COME FINISCE UN AMORE
PHILIPPE BESSON
Un Philippe Besson speleologo dell’animo umano.
Quando Clément, l’uomo che ama, la lascia, Louise decide di fuggire da Parigi per allontanarsi da lui e dai luoghi di una vita a due.
In cinque intense lettere, Louise, la protagonista, traccia un periplo di emozioni che vanno dalle tristezze, alla disperazione, dall’amarezza alla collera di una donna ferita nei propri sentimenti.
Metamorfosi di un abbandono tra solitudine e soliloqui scavando un abisso tra il passato, il passato prossimo e la vita vissuta nel presente. Interessante la spiegazione dell’amore che viene elencata a pagina 101: cito testualmente…
“Amare, però, non significa aver raggiunto una volta per tutte delle certezze, significa dubitare sempre, tremare sempre. E poi, rimanere vigili per evitare che il veleno mortale dell’abitudine s’insinui e ci uccida, o peggio: ci anestetizzi. Non bisogna mai credere ci aver fatto tutto il da farsi, ma al contrario sedurre, continuare a sedurre sempre.
Amare non significa vincere ad ogni mossa. Significa assumersi dei rischi, fare scommesse incerte, accettare la paura di perdere la puntata per meglio gustare il brivido di raddoppiarla.
Amare non significa imboccare strade bell’e tracciate e segnalate.
Significa procedere come funamboli su baratri e sapere che dall’altra parte c’è qualcuno che dice in tono dolce e calmo: avanza, continua ad avanzare, non avere paura, ce la farai, sono qui io”.
Questo calarsi lentamente nel proprio io, nella propria anima a voler comprendere il perché della fine del suo amore la conduce infine alla liberazione di questa ossessione.
Però sarei curioso di sapere se Clément abbia letto o meno le lettere e semmai risponderà a Louise. Mah
Ziopee per Ecumenici
SUDAN: DUE MILIONI E DUECENTOMILA PERSONE A RISCHIO IN DARFUR DOPO L’ESPULSIONE DELLE ORGANIZZAZIONI UMANITARIE, AFFERMA AMNESTY INTERNATIONAL
Secondo Amnesty International, due milioni e duecentomila persone sono a rischio di fame e malattia a seguito della decisione, presa ieri dal governo sudanese, di espellere oltre 10 organizzazioni umanitarie tra cui Oxfam, Care, Save the Children e Medici senza frontiere.
“Milioni di vite sono a rischio e non c’e’ tempo, nel modo piu’ assoluto, per i giochi politici” – ha dichiarato Tawanda Hondora, vicedirettore del programma Africa di Amnesty International. “Queste organizzazioni forniscono la maggior parte degli aiuti umanitari a oltre due milioni di persone che si trovano in stato di vulnerabilita’. Con la loro espulsione, il governo sudanese ha preso di fatto l’intera popolazione del Darfur in ostaggio. Quest’azione aggressiva dev’essere condannata nel modo piu’ netto possibile dall’Unione africana, dalla Lega degli stati arabi e dall’intera comunita’ internazionale”. L’espulsione delle organizzazioni umanitarie e’ stata ordinata poco dopo la decisione della Corte penale internazionale di spiccare un mandato d’arresto nei confronti del presidente sudanese Omar al Bashir per le imputazioni di crimini di guerra e crimini contro l’umanita’. “La popolazione del Darfur, che da sei anni paga le conseguenze del conflitto, ora viene punita dal suo stesso governo come reazione al mandato di cattura” – ha aggiunto Hondora. “Le autorita’ sudanesi devono immediatamente ritornare sulla propria decisione e consentire alle organizzazioni umanitarie di continuare a lavorare per salvare vite umane. Ogni altra alternativa e’ semplicemente impensabile”.
