del nuovo papa che molti attendevano con ansia).

Gli osservatori in questi primi giorni della sessione ebbero anche la possibilità di conoscere Paolo VI durante un’udienza ad essi riservata. Le reazioni generali erano positive riconoscendo in Montini un genuino impegno per l’ecumenismo e un’estrema consapevolezza della difficoltà del compito. «Abbiamo avuto l’impressione di un uomo brillante e sensibile, impegnato nel suo compito e veramente preoccupato per la ferita aperta nell’unità del cristianesimo» notava Steere. Il soggiorno a Roma era però l’occasione per il delegato degli Amici di conoscere il cattolicesimo in tutte le sue componenti. Fin da questo primo periodo si manifestano le linee principali dell’impegno di Steere nei confronti del cattolicesimo ed i suoi punti di interesse maggiore. La vita degli osservatori era scandita durante il concilio dalle congregazioni generali che si tenevano la mattina nell’aula di San Pietro ma intorno ad esse si sviluppava una vita sociale ricca di appuntamenti che coinvolgeva non solo i vescovi ma un po’ tutte le componenti del cattolicesimo interessate. In genere l’ingresso degli osservatori in questo circolo di incontri e di scambi passava attraverso linee di nazionalità o perlomeno linguistiche e a tale tendenza non fuggiva anche Steere che ebbe numerosi contatti soprattutto con l’episcopato cattolico americano. Il concilio aveva rotto gli schemi un po’ rigidi che regolavano i rapporti tra le confessioni nel contesto americano, innestando un nuovo spirito di cordialità e di apertura anche all’interno di un episcopato tutto sommato conservatore quale era quello americano. Così capitò a Steere di raccogliere le confidenze del vescovo di Duluth Francis Joseph Schenk che raccontava la propria “conversione” all’ecumenismo grazie proprio all’esperienza conciliare, oppure di incontrare il card. Meyer di Chicago dotato di “una semplicità fine ed integra”. Gli interventi in aula permettevano di cogliere la varietà di posizioni all’interno di un gruppo significativo di vescovi quale era quello nordamericano e naturalmente furono gli interventi dell’ala progressista ad appassionare l’osservatore degli Amici: nell’ottobre 1963 era stato l’intervento in aula di mons. Wright sul tema dei laici nella chiesa a meritare la definizione di “memorabile”. Nei tre periodi passati a Rome Steere ebbe poi l’occasione di conoscere altri esponenti importanti dell’episcopato mondiale, soprattutto di lingua inglese.

Nell’ottobre 1963 ebbe un lungo colloquio con l’arcivescovo di Westminter J. C. Heenan, dal quale emergeva un interesse non scontato nei confronti dell’esperienza degli Amici, insieme però alle perplessità del vescovo intorno ad alcuni aspetti della visione morale del quaccherismo contemporaneo. Pur non avendo rapporti diretti Steere seguì da vicino gli interventi di Suenens fuori e dentro l’aula conciliare cogliendo ad esempio con grande soddisfazione la perorazione del 22 ottobre 1963 sull’importanza dei carismi nella chiesa. Frequenti contatti ebbe anche con alcuni vescovi africani ed asiatici. India e Sudafrica erano stati al centro della preoccupazione di Steere negli anni precedenti e a Roma ebbe l’opportunità di incontrare i vescovi di Bophal e Indore, oltre al ex arcivescovo di Bombay Thomas Roberts. Negli anni del concilio era salita la tensione tra India e Pakistan e Steere cercò anche di interessare il papa Paolo VI –attraverso la mediazione del primate dei benedettini Butler- per un intervento diretto della Santa Sede. L’ipotesi di una udienza dal papa, con un altro rappresentante del FWCC, Kenneth Lee, ventilata nell’ottobre 1965 non sembra però che si sia realizzata. D’altra parte l’interesse di Steere per la situazione sudafricana e per i protagonisti della lotta all’apartheid lo portò ad incontrare in più occasioni il vescovo di Durban Denis Hurley, oltre ad alcuni esponenti della gerarchia dell’allora Rhodesia.

Come emerge dai suoi diari Steere non ebbe contatti particolari con gli episcopati europei né soprattutto con quelli dei paesi latini, probabilmente più lontani dal punto di vista culturale.

L’ambiente di più facile accesso per gli osservatori era quello dei periti conciliari, più o meno legati al segretariato per l’unità. Un colloquio con George Tavard, teologo assunzionista franco-americano che faceva parte del segretariato per l’unità, gli aveva aperto le porte alla comprensione del dibattito ecclesiologico, sciogliendo i dubbi sulla possibilità di una seria riformulazione del tema del primato nella chiesa. Aveva detto Tavard “Il cattolicesimo non rinuncia mai a nulla della propria tradizione ma spesso diventa poco interessato ad alcuni argomenti”. Era questo evidentemente il caso del tema del primato papale. Steere lesse i libri di Hans Küng e partecipò ad una sua conferenza nell’ottobre 1964 dandone un ampio resoconto nel suo diario conciliare. Più produttivo fu però l’incontro con il benedettino americano Geoffrey Diekmann, incaricato di fare da interprete per gli osservatori, che porterà alla formulazione di un progetto comune, la creazione cioè di un centro di spiritualità ecumenica a Collegeville. L’idea nasce nell’ottobre 1963 ma diventerà realtà nel 1965 con la convocazione di un primo incontro misto sui temi della spiritualità e della preghiera. D’altra parte Steere aveva affermato più volte di considerare proprio il terreno della spiritualità come “il terreno ultimo che sta alla base di tutte le nostre differenze”. Furono però numerosi i teologi e i periti di varia provenienza che incrociarono la strada del delegato degli Amici durante la sua permanenza a Roma dal gesuita P. Arrupe, al moralista austriaco B. Häring, al benedettino A. Mayer a mons. Louis Ligutti, incaricato dalla S. Sede presso la FAO, oltre naturalmente allo staff del segretariato (in particolare Willebrands e T. Stransky). Fedele alla propria concezione di una chiesa “dal basso” Steere ebbe poi alcuni contatti con il laicato cattolico, scoprendo la vitalità di esperienze relativamente nuove quali il movimento dei Focolari (definiti durante una visita a Grottaferrata “una forma di apostolato dei laici di grande purezza e fervore”) o l’associazione femminile di origine olandese De Grael.

