Albert Schweitzer

 

Schweitzer, san Francesco luterano

01 ottobre 2016

Il principio del rispetto per la vita è il cuore del pensiero e della vita di Albert Schweitzer

(Paolo Ricca) Nato in Alsazia nel 1875, morto a 90 anni nel 1965, Albert Schweitzer fu insignito del premio Nobel per la pace nel 1954. Pur avendo davanti a sé una brillante carriera universitaria (era un teologo di rango), vi rinunciò e nel 1913 parti per l’Africa equatoriale (di allora! Molto diversa da quella di oggi! È passato più di un secolo) e fondò un ospedale a Lambaréné, dove trascorse tutta la vita curando gli africani. Perciò fu chiamato “medico della giungla”. In realtà fu e potrebbe ancora essere “medico della coscienza europea”, per guarirla da una sua antica, oscura e temibile malattia mortale: la malattia del colonialismo, della violenza e della guerra, a cominciare dalla guerra agli animali, e insegnarle appunto il “rispetto per la vita” degli altri.

Rispetto e timore
Albert Schweitzer era figlio di un pastore protestante (luterano), fu egli stesso pastore luterano e, pur diventando medico ed esercitando questa professione per tutta la vita, restò sempre pastore e predicatore evangelico. Ma che cosa c’è dietro questo suo programma del “rispetto per la vita”? Diciamo anzitutto che questa espressione traduce solo in parte l’espressione tedesca che ne è alla base: “Ehrfurcht vor dem Leben”, letteralmente: “timore sacro (o reverenziale) davanti alla vita”, che è qualcosa di diverso e di più del semplice “rispetto” (che comunque è già molto).
L’idea è che davanti alla vita ti devi fermare, non la puoi violare, non le puoi mettere le mani addosso, non puoi disporne a tuo piacimento, non ti appartiene, è qualcosa di infinitamente più grande di te, un mistero che ti trascende, di cui ignori il significato e il valore.

Radice cristiana e indiana
Da dove nasce il “rispetto per la vita”? Nasce da una doppia radice, una cristiana, l’altra indiana. Quella cristiana ha a che fare con Gesù e la sua attesa del Regno di Dio vicino (così lo chiama) che egli pensava sarebbe giunto ancora nella sua generazione. Il Regno non è venuto e in questo Gesù si è sbagliato, ma l’etica del Regno che egli ha messo in moto ed ha lui per primo messo in pratica è, secondo Schweitzer, valida in ogni tempo e per tutte le generazioni, più che mai per la nostra. Questa etica è scritta nel Sermone sulla Montagna dell’evangelista Matteo, nei capitoli da 5 a 7. Essa comporta la scelta nonviolenta e addirittura l’amore per i nemici.
Su questa matrice cristiana s’innesta quella indiana, che Schweitzer scoprì studiando da vicino i grandi pensatori dell’India. Fu però in Africa che l’idea gli venne, quasi come una folgorazione, durante un viaggio sul fiume, com’egli stesso raccontò in seguito più volte.

Contenuti etici
Quali sono i contenuti essenziali del “rispetto per la vita”, nel quale si fondono l’etica e la religione, e che nasce dalla consapevolezza elementare che ciascuno di noi è innanzitutto “vita che vuole vivere, in mezzo ad altre vite che anch’esse vogliono vivere”?
La vita è sacra. Dono supremo (noi la possiamo trasmettere, non la possiamo creare; siamo creature, non creatori), ma anche estremamente vulnerabile, che è affidato alle nostre mani. Somma responsabilità che deve suscitare in noi un “timore sacro (o reverenziale)” davanti allo straordinario e inviolabile fenomeno della vita.
Ogni vita è sacra. “L’uomo è morale – dice Schweitzer – soltanto quando considera sacra la vita in sé, quella delle piante e degli animali, tanto quanto quella degli esseri umani, e si sforza di soccorrere ogni vita che si trovi in difficoltà, nella misura del possibile”. Schweitzer si pone in tutto e per tutto nella linea di Francesco d’Assisi, che egli molto ammirava.
Una forza interiore. “Rispetto per la vita” non è un atteggiamento contemplativo, ma una forza interiore che motiva l’agire etico e mobilita la volontà a porsi al servizio della vita degli altri. “Come l’elica vorticosa spinge la nave attraverso le acque, così il rispetto per la vita spinge l’uomo ad agire”.
Rispetto e responsabilità. Il “rispetto per la vita” non solo responsabilizza l’uomo in vista dell’azione, ma lo pone in un rapporto spirituale con il mondo. “Solo un’etica dai vasti orizzonti che ci imponga di rivolgere la nostra attenzione operosa a tutti gli esseri viventi ci pone davvero in un rapporto interiore con l’universo e con la volontà che in esso si manifesta”. La natura non conosce il rispetto per la vita: la legge, in natura, è: mors tua vita mea. Solo l’uomo eticamente motivato è capace di praticare il rispetto per la vita, in modo che la legge diventi: vita tua vita mea.
Vocazione dell’essere umano. Il “rispetto per la vita” è l’unico atteggiamento che corrisponde pienamente all’essere dell’uomo e alla sua vocazione nel creato. Vivendo l’etica del rispetto per la vita l’uomo realizza la sua umanità, raggiunge veramente la sua statura di uomo, si umanizza compiutamente. Non umanizza dunque solo la natura, ma umanizza in primo luogo se stesso. Tutto questo – Schweitzer lo dice e ripete innumerevoli volte nei suoi interventi – vale anche e particolarmente per la vita degli animali, i più vicini a noi tra tutti gli esseri viventi, dei quali, come voleva Francesco d’Assisi, dobbiamo diventare fratelli, e non essere padroni. (in “Corriere della Sera” del 30 settembre 2016)