Oggi, l’Unione africana ha tenuto una riunione di emergenza per discutere sul mandato d’arresto. La Lega degli stati arabi si e’ riunita ieri e ha espresso solidarieta’ al presidente al Bashir. Amnesty International sollecita il Consiglio per la pace e la sicurezza dell’Unione africana a convocare una sessione speciale, con l’obiettivo di assicurare il ritorno delle organizzazioni umanitarie in Darfur.“Come ogni altro paese, il Sudan ha la responsabilita’, derivante dal diritto internazionale, di garantire l’accesso all’assistenza internazionale alle persone che ne necessitano. Il fatto che ci sia un mandato d’arresto per il presidente del paese e’ del tutto irrilevante rispetto a questa questione” – ha concluso Hondora.
Sulla base del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, ratificato dal Sudan, le autorita’ sudanesi hanno l’obbligo di astenersi da azioni che violino i diritti economici, sociali e culturali dei propri cittadini e di chiedere assistenza internazionale se non sono in grado di adempiere a tale obbligo.
LA STORIA DI ANDREA: UNO DEI NOSTRI AMICI DI FACEBOOK CHE CHIEDE A TUTT* DI RIPRENDERE LA LOTTA PER LA RICERCA
Mi chiamo Andrea Trisciuoglio e ho 30 anni! Il 20 febbraio 2006 mi hanno diagnosticato una sclerosi multipla, una malattia cronica del sistema nervoso centrale(encefalo e midollo spinale) in cui la mielina (la sostanza che avvolge le fibre nervose) per motivi ancora sconosciuti viene distrutta dal sistema immunitario alterato in più zone (multipla) dove rimangono cicatrici (sclerosi) chiamate placche. Molti ricorderanno anche questa data per quella tragica casualità che vedeva Luca Coscioni spegnersi lo stesso giorno. Quando compare una disabilità, essa insegna a sfruttare al meglio le abilità residue. Della mia malattia, di questa intrusa, la cosa più importante è di averla trasformata in un’occasione di rinascita e lotta politica. Di aver avuto il coraggio di trasformare il mio privato in Res Publica. Di voler ribadire che la persona malata è anzitutto persona e, come tale, ha diritto a vivere un’esistenza piena. Un giorno spero che il neurologo mi chiami in seguito ad un trapianto di cellule staminali e mi dica: “Sulle lastre non riesco più a vedere le placche; la guaina mielinica che ricopre i tuoi nervi si è riformata; il tuo sistema immunitario non sarà più alterato”. Ma qui in Italia quell’infelice legge 40 del 19 febbraio 2004 su Procreazione Medicalmente Assistita e Libertà di Ricerca Scientifica vieta l’utilizzo di cellule staminali embrionali per la ricerca. Al momento non si sa ancora se siano meglio le staminali dell’adulto, del cordone ombelicale o quelle embrionali; l’unico modo per saperlo è studiarle, studiarle tutte, riavviare anche qui la ricerca scientifica. Si fa un gran parlare in questo paese della sacralità dell’embrione, ma mi chiedo “il malato cos’è?” Se il nostro paese continuerà ad essere vittima dell’oscurantismo anti-scientifico, milioni di cittadini come me continueranno ad essere condannati dall’irresponsabilità della politica prima che dalla gravità della malattia.
Sembra strano, solo a me, che si sia parlato di questa malattia, solo dopo che la poverina vedova Pavarotti ammise pubblicamente di averla?… e che con i suoi 180milioni di euro si sia andata a curare in America?
Perchè non si è fatta curare in uno dei nostri splendidi, magnifici, meravigliosi ed efficentissimi centri di cura e ricerca???
Forse perchè noi abbiamo ancora la legge 40 e la ricerca è bloccata in questa italiuccia???
Andrea Trisciuoglio
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INVITO
DialogArti
Dialogo tra israeliani e palestinesi attraverso il cinema
Un progetto della rivista Confronti finanziato con l’otto per mille della Chiesa Valdese
domenica 8 marzo 2009 ore 16
“ La Casa del Cinema” – Sala Deluxe – L.go Marcello Mastroianni 1 – Roma
(ingresso libero fino ad esaurimento posti)
introduce
Gian Mario Gillio, direttore Confronti
proiezione di due documentari e a seguire dibattito
“Hard Ball” di Suha Arraf, 2006 (52 minuti), un documentario che partendo dalle vicende della squadra di calcio Sakhnin, l’unica squadra araba nel campionato di calcio di serie A in Israele, attraversa le analogie e le diversità delle due società, quella israeliana e quella palestinese. Una luce, inoltre, sulla complessità, per la minoranza araba, di essere cittadini israeliani all’interno dello Stato di Israele.