Il programma della seconda sessione conciliare prevedeva alcuni dei temi maggiori del cosiddetto aggiornamento, soprattutto dal punto di vista del rinnovamento interno della chiesa (schemi sulla chiesa e sull’episcopato) e dei rapporti con il resto del mondo cristiano (schema sull’ecumenismo, sugli Ebrei, sulle chiese orientali e sulla libertà religiosa). L’ottica di Steere non sembrava dare soverchia importanza al tema ecclesiologico che pure molti da parte ortodossa e protestante consideravano decisivo. Il delegato L. Vischer del WCC aveva definito l’ecclesiologia “il ricettacolo di tutte le divisioni”. Il delegato degli Amici seguì il dibattito in aula sul De Ecclesia concentrando la propria attenzione sul tema del ruolo dei laici nella chiesa. Il suo unico intervento durante le riunioni col segretariato fu dedicato proprio al capitolo III dello schema De Populo Dei et speciatim de laicis. Già altri osservatori delle chiese “libere” avevano criticato l’insistenza sul tema dell’obbedienza. Il teologo olandese G. Berkouver aveva proposto di partire da una citazione di H. Urs von Balthasar per riformulare il concetto di obbedienza in termini diversi dalla semplice sottomissione: l’obbedienza doveva essere concepita come esperienza vissuta dell’essere «circondati, avvolti dalla verità dello stesso Cristo». Steere sollevava invece la questione del ruolo dei laici di fronte ad un mondo sempre più distante dal messaggio cristiano. Nel capitolo in questione riconosceva lo sforzo di “defeudalizzare il linguaggio omettendo i riferimenti alla supremazia della gerarchia e del sacerdozio eucaristico”. Occorreva però andare oltre sfumando maggiormente alcune espressioni e sviluppando il ruolo della comunità in tutti gli ambiti della vita della chiesa, a cominciare da quello liturgico. Non erano rari i casi in cui nella storia della chiesa essa si era affidata alla voce dello Spirito materializzata nella figura di semplici laici (S. Francesco, Caterina da Siena ed altri ancora). Prendendo spunto poi dall’intervento di Marcel Dubois, vescovo di Besançon, Steere individuava come compito dei laici proprio il contatto con il mondo della non credenza o della “chiesa latente” (P. Tillich): Mi ha molto interessato il discorso di mons. Dubois; suggeriva di comprendere l’apostolato e il ruolo dei laici nell’apostolato di insieme della chiesa universale; sottolineava specialmente questo apostolato totale indirizzato ai cristiani on cattolici, ai membri delle religioni non cristiane e in particolare a quella che Paul Tullich chiama “the latent church”, la Chiesa nascosta, cioè coloro che non hanno alcuna adesione formale ad una fede ma che hanno fame di giustizia e di un ordine nel mondo. Il laico è più vicino, rispetto ad ogni membro del clero, a questo ultimo gruppo, con il quale condivide la mensa e parla quotidianamente; potrebbe, come Charles Peguy canta nella sua Giovanna d’Arco, avere orrore di essere salvato da solo o di andare verso il Padre da solo”.

Il momento più importante per gli osservatori fu però nella seconda sessione la discussione sullo schema De oecumenismo che impegnava la chiesa ad un’assunzione diretta di responsabilità nei confronti delle altre chiese e del movimento ecumenico. Il testo era accompagnato da due capitoli aggiuntivi che contenevano i progetti preparati dal segretariato sui temi del rapporto con gli Ebrei e sulla libertà religiosa. Erano stati uniti principalmente per ragioni tattiche perché sotto l’ombrello dell’ecumenismo anche i due progetti tanto controversi avrebbero potuto avere accesso all’aula conciliare. Gli osservatori protestanti ed ortodossi in buona parte si erano espressi a favore della separazione dei due capitoli dallo schema, in nome di un concetto “tecnico” di ecumenismoche aveva alle spalle ormai una vasta letteratura e tutta l’esperienza del WCC. Gli interventi deidelegati delle “Free Churches” apparivano molto meno condizionati da questa tradizione, mostrando invece i tratti di una particolare sensibilità che concepiva l’ecumenismo entro il contesto più ampio del rapporto chiesa-mondo e non come un fatto interno alle chiese (o ancora più specificamente all’ambito teologico). Questi osservatori guardavano in genere lo schema nella sua interezza manifestando apprezzamento per l’accostamento con i capitoli sugli ebrei e sulla libertà religiosa. L’unitariano Williams ad esempio propose una ristrutturazione dello schema dividendolo in due grandi parti (ecumenismo e libertà religiosa). All’interno della seconda parte avrebbe trovato il suo posto anche il capitolo sugli ebrei. Il delegato della IARF Van Holk espresse in questo modo l’ottica entro la quale -a suo parere- andava visto lo schema: «[…] quale impressione farà un decreto su questo argomento sul mondo contemporaneo? Si attende, si spera in un messaggio veramente liberatore ed evangelico». Per questo era meglio mantenere l’unità con i capitoli IV (contro ogni forma di razzismo) e V (affermazione della libertà religiosa). Anche Steere si pose in questa linea andando al di là del significato tecnico della parola “ecumenismo” e proponendo un allargamento dello stesso concetto: Non voglio distruggere l’obiettivo di mettere in ordine la nostra casa cristiana come primo punto in agenda.