 

Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: la vita ha valore

E’ nel rispetto per la vita che la conoscenza si trasforma in esperienza… La mia vita porta il suo significato in se stessa . Esso consiste nel vivere la più alta e più degna idea che si manifesta nella mia volontà di vivere… l’idea del rispetto oer la vita. Con questa do un vero valore alla mia vita ed a ogni volontà di vita che mi circonda; mi dedico all’azione e creo dei valori reali. (Etica).

 

Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: Pensiero elementare
Il pensiero elementare è quello che prende origine dai problemi fondamentali riguardanti le relazioni dell’uomo con l’universo, il significato della vita e la natura della bontà. Si trova nel più immediato rapporto con il pensiero suscitato in ognuno di noi da un impulso. In quel pensiero esson penetra, rendendolo più ampio e più profondo. (Vita)

Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: La ricerca della verità

Paolo non è semplicmente rivoluzionario. Egli prende come punto di partenza la fede della primitiva comunità cristiana: soltanto, non si accontenta di fermarsi dove questa termina, ma rivendica il diritto di trovare la conclusione dei suoi pensieri su Cristo, senza curarsi se la verità che con tale mezzo raggiunge abbiano mai configurato tra i limiti della fede posseduta dalla comunità cristiana e se siano state da essa riconosciute. (Misticismo)

Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer:Bach, il pittore

Beethoven e Wagner fanno della poesia con la musica; Bach dipinge. Bach è anche drammatico, ma solo nel senso in cui lo è il pittore. Non raffigura eventi che si susseguoo ma coglie il momento culminante che contiene l’intero evento, e lo dipinge con la musica.
(Bach, II)

Tutto ciò che è ragionevole è buono. Essere veramente razionale significa essere etico, (Rispetto)

 

Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: Follia in cielo
Un giorno, per la disperazione, mi lasciai cadere su una sedia dell’ambulatorio e gemetti: “Che matto sono stato a venire qui a curare questi selvaggi come questi!. Al che Giuseppe rispose pacatamente : “Si , dottore , qui sulla terra lei è un gran matto, ma non in cielo” (Ospedale).:

Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: I diritti indistruttibili dell’uomo

E’ nostro compito proclamare ancora una volta i diritti idistruttibili dell’uomo, diritti che offrono al singolo la maggior libertà possibile per l’affermazione dell’individualità nell’ambito del suo gruppo umano; diritti umani che garantiscono protezione alla sua esistenza e alla sua dignità personale contro ogni forza aliena che possa dominarlo (Etica)

Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: una definizione di civiltà

Definisco la civiltà, in termini del tutto generale, come il progresso spirituale e materiale in ongi campo d’attività, accompagnato da uno sviluppo etico degli individui e dell’umanità (Vita)

Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: arrendersi a Cristo

Il cristianesimo è un misticismo di Cristo, il che vuol dire un “essere uniti” a Cristo, nostro Signore, afferrato nel pensiero e realizzato nell’esperienza. Soltanto chiamando Gesù “nostro Signore” Paolo lo eleva sopra tutte le concezioni condizionate dal tempo nelle quali si può comprendere il mistero della sua personalità, e lo presenta come l’Essere spirituale che trascende tutte le definizioni umane, a cui dobbiamo arrenderci per sperimentare in Lui la vera legge della nostra esistenza e del nostro essere.
(Misticismo)

Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer:Incoraggiamenti alla perfezione
Ecco la domanda cui ogni religione deve rispondere: in che misura può offrire incoraggiamenti duraturi e profondi per un perfezionamento della personalità e della attività etica?
(Cristianesimo)
Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: L’etica e la specie animale
Nel pensiero europeo si fa lentamente strada la nozione che l’etica non riguarda solamente l’umanità ma anche la specie animale. Ciò ha inizio con San Fracesco d’Assisi. Dobbiamo abbandonare la spiegazione che si riferisce soltanto all’uomo; così arriveremo a dire che lìetica è rispetto per ogni vita. (Religione)
Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: La perdita del senso della sincerità
Il desiderio di sincerità non deve essere meno forte del desiderio di verità. Solo un’epoca che sia in grado di dimostrare il coraggio sincero della sincerità può possedere una verità che operi entro di lei quale forza spirituale.
La sincerità è il fondamento della vita spirituale.
Con la svalutazione del pensiero la nostra generazione ha perso il senso della sincerità e con questo anche quello della verità. L’unico modo in cui si può aiutarla consiste quindi nel riportarla una volta ancora sulla via del pensiero.
Poichè ho questa certezza mi oppongo allo spirito della nostra epoca, e mi assumo con fiducia la responsabilità di contribuire a rianimare la fiamma del pensiero (Vita).
Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: Incoraggiamenti alla perfezione
Ecco la domanda cui ogni religione deve rispondere: in che misura può offrire incoraggiamenti duraturi e profondi per un perfezionamento della personalità e dell’attività etica?
(Cristianesimo)
Da rispetto per la vita di Albert Schweitzer: la ragione è il solo metodo
Mi convinsi – e sono tuttora convinto – che la verità dei principi fondamentali del cristianesimo deve venire dimostrata dal ragionamento, e da nessun altro metodo. La ragione , dissi a me stesso, ci viene data affinché possiamo portare nel suo raggio d’azione ogni cosa, perfino le più sublimi idee di religione. E questa certezza mi riempì di gioia.
(memorie di fancillezza)
Da rispetto per la vita di Albert Scheitzer: etica di gruppo
Uno storno di oche selvatiche si era fermato a riposare presso uno stagno. Una delle oche era stata catturata da un giardiniere, il quale prima di lasciarla andare le aveva tagliato le ali. Quando le oche si apprestarono a riprendere il volo, questa cercò freneticamente, ma invano, di levarsi nell’aria. Le altre, osservando i suoi sforzi, le volarono intorno cercando evidentemente di incoraggiarla; ma non c’era niente da fare. Allora l’intero stormo ritornò a stabilirsi presso lo stagno e rimase in attesa, malgrado avesse urgenza di proseguire. Attese per parecchi giorni finchè le penne tagliate furono cresciute abbastanza da permettere all’oca di volare. Il giardiniere, convertito da quelli uccelli morali, le vide con gioia levarsi finalmente insieme e riprendere il loro lungo volo.
(Rispetto)
Da Rispetto per la vita di Albert Schweitzer: La verità non ha un’ora particolare
La verità non ha un suo tempo particolare: La sua ora è adesso, sempre, e più che mai quando sembra maggiormente inopportuna alle circostanze del momento

Da Rispetto per la vita di Albert Schweitzer : I negri sono più profondi di noi

Il figlio della natura pensa più di quanto non si creda generalemte. Malgrado non sappia leggere, egli ha idee su molti più argomenti di quel che ci possiamo immaginare. Le conversazioni che ho avuto in ospedale con vecchi indigeni sui problemi fondamentali della vita mi hanno profondamente impressionato. Le discriminazioni fra bianco e negro, fra intuito e ignorante , scompaiono quando ci si mette a parlare con l’abitante delle foreste sui rapporti con il prossimo, con l’umanità, con l’universo e con l’infinito. “I negri sono più profondi di noi – mi disse un giorno un bianco – perché non leggono i giornali” e questo paradosso ha qualcosa di vero. (Foresta vergine)

Da Rispetto per la vita di Albert Schweitzer : “Tu non ucciderai”

Mi fece profonda impressione qualcosa che accadde quando avevo sette o otto anni. Henry Braesch ed io ci eravamo costruiti con delle striscie di gomma due fionde con le quali potevamo tirare delle piccole pietre. Era primavera e fine di quaresima quando una mattina Henry mi disse: “Vieni con me , andiamo a Redberg a sparare agli uccelli”. Mi sembrò una proposta terribile, ma non osai rifiutare per paura di venir schernito. Arrivammo vicino ad un albero che ancora privo di foglie e sul quale gli uccelli cantavano armoniosamente salutando il mattino, senza mostrare il minimo timore di noi. Curvandosi a guisa di un cacciatore pellerossa, il mio compagno mise un sasso nel cuio della fionda e prese la mira. Obbediente ad un suo cenno di comando, io feci lo stesso, magrado sentissi un terribile rimorso, ripromettendomi  di mancare il colpo. Proprio in quel momento la campane della chiesa incominciarono a suonare unendo nel cielo radioso la loro musica al canto degli uccelli. Erano i primi rintocchi che precedevano di mezz’ora il regolare scampanio, e per me furono una voce dal cielo. Dispersi gli uccelli in modo che volassero al sicuro dalla fionda del mio compagno e poi scappai a casa. Da quella volta, quando le campane della Passione diffondono il loro suono nel cielo primaverile e tra gli alberi spogli, penso con commossa riconoscenza a quel giorno in cui la loro musica portoò nel profondo del mio cuore il comandamento : ” Non ucciderai “. (Memorie di fanciullezza)