“A Refusnik’s Mother” di Ori Ben Dov, 2008 (50 minuti), è un documentario che narra la storia di una donna ebrea israeliana che inizialmente non accetta la scelta del figlio di fare l’obiettore di coscienza al servizio militare e, invece, dopo varie riflessioni e vicissitudini, si convince che è la scelta giusta da fare e sostiene suo figlio.
saranno presenti
Suha Arraf, palestinese, regista del film “Hard Ball”
giornalista e già sceneggiatrice di “ La Sposa siriana” e “Il Giardino di limoni”
Marit Moran-Zameret, israeliana e protagonista del documentario “A Refusnik’s Mother”
traduzione a cura di Marina Astrologo
Per informazioni: Confronti – ufficio programmi 06 4820503 · programmi@confronti.net
SISTEMATICA VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI IN IRAN
Notizie Avventiste/Stampa Bahà’ì – Dal 14 maggio dello scorso anno, sette dirigenti della Comunità Bahá’í sono stati arrestati e sono tuttora reclusi nel carcere di Evin, in Iran, senza alcuna possibilità di difesa legale, in un processo che, come rimarcato dal Presidente del Parlamento Europeo, Hans-Gert Pöttering, “non assicura le fondamentali garanzie di uno Stato di diritto. Anche perché essi sono stati arrestati esclusivamente a causa del loro credo, mentre il Premio Nobel Shirin Ebadi, che si era offerta di patrocinarli, è stata minacciata”. Pöttering ha esortato il Paese mediorientale a ristabilire, in tempi brevi, il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà religiose.
Dal maggio del 2008, nelle carceri iraniane sono detenuti sei Bahá’í. Un settimo dirigente è in prigione dal mese di marzo del 2008. Essi sono stati incarcerati dalle autorità iraniane senza alcuna imputazione specifica.
Il 15 di gennaio 2009, il Parlamento Europeo ha redatto una una risoluzione nella quale l’Assemblea di Strasburgo rivolge un appello alle autorità iraniane, affinché “si dimostrino all’altezza delle affermazioni del Governo per quanto riguarda il rispetto delle minoranze religiose e liberino immediatamente i leader Baha’i che sono in carcere, unicamente, in ragione della loro fede”.
Sulla questione dei Baha’i in Iran si sono mobilitati, nei primi giorni di febbraio 2009, 224 intellettuali iraniani che attraverso una “lettera aperta” hanno espresso la loro vergogna per le “trasgressioni e le ingiustizie” perpetrate, nel corso degli anni, nei confronti dei Bahá’í in Iran.
Nel recente passato, anche Shirin Ebadi, premio Nobel per la Pace, in un rapporto sulla “violazione sistematica dei diritti dell’uomo in Iran”, ha denunciato che i Baha’i sono stati esclusi “dal lavoro e dall’accesso all’università”. Per questo motivo il Premio Nobel per la Pace ha assunto, in molti casi, la difesa dei Bahá’í, ricevendo l’ostilità e l’intimidazione delle autorità iraniane, le quali hanno impedito, il 10 dicembre del 2008, lo svolgimento, nel suo studio legale, delle celebrazioni del sessantesimo anniversario della nascita della Carta dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha adottato, il 18 dicembre del 2008, una risoluzione (presentata dal Canada e sponsorizzata da più di quaranta Paesi) che esprime “profonda preoccupazione per le gravi violazioni dei diritti umani” in Iran. Questa “risoluzione” disapprova l’Iran per l’aumentare della discriminazioni compiute al suo interno non solo nei confronti dei bahá’í, ma anche dei cristiani, degli ebrei, dei sufi, dei sunniti e delle altre minoranze religiose; oltre che per l’uso della tortura, per l’alta incidenza delle esecuzioni e per la “repressione violenta” perpetrata nei confronti delle donne.