Ma nel tipo di mondo in cui viviamo questo non può essere fatto nell’isolamento; né può essere fatto in un modo che giunga a conclusione senza aver coscientemente considerato i fratelli a noi più vicini: gli Ebrei e la loro fede, e gli altri uomini che Dio ha attirato a sé – i non cristiani nelle altre religioni mondiali e il vasto mondo dei non credenti, per i quali Dio brama. Non potete ignorarli mentre lavorate al problema più specifico dell’unità.

L’esperienza romana fu per Steere un momento decisivo nella maturazione della propria concezione dell’ecumenismo, ispirata al concetto di mutua irradiazione, e proposta in modo più compiuto negli scritti successivi. Al contrario di altri osservatori il delegato degli Amici non intervenne però in modo puntuale sul testo dello schema ecumenico, destinato poi a diventare il documento Unitatis redintegratio, dopo il distacco dai capitoli quarto e quinto.

Nella terza sessione conciliare la delegazioni dei Quaccheri era formata da due membri. Il segretario del FWCC A. Burns Chalmers aveva sostituito Steere nella prima parte della sessione, fino al 26 ottobre. Steere infatti era impegnato nei lavori dell’assemblea triennale dello stesso organismo a Waterford in Irlanda, dalla quale tra l’altro uscì con la nomina di nuovo capo ufficio del FWCC. L’importanza della sua figura nel panorama mondiale del mondo degli Amici era ormai riconosciuta e non poté che rafforzare la scelta di apertura verso il cattolicesimo. Le corrispondenze di Steere da Roma, oltre che inviate a più di trecento corrispondenti in tutto il mondo, furono pubblicate, per l’anno 1964-65, dal maggior organo di stampa del mondo quacchero, il Friends Journal.

Dal punto di vista della dinamica interna del concilio la terza sessione rappresentava il “tempo delle decisioni”, dopo il fecondo travaglio dei dibattiti dei periodi precedenti. Molti dei documenti già discussi ritornarono in aula per l’approvazione definitiva (i documenti sulla chiesa, sull’ecumenismo, sulle chiese orientali, sull’ufficio dei vescovi). Altri documenti giunsero all’assemblea o in versioni diverse dalla prima presentazione (i due schemi sugli ebrei e sulla libertà religiosa presentati ora come documenti autonomi) oppure come novità assolute (nel caso del cosiddetto “schema XIII” sulla chiesa nel mondo contemporaneo). L’attenzione di Steere fu ovviamente catturata da questi ultimi che tematizzavano proprio le istanze da tempo affermate dal rappresentante quacchero.

Lo schema sugli ebrei, dopo una revisione all’interno del segretariato per l’unità si era trasformato in una “declaratio” sui rapporti tra il cattolicesimo e le grandi religioni mondiali e questa svolta venne valutata con attenzione all’interno del gruppo degli osservatori, anche perché nel frattempo Paolo VI aveva annunciato nel maggio 1964 la creazione di un segretariato per il dialogo con le religioni non cristiane. Steere aveva coltivato già da tempo l’interesse verso il dialogo con le religioni. Fin dal 1954-55 aveva visitato l’India e il Giappone incontrando figure di primo piano delle religioni orientali come il discepolo di Gandhi, Vinoba Bave. Aveva anche pubblicato un abbozzo di riflessione sulla propria idea di un dialogo tra il cristianesimo e le religioni orientali improntato di nuovo alla “mutua irradiazione”. Uno stimolo essenziale all’approfondimento della questione gli era venuto però dalla lettura di un pro-memoria steso dall’ambasciatore svizzero in India, il cattolico Jacques Cuttat. Scriveva Steere nel suo diario: “La notte che lessi quel documento non riuscivo a dormire per l’eccitazione”. Il memorandum poneva le basi per un dialogo del cristianesimo con le varie religioni sulla base di una raffinata elaborazione teologica che riprendeva tutti i migliori frutti del pensiero cattolico sull’argomento. Per questo Steere, animato dall’idea che proprio gli Amici avrebbero potuto essere il perno di un incontro tra cristiani di diversa confessione e il mondo delle religioni orientali, raccolse informazioni più dettagliate sull’attività del Segretariato per i non cristiani in alcuni colloqui con Pierre Humbertclaude, il segretario designato, e con p. Joseph Neuner, un gesuita tedesco docente al seminario di Poona in India. Di primo acchito il panorama non apparve però incoraggiante. La cautela pareva il carattere primario dell’attività del nuovo organismo, per ora limitata alla pubblicazione di un bollettino e ad alcuni incontri con i vescovi delle regioni interessate. Per scelta il nuovo organismo non intendeva interferire negli affari conciliari né nella vicenda della nuova dichiarazione sulle religioni non cristiane, ancora saldamente in mano al segretariato di Bea, mentre la competenza sui rapporti con il mondo musulmano veniva affidata ad una commissione mista tra le Congregazioni Orientale e Propaganda Fide, sotto la guida del Padre Bianco J. Cuoq.