Da Rispetto per la vita di Albert Schweitzer : il trattamento degli animali

Coloro che sperimentano tecniche operatorie o medicine su animali, oppure iniettano loro delle malattie per poter aiutare gli esseri umani coi risultati ottenuti, non dovrebbero mai tranquillizzare la loro coscienza con la scusa generale che le loro terribili azioni vengono compiute per un nobile scopo. E’ loro dovere riflettere in ogni singolo caso se è realmente e veramente necessario sacrificare un animale per l’umanità. Dovrebberopreoccuparsi ansiosamente di alleviare il più possibile il doloro che provocano. Quanti delitti vengono in questo modo perpetrati negli istituti scientifici dove spessi si tralascia di usare i narcotici per risparmiare tempo e fatica! Quanti delitti si compiono facendo soffrire agli animali le torture dell’agonia, solo per dimostrare agli studenti delle verità scientifiche che sono già perfettamente conosciute ! Il solo fatto che l’animale, come vittima della ricerca, abbia col suo dolore reso tali servizi agli uomini sofferenti crea di per sé un nuovo ed unico rapporto di soidarietà tra lui e noi. Ne risulta per ognuno di noi l’obbligo di impegnarsi a fare quanto più bene possibile a tutte le creature, in ogni circostanza. Qando aiuto un insetto in difficoltà lo faccio nel tentativo di cancellare una parte commessa con questi crimini contro gli animali. (Etica)

Da Rispetto per la vita di Albert Schweitzer : Ogni vita è legata all’altra

Ho la virtù di prendermi cura di tutte le scimmie smarrite che arrivano al nostro cancello. (Se ave provato a occuparvi di un grna numero di scimmie, saprete perché dico che è proprio una virtù prendersi cura di tutte queste visitatrici finché sono abbastanza vecchie o abbastanza forti da essere lasciate libere, parecchie alla volta nella foresta; grande occasione per loro questa e per me!) Talvolta arriva alla nostra colonia di scimmie una scimmia neonata, la cui madrerimasta uccisa ha lasciato soolo questo piccolo orfano. Devo trovare una scimmia anziana che lo adotti e mi prenda cura di lui. Non ho mai incontrato difficoltà nel far ciò, salvo che nel decidere a quale candidato affidare la responsabilità. Molte volte accade che le scimmie dotate apparentemente del peggior carattere siano le più insistenti nel richiede questo ruolo di genitore adottivo” (Rispetto)

 

Da Rispetto per la vita di Albert Schweitzer : L’associazione di coloro che portano l’impronta del dolore

Poiché ritengo che il compito della mia vita sia quello di lottare sotto cieli lontanio a favore degli ammalati, mi appello alla comprensione cui generalemte si appellano il cristianesimo e la religione, ma allo stesso tempo chiamo in aiuto le nostre idee e i nostri concetti fondamentali. Noi dovremmo considerare il lavoro che occorre compiere per le misere genti colore, non semplicemente come un “buon lavoro”, ma come un dovere che non deve essere evitato.

Da quando le terre lontane sono state scoperte come si sono comportati i bianchio con la gente di colore? Cosa significa il fatto che questo o quel popolo è scomparso, che altri stanno per scomparire e che la condizione di altri diviene sempre peggiore dopo che sono stati scoperti da uomini che si dichiaravano seguaci di Gesù? Chi può descrivere l’ingiustizia e la crudeltà che hanno sofferto da parte degli europei nel corso di questi secoli? hi può misurare la miseria creatasi a causa delle bevande infernali e delle malattie terribili che abbiamo portato loro? Se si potesse fare una lista di tutto ciò che è accaduto recentemente come pure in passato tra i bianchi e le razze di colore si riempirebbe un libro di molte pagini, che il lettore sarebbe costretto a restituire senza leggere a cagione del terribile contenuto.

Su di noi e sulla nostra civiltà graqva realmente un obbligo immenso. Non siamo liberi di accordare o no un beneficio a questi uomini, come ci pare e piace; ma ne abbiamo il dovere. Qualsiasi cosa diamo loro non è beneficienza , ma la riparazione di un torto commesso. Per ognuno di quelli che hanno recato offesa, qualcuno di noi dovrebbe andare ad offrire il suo aiuto, e quand’anche avessimo fatto tutto ciò che era in nostro potere fare non avremmo ripagato ancora per la millesima parte la nostra colpa. (Foresta vergine)

Il pensiero molto profondo è umile

Il pensiero molto profondo è umile. Si preoccupa soltanto che la fiamma
della verità, da esso alimentata, bruci emanando il calore più intenso e
più puro; non si cura della distanza a cui arriva il suo chiarore.
(Pensiero indiano)