ECUMENICI esprime anche la propria vivissima preoccupazione per le esecuzioni capitali di cui sono vittime le persone in Iran a causa del loro orientamento sessuale ma anche per l’indifferenza della società civile in Italia alle notizie che giungono a noi fra mille difficoltà e pericoli.
Sindrome da preghiera compulsiva: il Dio “tappabuchi” serve sempre, ad avviso di molti… Una nuova pista per noi per riscoprire le tesi di Bonhoeffer?
GERUSALEMME – C’era una volta la sindrome di Gerusalemme. Quella lieve forma di pazzia che colpiva, e ogni tanto colpisce, duecento pellegrini l’anno: europei, americani schiacciati dall’emozione di visitare la Città Santa, convinti d’essere personaggi biblici, tenuti qualche ora in osservazione in una clinica della periferia ovest e poi rimpatriati, non appena la smettono di sentirsi Sansone che abbatte le mura o la Vergine che cerca il Figlio. La letteratura medica ora s’arricchisce: all’Herzog Hospital, sempre a Gerusalemme, gli psichiatri hanno individuato e pubblicato su una rivista scientifica la loro ricerca sulla «sindrome da preghiera compulsiva». Una forma d’ossessione che prende seminaristi di collegi rabbinici, ma anche musulmani delle madrasse, troppo impegnati nella recitazione della prece quotidiana.
LA MALATTIA – Il fenomeno spunta qui, nella città che negli ultimi quindici anni ha cambiato pelle, dove gli ultraortodossi sono passati dal 5% al 35% della popolazione: gente che si fa un obbligo dell’osservanza, fin nei minimi dettagli, di pratiche e precetti. «In questo mondo – spiega la psichiatra Margarit Ben-Or –, si può creare una certa confusione tra zelo eccessivo e disturbo mentale». Ecco dunque il caso del fedele che ripete più volte la stessa preghiera, per paura di non averla recitata con la dovuta convinzione. O di chi va in bagno anche decine di volte, per lavarsi e purificarsi. O degli ebrei che passano il tempo a sistemarsi i tefillin, i lacci di cuoio nero che devono essere allacciati al braccio e alla testa. Il professor David Greenberg e il dottor Avigdor Buncik seguono al momento tre casi che definiscono «interessanti». Uno riguarda un ragazzo di 18 anni: «Questi pazienti sono ossessionati da domande che ripetono: ‘Ho avuto pensieri eretici?’, oppure ‘Dio è soddisfatto di come prego?’». L’équipe è in collegamento con un collega egiziano, il professor Ahmed Okasha, che al Cairo sta conducendo una ricerca parallela: «Ci sono musulmani – racconta Okasha – che mostrano lo stesso tipo di disturbi: rileggono più volte la stessa pagina del Corano, temono di non inginocchiarsi correttamente, spostano di continuo il tappeto per paura di non essere esattamente diretti verso la Mecca».
LA CURA – All’Herzog Hospital, i malati di preghiera vengono curati in modo “omeopatico”, ovvero con la stessa cosa che li affligge: la religione. «Organizziamo colloqui sulla fede – spiega Greenberg – e cerchiamo di cambiare la loro prospettiva, per esempio rimuovendo la paura d’una punizione divina se non s’è pregato come si deve». Il problema per i medici, però, è che serve una preparazione teologica profonda, per affrontare discussioni con studiosi dell’ebraismo. «In effetti, dobbiamo essere pronti un po’ su tutto. Quando non ci arriviamo noi, ci facciamo aiutare da alcuni rabbini». E se nemmeno questo serve? In tutti gli ospedali del mondo, se il caso si fa disperato, il rimedio è sempre lo stesso: non ci resta che pregare.
Corriere della Sera – 26 febbraio 2009
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