L’atteggiamento inspiegabilmente cauto dei dirigenti del nuovo segretariato si scontrò con l’impazienza di Steere, evidentemente poco aduso allo stile di lavoro della Curia romana, che notava nel suo diario: “hanno speso molto del loro tempo nel rassicurare che nulla cambierà per la loro esistenza e su queste basi la reazione generale è stata: “Perché sono allora apparsi se non intendono cambiare nulla?” Steere offrì al padre Neuner e all’arcivescovo De Souza, la collaborazione dei quaccheri e sua personale per il sostegno ai progetti di incontro e di mutua conoscenza che in India cominciavano tra esponenti del mondo cristiano e delle altre religioni storiche del continente. Scarse sembravano però le speranze di un appoggio diretto da parte del nuovo organismo. Nel colloquio con Humbertclaude l’unica notizia positiva fu quella della creazione di un nuovo istituto di ricerca collegato alla Notre Dame University, sotto la direzione di George Shuster. Nella visuale di Steere, non era però sufficiente un approccio accademico. Steere meditava piuttosto le parole di uno studioso islamico americano, con la speranza che esse potessero diventare realtà anche per il cattolicesimo: “Abbiamo le traduzioni; abbiamo le lingue; abbiamo gli studi; ma manchiamo del contatto personale e del profondo scambio spirituale gli uni con gli altri nelle relazioni con le religioni mondiali”. A Humbertclaude pose anche la questione più generale dell’approccio alle religioni che avrebbe ispirato il lavoro del segretariato. Secondo molti occorreva segnare una discontinuità radicale con quello tradizionale della congregazione di Propaganda Fide (dal conversionismo al dialogo) ma anche su questo punto Humbertclaude tendeva a minimizzare: “Ha ammesso che effettivamente era così ma nondimeno ha tenuto ha precisare che essi non intendono contrapporsi a nessuno. Pensa che abbiano già un compito considerevole in Europa e in America nell’educare i cattolici ad una nuova comprensione e al rispetto per le religioni non cristiane”. Il tema del rapporto con le religioni emerse anche all’interno della discussione dello schema sull’attività missionaria della chiesa che tornava in aula dopo una storia travagliata. Durante la riunione con gli osservatori del 10 novembre 1964 Steere intervenne facendo notare proprio la mancata considerazione di un tema che si rivelava decisivo per la riconsiderazione dell’attività missionaria: Ho chiesto come potesse lo schema dimenticare quasi completamente il cambiamento radicale di atteggiamento che assumerebbe l’attività missionaria di fronte ad un serio approccio nei confronti delle religioni non cristiane e come, da parte della commissione, si potesse presentare una futura strategia missionaria per il futuro senza prendere in considerazione questo aspetto e ho riscosso molto simpatia con la critica alle omissioni degli esperti cattolici che hanno preparato lo schema

La riunione, concentrandosi anche su altri aspetti critici dello schema quali la questione del proselitismo, era stata contrassegnata da un’insolita “franchezza” che d’altra parte era evidente anche nell’atteggiamento critico di molti vescovi cattolici. Per questo il De missionibus andrà poi incontro ad una radicale rielaborazione durante l’intersessione del 1964-1965.

Parzialmente deluso dagli sviluppi nel campo del dialogo con le religioni Steere si volse invece con entusiasmo all’analisi dello schema XIII sulla chiesa nel mondo contemporaneo.