Cultura e etica di Albert Schweitzer

Scoprite la pagina a lui dedicata costruita dai quaccheri:
L’etica del rispetto della vita non ammette che esistano uomini condannati o favoriti perché liberi dalla responsabilità della dedizione che, in quanto uomini devono ad altri uomini. Vuole che tutti siamo, in qualche modo o per qualche cosa, esseri umani per altri esseri umani. A chi, per professione, non gli è consentito di prodigarsi come uomo per altri uomini e che non ha d’altronde nulla da poter donare, suggerisce di sacrificare un po’ del proprio tempo libero, anche se ne dispone di pochissimo.
Createvi unattività secondaria dice loro non importante, magari segreta. Aprite gli occhi e cercate dove vi sia un uomo, un’opera dedicata agli uomini, che necessiti di un po’ di tempo, di un po’ di amorevolezza, di un po’ di partecipazione, di un po’ di compagnia, di un po’ di lavoro. Forse è un solitario, un amareggiato, un ammalato, un disabile, la persona per la quale tu puoi essere qualcosa. Forse un vecchio o un bambino. Oppure unopera buona ha bisogno di volontari che possano sacrificare un pomeriggio libero od offrirsi per dei turni Non lasciarti trattenere dal pensiero di dover aspettare o di dover fare esperienza. Sii preparato ad incontrare delusioni.
Ma non lasciarti sfuggire un secondo lavoro
nel quale ti offri come essere umano ad altri esseri umani.
( da Cultura e etica di Albert Schweitzer)

https://www.facebook.com/Albert-Schweitzer-non-ufficiale-1612162799049868/

Infanzia e giovinezza di Albert Schweitzer – Edizione A.P.E. Mursia –
Strasburgo, febbraio 1924 – Digitalizzazione, come al solito, di Maurizio Benazzi per amore.