Nell’ottobre 1964 i rappresentanti del cristianesimo liberale Van Holk e Williams prepararono un documento, poi sottoscritto anche da Steere, che ben rappresenta la visione di un dialogo aperto con la cultura contemporanea. Esso presentava prima di tutto alcune osservazioni di carattere generale sull’impostazione dello schema conciliare, assumendo parzialmente alcuni motivi emersi anche nel dibattito in aula e nelle riunioni degli osservatori. Il materiale contenuto negli Adnexa andava, almeno in parte, inserito nel testo cercando però di approfondirne l’analisi con l’aiuto il più largo possibile di esperti laici dei vari settori. Al pari di una proposta parallela dei monaci di Taizé, Schutz e Thurian, gli autori legavano la volontà di “dialogo” con il mondo (e si faceva cenno anche alla Ecclesiam Suam di Paolo VI) alla necessità di adoperare linguaggi diversi a seconda degli interlocutori e di rinunciare definitivamente a un certo tono paternalista. Lo schema poi sembrava ignorare alcuni aspetti della più recente modernizzazione, quali gli sviluppi della cibernetica e dell’automazione industriale, destinati anche a mettere in crisi una certa idea cattolica della “vocazione” dell’uomo al lavoro. Come rapportarsi a tipi di lavoro di carattere “anti-sociale” o perlomeno “socialmente irrilevanti”? Ancor di più pareva lontana la percezione della vera natura della società occidentale contemporanea in un’era “post-religiosa” secondo la felice espressione di Bonhoeffer. Il nucleo della proposta di Amici ed unitariani era però contenuto nel paragrafo finale, nell’appello alla configurazione di una nuova antropologia che rappresentasse una vera svolta per la chiesa cattolica. Attenti alle ragioni del cattolicesimo, la cui visione dell’uomo appariva più armonica e positiva, rispetto al pessimismo tipico della teologia della Riforma, essi chiedevano però uno sforzo nell’incorporare i migliori aspetti della modernità: […] insieme alla indispensabile visione biblica (imago Dei, peccato, liberà volontà, redenzione) la rinnovata dottrina dell’uomo che dovrebbe essere riflessa o abbozzata nello schema, potrebbe prendere in considerazione la moderna visione dell’uomo come un grande “rischio” che Dio si è preso nel creare questa particolare, libera creatura e le non previste complicazioni nella sua vita collettiva in un momento in cui i problemi fisici sono progressivamente risolti. Una nuova antropologia, che collochi l’uomo nel suo contesto sociale, potrebbe allora essere connessa con l’ideale emergente della società aperta e responsabile per suggerire una dimensione religiosa e specificatamente cristiana al lavoro pratico reso urgente per il miglioramento della società moderna, apportando nuove ratifiche e principi unificatori per una nuova chiamata a tutti gli uomini di buona volontà a lavorare più diligentemente e con fiducia per una società mondiale di pace, giustizia, e libertà ordinata – una visione veramente ecumenica nello spirito sia della Roma imperiale che di quella apostolica L’appello finale ad una sorta di alleanza tra l’eredità della cultura classica e il pensiero cristiano ben sintetizza il carattere “umanistico” della proposta di Amici ed unitariani. Il problema del rapporto con la modernità e dell’approccio intransigente che aveva dominato la visione cattolica fino ad anni molto recenti costituiva evidentemente il nodo problematico dello schema. Anche l’anglicano Bernard Pawley –in un intervento durante la riunione del martedì- aveva sottolineato il problema dell’anacronismo di molta dottrina cattolica e messo l’accento sulla necessità da parte della chiesa di riconoscere prima di tutto le proprie colpe di fronte ad uno sviluppo storico della modernità che non era stato capito e anzi, ferocemente avversato. Era una questione riguardante tutte le chiese. “La chiesa cattolica non è l’unica che ha trattato duramente i suoi Galileo” aveva osservato Pawley. Essa comunque, al di là della fondatezza di molti rimproveri provenienti da ambienti esterni, si poneva come decisiva di fronte alle attese di una opinione pubblica diffusa nel mondo occidentale. Steere apprezzò molto la proposta di Pawley e notava –nel diario conciliare che lo stesso discorso dello schema avrebbe tratto forse giovamento dalla riscoperta della lezione di un uomo come Nicola Cusano. L’approccio del grande vescovo e filosofo medievale, che aveva avuto un ruolo non secondario nella stessa formazione filosofica di Steere, era imperniato sul rispetto per l’autonomia e le potenzialità positive dello sviluppo scientifico e culturale dell’Umanesimo del suo tempo.

Al di là delle questioni generali relative al rapporto chiesa-modernità lo schema XIII trattava il tema della pace e della guerra che da subito era stato al centro dell’attenzione dei delegati degli Amici. Uno dei punti che aveva suscitato le maggiori discussioni, con una vera propria polarizzazione all’interno dell’episcopato, era la questione della deterrenza e del possesso di armi nucleari. Le stesse divisioni si erano riprodotte all’interno del gruppo degli osservatori, pur emergendo nell’insieme una posizione più vicina alla tradizione del pacifismo cristiano. Steere nel suo resoconto del dibattito in aula descriveva con ammirazione l’intervento del patriarca dei Melchiti Maximos IV, nel quale vedeva rispecchiata l’antica tradizione del vescovo “Defensor civitatis”. Di fronte alle posizioni critiche dei vescovi Beck e Hannah oppose una riflessione sui rischi della “escalation”. La sua maggiore preoccupazione fu però quella di veder riconosciuto anche dallo schema il diritto all’obiezione di coscienza. Una richiesta in questo senso era già stata avanzata e Steere si compiacque del fatto che negli “adnexa” al testo fosse presente una breve frase su questo tema: “Sarebbe un grande passo avanti per la chiesa cattolica se fosse approvato perché in certi paesi come l’Italia, i cattolici e anche i preti come in un caso l’anno scorso, sono messi in prigione e lo Stato confida nell’approvazione della chiesa in questa azione […]”. Attraverso colloqui con alcuni vescovi e con i membri della commissione (König, Alfrink, McGrath, Joyce e Häring) Steere cercò quindi di sostenere la richiesta, avanzata già prima del suo arrivo dal collega Burns Chalmers e dal metodista Muelder, di uno spostamento della frase dagli adnexa al testo vero e proprio dello schema. La questione sarebbe stata ripresa nel periodo conciliare successivo.

Alla quarta sessione conciliare il numero degli osservatori era considerevolmente cresciuto anche perché vi era stato un ricambio molto forte all’interno delle varie delegazioni. Tale allargamento, in sé naturalmente positivo, era andato però a scapito della omogeneità del gruppo e della funzionalità dei momenti comuni. In alcuni momenti il numero degli osservatori era vicino ai novanta provocando una serie di difficoltà di carattere anche logistico. Steere ritornò a Roma all’inizio della sessione e fin da subito fu impegnato in un nuovo intervento a favore della revisione dello schema XIII, in particolare sui paragrafi relativi al tema della guerra e dell’obiezione di coscienza. In un documento redatto alla fine di settembre 1965 il delegato degli Amici si soffermava sui numeri 100 e 101 dello schema. Il primo (De actione internazionali ad bellum vitandum) riguardava il problema della deterrenza e nasceva da una formulazione di compromesso visti gli opposti schieramenti che si erano creati in concilio. Steere si soffermava sulla frase relativa al possesso degli armamenti nucleari: “Patet igitur liberum usum armorum hodiernorum moraliter amitti non posse, et tendendum esse ad eorum omnimodam suppressionem. Quamdiu tamen institutiones internationales pacem satis communire non valent, possessio illorum armorum, solum ad deterrendum adversarium, eiusdem armis instructum, non affirmari potest ut in se illegittima”.

Ne contestava la logica, ricordando soprattutto che nel precedente numero 98 vi era un’esplicita condanna della guerra nucleare in sé. Distinguere il possesso delle armi dal loro effettivo uso era una soluzione risibile poiché evidentemente esse potevano avere un’azione deterrente solo nel momento in cui fossero pronte all’uso. La frase pareva una semplice rassicurazione ai “grandi poteri che stanno preparando una guerra nucleare” e allineava la posizione della chiesa a quella dell’opportunità politica del momento. Per questo Steere chiese la cancellazione della frase o almeno una sua rielaborazione in senso opposto.

L’altro problema era quello della obiezione di coscienza. L’insistenza dei Quaccheri insieme ad altre pressioni aveva permesso il passaggio di un cenno a questo tema dagli adnexa al testo delle schema. La formulazione conteneva però un aspetto problematico, fissando la possibilità di disobbedienza all’autorità superiore solo nei casi in cui le leggi divine venissero “manifestamente” violate: “Ubi autem violatio legis Dei non manifeste patet, praesumptio quidam iuris auctoritaticompetenti agnoscenda est, eiusque iussis est parendum, sed illi qui iussa impertiunt et rei publicae rationem moderantur, multo magis obligatione adstringuntur summa cum prudentia decernendi et secundum legem moralem agendi”. L’impossibilità di stabilire con certezza questa evidenza (inapplicabile secondo Steere pure in casi eclatanti come quello del regime nazista) portava a vanificare il senso stesso del paragrafo.

L’intervento di Steere venne rafforzato da una proposta analoga del luterano Skidsgaard relativa sempre al n. 100. La frase in sostanza riconosceva l’equilibrio del terrore mentre da una chiesa ci si sarebbe dovuta aspettare piuttosto una parole profetica, di “evangelica semplicità, anche se tale parola suonasse sciocca alle orecchie di molti politici e uomini di legge”. Skidsgaard però aggiungeva un’ulteriore osservazione relativa al n. 98, chiedendo in sostanza un ritorno alla formulazione primitiva di quel paragrafo, la cui la cui condanna della guerra di difesa era stata mitigata da espressioni di tono completamente diverso, a causa delle pressioni provenienti da vari vescovi e periti.

Nei primi giorni di ottobre (tra l’1 e il 12) Steere fu assente da Roma per alcuni impegni legati alla sua attività nel FWCC. Potè quindi seguire il dibattito che in quei giorni si svolgeva sullo schema XIII dalle agenzie di stampa e, al suo ritorno a Roma, dai colleghi osservatori, oltre che dalla moglie Dorothy. L’intervento che –sul tema della guerra e della pace- aveva fatto più scalpore provocando la reazione positiva degli osservatori, era stato quello dell’abate benedettino di Downside C. Butler al quale, non a caso, Steere aveva consegnato il suo documento nei giorni prima della sua partenza per Londra. Butler si era espresso in modo non equivoco a favore del riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Allo stesso modo un altro vescovo inglese, George Andrew Beck di Liverpool, nel suo intervento poté onorare la promessa fatta al rappresentante degli Amici. Beck era uno dei sostenitori della liceità del possesso di armi nucleari in funzione deterrente ma in un colloquio con Steere, pur non rinunciando alle proprie convinzioni, si era impegnato a insistere, nel proprio intervento in aula, piuttosto sulla necessità di trovare ogni forma di soluzione dei conflitti alternativa alla guerra. E così fece nei primi giorni di ottobre. Dopo il dibattito la commissione competente avviò una revisione radicale dei paragrafi sui temi della pace e della guerra che rispondeva essenzialmente al criterio “della ricerca del maggior consenso rispetto alle diverse richieste dei padri”. Le questioni sollevate dagli osservatori rimasero sullo sfondo ma ebbero sicuramente un effetto sul risultato complessivo. Il grande numero di emendamenti richiesti dai padri durante la votazione del capitolo mostrava infatti la maggiore chiarezza della nuova versione sui due punti toccati anche da Steere, il sostegno all’obiezione di coscienza e la condanna degli armamenti nucleari.