(…) Se fino dalla giovinezza mi fu naturale il rispetto dell’altrui vita spirituale, mi sono invece chiesto a lungo, e molto, sino a quale punto concederci spontaneamente. Nel mio intimo, ambedue le eventualità erano in lotta tra di loro. Fino agli ultimi anni di Liceo, prevalse la riservatezza. La timidezza mi impediva di dimostrare tutta la simpatia che provavo, e di offrire, come intimamente ero spinto a fare, gentilezza e solidarietà. Fu l’educazione della zia di Mulhouse a rafforzare tale comportamento: essa mi inculcò il ritegno quale quale fondamento di buona educazione. Dovevo imparare a considerare come massimo sbaglio qualsiasi genere di “invadenza”; e mi sforzai anche, lentamente , di farlo. Coll’andare de tempo, però osai emanciparmi un poco, dalle norme di ritegno e buona educazione. Queste m facevano l’impressione di essere come le leggi dell’armonia che, pur valide in linea di massima, vengono ben spesso sommerse dal vivace fluire della musica. Sempre più mi rendevo conto di tutto il bene che finiamo col trascurare, quando ci lasciavamo rinserrare, come schiavi, nl ritegno che viene imposto dall’usanza.
Certamente occorre trattenersi dal mancare di tatto negli altrui confronti o del partecipare, non richiesti, alle altrui faccende. Al tempo stesso occorre serbarsi consapevoli del pericolo insito in questa astensione imposta dalla vita quotidiana. Non deve avvenire che, di fronte a uno sconosciuto, ci si lasci relegare nel più completo assenteismo. Nessun uomo rimane mai completamente e durevolmente estraneo all’uomo. Il posto dell’uomo è presso l’uomo. L’uomo ha diritto all’uomo. Possono prodursi circostanze, grandi e piccole, che bandiscono il forzoso distacco usuale, che pongono gli uomini di fronte. La norma del ritegno è destinata ad essere infranta dal diritto alla cordialità. Così verremo tutti a trovarci nella condizione di uscire dall’ignoto e diventare individui, agli occhi di ogni altro individuo. Lasciamo che ciò ci sfugga troppo spesso perché le opinioni correnti in tema di educazione, cortesia e tatto, ci hanno spogliato della nostra spontaneità, e quindi neghiamo al nostro prossimo ciò che pure vorremmo dargli e che egli si attende. Molta della freddezza esistente tra esseri umani deriva dal fatto che, pur essendo cordiali, non osiamo offrirci con pari cordialità.
Durante l’infanzia ebbi la ventura di incontrare uomini che riuscivano a conservare la propria spontaneità, senza contravvenire alle buone regole vigenti del viver sociale. Nel veder quanto davano, così, all’umana creatura, mi venne in animo di provare io stesso a essere naturale e cordiale quanto mi sentivo. Le esperienze che feci in tal modo impedirono che mai più mi sottomessi interamente alla legge del riserbo. Per quanto posso, cerco ormai di unire la cortesia del cuore e quella delle forme. Non so se lo faccio sempre ne giusto modo; al riguardo sono incapace di enunciare regole, non meno che in musica quando si tratti di stabilire in quali casi ci si debba inchinare alle leggi armoniche e in quali seguire lo spirito della musica, che sta sopra ogni legge. Ogni cosa però mi ha insegnato che il passare oltre le regole consuetudinarie, allorché ciò sia dettato dal cuore e derivi da riflessione, solo raramente viene considerato dagli altri come cosa importuna e avventata.
Le idee che determinano natura e vita di un uomo, trovano posto in lui in modo misterioso. Al suo uscire dall’infanzia, esse cominciano a mettere gemme in lui. Quando viene afferrato dal giovanile entusiasmo per il vero e il buono, esse fioriscono e germogliano. In seguito, nello sviluppo che attraversano, si tratta solamente di vedere quanti dei frutti che il ostro albero aveva promesso in germoglio, in primavera, sono rimasti in lui.
Il convincimento che nella vita si avesse da lottare, per rimanere capaci di pensiero e di impressioni come in gioventù, mi ha accompagnato come fedele consigliere lungo la mia vita. Istintivamente mi sono guardato dal divenire ciò che comunemente si intende per “uomo maturo”.
L’espressione “maturo” applicata all’uomo fu per me, da sempre, qualcosa di inquietante e lo è tutt’ora. Accanto a essa ed assieme ad essa sento sempre risuonare come dissonanze “impoverimento”, “intristimento”, “ottusità”, Ciò che comunemente ci capita di giudicare come maturità di un uomo non è che ragionevole rassegnazione. La maturità l’individuo se la acquista su modelli altrui, abbandonandolo, brandello per brandello, i pensieri e le convinzioni che gli furono cari quando era giovane. Credeva che nel trionfo della verità, ora non ci crede più; credeva nelle persone, non ci crede più; s’infervorava per la giustizia, ora non più; aveva fiducia nella potenza del bontà e delle vie pacifiche, ora non più; era capace di entusiasmi e adesso no.
Per navigare meglio tra pericoli e tempeste della vita, egli ha buttato fuori bordo dalla sua barca, come zavorra, i beni che considerava superflui. Quelle cose, invece, erano le scorte di viveri e di acqua. Adesso egli se ne va navigando più leggero; ma, come uomo, è sfibrato.
Durante la gioventù, in compagnia di adulti, ho ascoltato le loro conversazioni : ne spirava una tristezza che mi opprimeva il cuore. Essi volgevano indietro i loro sguardi, all’idealismo e alle capacità d’entusiasmo dei loro giovani anni, come a qualcosa di prezioso che si sarebbe dovuto conservare saldamente. Al tempo stesso, però, consideravano come legge di natura che ciò non fosse possibile.
Mi colse allora il timore che un giorno avessi da volgere indietro lo sguardo su me stesso con uguale malinconia. Decisi di non sottomettermi a questo tragico “farsi ragionevole”. E quanto con caparbietà quasi infantile mi ero ripromesso, ho tentato di porlo in atto.
Troppo volentieri gli adulti si compiacciono nel triste ufficio di preparare la gioventù al fato che un giorno essa riconoscerà come illusione la maggior parte di ciò che al momento anima i suo cuore e i suoi sentimenti. Però una più profonda esperienza di vita rivolge la parola diversamente all’inesperienza. Essa scongiura la gioventù a conservare ben saldi, attraverso la vita intera, i pensieri che la entusiasmano. Nell’ entusiasmo giovanile l’uomo scorge la verità. Per lui è una ricchezza da non barattare a nessun costo.
Dobbiamo essere tutti preparati al fatto che la vita voglia toglierci la fede nel bene e nel vero, unitamente all’entusiasmo nei loro confronti. Ma darglieli in preda, no. Anche se gli ideali, quando si scostano dalla realtà, vengono comunemente soggiogati dai fatti, ciò non significa che essi abbiano da capitolare a priori, ma solamente che i nostri ideali non sono abbastanza saldi. Non abbastanza saldi, perché dentro di noi non sono né puri, né concreti, né costanti abbastanza.
La potenza dell’idea è incommensurabile. In  una goccia d’acqua non si scorge potenza: ma se penetra in un crepaccio, diventa ghiaccio, fa saltare la roccia; se trasformata in vapore, spinge l’albero della macchina più potente. Le è dunque accaduto qualcosa che ha reso operante la potenza che in lei stava.
Lo stesso avviene con l’ideale. Gli ideali sono pensieri. Fino a quando rimangono solo pensieri, nella mente, la potenza che contengono rimane inoperante, anche a pensarli col massimo entusiasmo e con la più vigorosa persuasione. La potenza si estrinseca solo quando ad essi si unisca lo spirito di un essere purificato. La maturità verso cui dobbiamo svilupparci è quella che deriva dal lavoro da compiere su se stessi per divenire sempre più semplici, sempre più puri, più pacifici, più mansueti, più amorevoli, più pietosi. A nessuno altro “disinganno” abbiamo a sottometterci, che a questo. In esso si tempera il molle ferro dell’idealismo giovanile, per divenire acciaio nell’insostituibile idealismo della vita.
Non v’è scienza migliore che sapere venire a capo delle illusioni. Tutti i fatti sono effetto di una forza spirituale: quelli coronati da successo, di una forza sufficiente; quelli il cui successo non arride, di una forza insufficiente. Se nell’amare il mio comportamento non giunge a buon effetto, significa che in me c’è ancora troppo poco amore; se contro la falsità e le bugie che mi circondano resto  impotente, dipende dal fatto che io stesso non sono abbastanza sincero. Se debbo assistere al giuoco che conducono invidia e cattiveria, ciò vuol dire che io stesso non mi sono ancora spogliato della meschinità e dell’invidia. Se il mio amore di pace viene travisato e schernito, significa che in me non c’è ancora abbastanza amore per la pace.
Il gran segreto sta nel passare attraverso la vita come essere purificati. Ciò riesce possibile solo a colui il quale non si limiti a nomi e fatti, ma in ogni evento della vita si senta costretto a chinarsi su se stesso ed in se stesso cercare la causa ulteriore delle cose.
Nulla potrà mai rapire l’idealismo a colui che lavora alla propria purificazione. Egli sperimenta la potenza delle idee di vero e bene nel proprio intimo. Anche se di quanto a tal fine egli vuole operare  al di fuori di sé ne potrà veder attuato ben poco, egli sa sempre, malgrado tutto, che il suo operato è pari alla purezza che sta in lui. Se non “vede”, vuol dire che il successo non è ancora sopraggiunto oppure che il suo occhio non lo percepisce. Dove vi è una forza, vi è anche l’effetto della forza. Nessun raggio di sole va perduto. Ma la verzura che esso provoca chiede del tempo per germogliare e la sorte non consente sempre al seminatore di partecipare al raccolto.
Qualsiasi opera apprezzabile è un atto di fiducia. La scienza di vita che noi adulti abbiamo da partecipare ai giovani non suona quindi: “Ci penserà la realtà a fare il vuoto nei nostri ideali”. Al contrario : “Penetrate sempre più nei vostri ideali, affinché la vita non riesca a sradicarli”
Se gli uomini divenissero ciò che sono a 14 anni, quanto diverso sarebbe il mondo.
Come individuo che si sforzava di rimanere giovane di pensiero e di sensibilità, ho lottato contro fatti ed esperienze, per la fede nel ben e nel vero. In quest’epoca, in cui la violenza, ipocritamente velata, siede sinistramente come non mai sul trono del mondo, rimango lo stesso convinto che la verità, l’amore, la mansuetudine, la dolcezza e la bontà sono la ponza che domina tutte le potenze. Suo sarà il ondo, sempre che vi siano in numero sufficiente uomini che pensino, e rivivano con purezza e forza e sufficiente costanza, i pensieri d’amore, di verità, di mansuetudine, di dolcezza.
Qualsiasi volgare violenza pone i propri limiti a se stessa, producendo una contro-violenza, che prima o poi la uguaglierà o la supererà. La bontà invece agisce con semplicità e costanza. Non produce tensioni che la pregiudicheranno. Essa scioglie le tensioni esistenti, volatilizza diffidenze e incomprensioni, e si rafforza da sola generando altra bontà. Per tale motivo, essa costituisce la forza più adeguata e più intensa.
Tutto quanto un uomo diffonde di bontà, nel mondo, opera sui cuori e sul pensiero degli individui. La nostra pazzesca trascuratezza sta nel non fare sul serio, con la bontà. Pretendiamo rotolare un peso enorme, senza servirci di una leva come quella che centuplica le forze.
Una verità di una profondità incommensurabile si racchiude nell’impensabile detto di Gesù: “Beati i mansueti perché saranno i re della terra”.