Agli inizi di dicembre fu distribuito il nuovo testo dello schema insieme alla cosiddetta “expensio modorum” cioè la valutazione fatta dalla commissione competente degli emendamenti presentanti dai padri. Nel nuovo testo (che sarà poi quello definitivo di Gaudium et spes) si riconosceva onestamente la presenza di pareri diversi riguardo al problema della deterrenza ma l’accento era posto sulla necessità di trovare rimedi più radicali ai conflitti in atto: “Qualunque cosa si debba pensare di questo metodo dissuasivo, si convincano gli uomini che la corsa agli armamenti, alla quale si rivolgono molte nazioni, non è la via sicura per conservare saldamente la pace né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile” (GS n. 81). Anche il diritto all’obiezione di coscienza veniva riconosciuto, seppure in termini un po’ attenuati: “Sembra inoltre conforme ad equità che le leggi provvedano umanamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l’uso delle armi, mentre tuttavia accettano qualche altra forma di servizio alla comunità umana”(GS n. 79). In quei giorni Steere seguì con ansia le ultime vicende di Gaudium et spes, poiché l’iniziativa del vescovo americano Hannah sembrava mettere a rischio il risultato finale. Hannah si era fatto promotore della diffusione di una lettera, firmata da un gruppo di padri conciliari, nella quale si chiedeva di votare non placet sul capitolo dedicato alla pace ed eventualmente all’intero schema, in assenza di una sostanziosa correzione. Il problema era ancora una volta il possesso delle armi nucleari e la legittimità di una politica di deterrenza. La lettera era stata consegnata a tutti padri conciliari ed aveva provocato un intervento diretto della sottocommissione competente, reso pubblico con le stesse modalità, cioè con un comunicato diffuso tra i vescovi. Steere raccolse anche voci di una possibile alleanza tra i promotori dell’iniziativa e il gruppo tradizionalista di Carli e Lefebvre, il Coetus Internationalium Patrum. Alla fine fu la “fermezza” della commissione, unita alla ritrattazione del cardinal Sheah, che in un primo tempo aveva firmato l’appello di Hannah, a sbloccare la vicenda salvando il testo dello schema. Fu possibile allora a Steere “cantare il Te Deum” per l’approvazione definitiva dello schema.

Nella quarta sessione giungeva a termine anche la vicenda dello schema dedicato agli Ebrei e al dialogo con le religioni non cristiane. Una volta giunto a Roma Steere era tornato ad interessarsi all’attività del segretariato per i non cristiani, riprendendo la perorazione in favore dell’apertura di un dialogo concreto già avviata nel 1964. A conferma di una certa immobilità del nuovo segretariato Steere osservava il fatto di non avere sfruttato l’occasione della presenza a Roma di alcuni esperti delle religioni orientali come il rappresentante della Chiesa unita del Giappone, Ariga Tetsuaro e il vescovo siro Paul Verghese, di origine indiana, che erano però riparatiti a metà novembre. In una lettera a Marella, agli inizi di novembre, il delegato quacchero lamentava, oltre a una certa immobilità, lo “spezzettamento” che sembrava configurarsi nell’approccio del cattolicesimo alle religioni. Nella primavera del 1965 infatti era stato creato all’interno del segretariato di Bea un comitato per il dialogo con i musulmani. Considerato il fatto che già il rapporto con gli Ebrei era in mano allo stesso segretariato, al segretariato di Marella restava solamente la competenza per le religioni asiatiche, con inevitabili conseguenze negative per l’autorevolezza di un organismo che, secondo Steere, aveva “il compito più importante” e che “non solo per la chiesa cattolica ma per l’insieme delle chiese cristiane avrebbe potuto influenzare profondamente la loro capacità di comunicare al mondo del nostro tempo il vero messaggio di Cristo”. La grandezza del compito (cioè la creazione di una “vigorosa guida” per affrancare il cattolicesimo dall’approccio tradizionale di Propaganda Fide) contrastava con la mancanza di iniziative concrete. La fretta di Steere era forse da attribuire ad una scarsa conoscenza dei meccanismi propri della macchina curiale e del cattolicesimo in generale, di solito propensi ai cambiamenti lenti e graduali. Di certo nel caso del segretariato di Marella vi era una singolare prudenza non solo nell’allacciare rapporti concreti con gli interlocutori (fossero essi gli esponenti delle grandi religioni o gli esperti del mondo protestante) ma nella definizione stessa degli obiettivi e dei metodi del proprio lavoro. Lo aveva chiarito pubblicamente Marella nel dicembre 1964 sottolineando il fatto che ogni responsabilità nel rapporto con gli esponenti non cristiani restava in mano ai vescovi locali. La prudenza era d’altra parte legata anche al fatto che il documento conciliare non era stato ancora approvato e vi erano vaste fasce di opposizione nei suoi confronti.

Comunque, dopo un contatto con Willebrands e la consultazione di alcuni altri osservatori interessati, Steere ottenne un incontro con Marella e con il segretario Humbertclaude, al quale parteciparono anche Lukas Vischer e L. Van Holk, delegato della International Association for Religious Freedom. L’incontro era stato accuratamente preparato ed aveva come finalità un chiarimento relativo agli scopi e alle modalità del lavoro del nuovo segretariato. Erano sostanzialmente due le preoccupazione fatte valere dagli osservatori. Da una parte vi era la questione della base teologica di questo lavoro. Essa andava cercata nella elaborazione teologica dei pochi teologi cattolici che avevano affrontato il tema (Cuttat, Danielou, De Lubac o piuttosto Van Straaten e Kraemer)? E in che rapporto stava con il testo in via di elaborazione in concilio?