(…)

Infanzia e giovinezza di Albert Schweitzer

Primi anni

 

Sono nato il 14 gennaio 1875 a Kayserberg, una cittadina dell’Alsazia Superiore, in una casetta con una piccola torre, che si trova proprio a sinistra, in alto, all’uscita dell’abitato. Mio padre (di cui ero il secondogenito, dopo una sorella di qualche anno più vecchia di me) era parroco e insegnante della piccola comunità protestanti del luogo, prevalentemente cattolica. Da quando l’Alsazia è diventata francese, la parrocchia non esiste più e nella casetta con la torre vi sono gli uffici della gendarmeria.

Kaysrsberg ha dato il nome al celebre predicatore medioevale del duomo di Strasburgo, Geiler von Kaysersberg (1445-1510), nato a Sciaffusa, in Svizzera, ma dopo la morte del padre, allevato a Keysersberg nella casa del nonno.

Poiché il 1875 è ricordato come un’annata famosa per il vino, da bambino fui sempre orgoglio di essere nato nella città di Geiler e in  anno così memorabile.

Mezzo anno dopo la mia nascita, mio padre si trasferì a Guensbach, nella valle i Muenster, donde proveniva mia madre, figlia del pastore Schillinger di Muelbah, un piccolo borgo che si trova in fondo alla vallata.

Al tempo del nostro arrivo a Guensbach, ero un bambino molto delicato. Per la festa dell’insediamento di mio padre, la mamma mi aveva agghindato nel miglior modo possibile, con un vestito bianco adornato di nastri colorati, ma nessuna delle mogli dei pastori del circondario ebbe il coraggio di farle i complimenti per quel bimbetto magro, dal viso color limone. Tutte facevano giri di parole imbarazzanti. Mia madre mi raccontò poi spesso che, non potendosi più dominare, si rifugiò in camera da letto piangendo amaramente.