Dall’altra vi era la questione di una collaborazione con le chiese non cattoliche in questo ambito del dialogo interreligioso. Il segretariato era interessato ad uno scambio di informazioni e di riflessioni con i centri e le personalità maggiori del mondo protestante e anglicano? Durante la riunione emerse anche la proposta di una conferenza mista con rappresentanti del segretariato e di altre chiese o istituzioni non cattoliche. L’incontro non ebbe risultati significativi ma poté testimoniare  un interesse che tra gli osservatori era ben presente. Da parte cattolica la difficoltà maggiore restava la leadership di Marella che, ferma su un atteggiamento di attendismo, ostacolava anche la progettualità di quel piccolo gruppo di consultori che erano stati nominati dalla Santa Sede. Vischer, nel suo rapporto sulla riunione, aveva sottolineato proprio la novità di queste nomine con la scelta anche di un laico, l’americano James Kritzek (fatto pressochè unico nel panorama curiale di allora), e il contrasto con il discorso di Marella che aveva condotto l’argomentazione tutta in negativo. Il presidente del segretariato pareva preoccupato soprattutto di evitare interferenze con gli organismi di curia che già si occupavano in vario modo del rapporto con le altre religioni (dal segretariato di Bea alla segreteria di stato). D’altra parte anche dal punto di visto dell’approccio teologico la lettura da parte di Steere di un libro curato dal padre Hendrick van Straelen “Our attitude Towards Other Religions”, con la prefazione di Marella, non lasciava dubbi sulla scelta di non seguire le linee della riflessione dei teologi cattolici più innovativi: … per me il libro è stato una rivelazione. Il suo scopo fondamentale è quello di trattenere la Chiesa dall’orlo di un precipizio, quello cioè di un atteggiamento troppo aperto nei confronti delle altre religioni e di prendere a sculacciate gente come Karl Rahner (Das Christentum und die Nicht-christlichen Religionen), Schlette (Die Religionen als Thema der Teologie) e Anita Röper (Die Anonymen Christen) per essere stati troppo deferenti a queste religioni e troppo cauti nell’affermare che Cristo è l’unico messaggio per esse

Alla metà di ottobre il documento Nostra Aetate arrivò alla votazione definitiva, non senza uno strascico di polemiche di diverso colore, e anche Steere poté tracciare brevemente un bilancio del valore di un tale documento, sottolineandone il carattere un po’ troppo “predicatorio”:

La mia sensazione riguardo a questo documento, per il quale ho avuto una preoccupazione appassionata fin dal primo momento in cui ne ho avuto conoscenza, è che il testo finale contenga i punti essenziali che dovevano essere toccati ma che contenga inoltre più predicazione della dottrina cattolica di quello che era veramente necessario per fare un’umile confessione dei torti passati ed una sicura determinazione delle scelte future, così come per esprimere il debito non misurabile della religione cristiana nei confronti della sua eredità ebraica e il legame peculiare di tenerezza che deve sempre esistere se vogliamo mantenerci in un giusto rapporto con i nostri fratelli Ebrei

Allo stesso modo la parte dedicata al dialogo con le religioni orientali e con l’Islam lasciava a desiderare su molti punti ma Steere sottolineava il suo significato di “segno dei tempi” nella prospettiva della trasformazione del cattolicesimo: Lo sfondo delle relazioni con le altre religioni mondiali che era stato modellato per rendere più accettabile il documento lascia molto a desiderare nel suo adeguato rapporto con tale enorme soggetto. Sono grato comunque che anche questo magro riconoscimento del compito da portare avanti in questo grande dialogo tra il Cristianesimo e le Religioni non cristiane possa essere utilizzato come incoraggiamento alla Chiesa nel proseguire in questa direzione. Perché, a meno che io non fraintenda i segni dei tempi, è precisamente in quest’area che la teologia cattolica dovrà ripensare le sue posizioni in modo più drastico nei rimanenti anni di questo secolo se non vuole andare incontro a un fallimento nella sua missione universale di fronte al nostro mondo dove queste interconnessioni tra le religioni mondiali sono così attuali nei nostri giorni Questo giudizio finale è probabilmente significativo dell’atteggiamento globale di Steere –e di buona parte del mondo degli Amici- nei confronti del cattolicesimo conciliare. Lontani dalle categorie teologiche e giuridiche della chiesa cattolica seppero far germinare le istanze più significative della propria tradizione religiosa e spirituale, senza visioni manichee o pretese totalitarie ma nel rispetto del travaglio di un corpo ecclesiale che faticosamente si apriva alle esigenze della modernità. Incentrato proprio su questo aspetto ad extra del rinnovamento conciliare era anche il giudizio complessivo di Steere sulla sua esperienza romana, espresso con la sobrietà e la semplicità caratteristiche del costume degli Amici:

Durante le tre sessioni in cui ho avuto il privilegio di essere a Roma e di osservare lo schiudersi di un nuovo spirito e di un nuovo carattere tra i leader della Chiesa cattolica, mi è sembrato di vedere l’alba di una nuova concezione della chiesa intesa non più come un luogo nascosto o una fortezza ma piuttosto come un simbolo, un messaggero del fatto che Dio desidera stendere il suo amore non solo sui Cattolici o sui cristiani ma su tutti gli uomini, e che questa è la vera missione della chiesa – tenere i piedi di quella promessa sulla soglia del mondo. Se dovessi esprimere questo concetto nei termini dell’arca di Noé, la chiesa non ha intenzione di assicurare la salvezza di coloro che sono già a bordo dell’arca, ma è piuttosto come quel ramoscello di ulivo che la colomba ha portato, che ha in sé la promessa del futuro per tutti gli uomini a venire. “Perché Dio ha tanto amato il mondo” e non la chiesa in sé stessa. Questa idea scorreva largamente sulla soglia del concilio e può avere in sé un messaggio per ciascuno di noi