Una volta pensarono perfino che fossi morto, ma il latte della mucca del nostro vicino Leopold e l’aria salubre di Guenbach operarono il miracolo: dopo aver compiuto il secondo anno di vita la mia salute si ristabilì e diventai perfino robusto.

Avevo te sorella e un fratello e passai con loro una bellissima infanzia nella casa parrocchiale di Guensbach; i miei genitori ebbero anche un sesto figlio, una bambina di nome Emma, che la morte strappò loro presto.

Il primo ricordo è il diavolo. A tre o quattro anni accompagnavo già in chiesa i miei genitori ogni domenica e durante tutta la settimana attendevo con gioia quel momento. Ancora adesso sento sulle mie labbra i guanti di rete della nostra donna di servizio, che mi posava la mano sulla bocca quando sbadigliavo e mi univo al canto a voce troppo alta.

Tutte le domeniche mi capitava una strana avventura: da un riquadro scintillante, in alto, vicino all’organo, una volta coperto di peluria guardava giù dalla navata, voltandosi da una parte e dall’altra. Era visibile finché suonava l’organo, poi spariva, quando mio padre pregava all’altare, per ricomparire quando ricominciavano i canti e la musica; all’inizio della predica svaniva un’altra volta, riapparendo più tardi al canto e al suono dell’organo. “E’ il diavolo che osserva la chiesa,” pensavo, “appena papà comincerà a spiegare la parola di Dio, dovrà scappare”. Questa teologia vissuta ogni domenica dava il tono determinante alla mia religiosità infantile. Soltanto molto più tardi, quando già frequentavo la scuola da parecchio tempo, capii il volto peloso, che appariva e scompariva tanto misteriosamente, apparteneva a papà Itlis, l’organista: all’organo era fissato uno specchio che permetteva al suonatore di vedere quando mio padre saliva sull’altare o sul pulpito.

(…) Il piroscafo procedeva con lentezza, dovevamo affrontare contro corrente le acque del fiume. Inoltre era la stagione delle secche, e dovevamo navigare evitando grossi banchi di sabbia.
Ero seduto su una delle due chiatte che trasportavano la merce. Durante questo viaggio mi ero proposto di riflettere in profondità sulla formazione di una cultura che fosse capace di maggiore energia e profondità etica della nostra. Riempivo un foglio dopo l’altro con frasi slegate, con l’unico scopo di non distogliere la mia concentrazione da questo problema. Ero stanco e disorientato, mi sentivo come se la mia mente fosse paralizzata.
La sera del terzo giorno, al tramonto, ci trovammo nei pressi del villaggio di Igendja, e dovevamo costeggiare un isolotto, in quel tratto di fiume largo oltre un chilometro. Sopra un banco di sabbia, alla nostra sinistra, quattro ippopotami con i loro piccoli si muovevano nella nostra stessa direzione. In quel momento, nonostante la grande stanchezza e lo scoraggiamento, mi venne in mente improvvisamente espressione «rispetto per la vita», che, per quanto io sappia, non avevo mai sentito ne letto. Mi resi conto immediatamente che questa espressione aveva in sé la soluzione del problema che mi stava assillando. Mi venne in mente che un’ etica che prenda in considerazione soltanto il nostro rapporto con altri esseri umani e un’etica incompiuta e parziale, e perciò non può possedere una piena energia.
Soltanto etica del rispetto per la vita ha questa possibilità; essa non ci mette in contatto solo con i nostri simili ma con tutte le creature che si affacciano al nostro orizzonte, e ci dà il compito di occuparci del loro destino, per evitare di recar loro danno, anzi, di esser loro d’ aiuto, per quanto ci sia possibile. Compresi subito con chiarezza che quest’etica, elementare e completa, possedeva una profondità totalmente diversa dall’etica che si occupa soltanto del rapporto fra esseri umani, ed anche una vivacità completamente diversa ed un’energia totalmente nuova.

Fonte: Schweitzer Albert: Rispetto per la vita, Nostro tempo 53, Claudiana, Torino 1994, pag. 15

 

Dal capitolo 9 di “La mia vita e il mio pensiero”

La decisione di diventare medico nella foresta

 

Il 13 ottobre 1905, un venerdì, imbucai in una cassetta postale dell’Avenue de la Grande Armée a Parigi una serie di lettere, in cui comunicavo ai miei genitori ed ad alcune delle persone a me più vicine che con l’inizio del semestre invernale mi sarei iscritto a medicina, col proposito di andare più tardi come medico nell’Africa equatoriale. In una delle lettere, considerato il notevole impegno rappresentato dal nuovo corso degli studi, rinunciavo al posto di direttore del seminario teologico di St, Thomas.

Quello che ora cominciavo a realizzare era un progetto che mi attirava già da tempo. La sua origine risaliva al periodo studentesco. Inspiegabilmente mi veniva fatto di pensare che, mentre tante persone intorno a me lottavano visibilmente col dolore e con la preoccupazione, io potevo condurre una vita felice. Già a scuola rimanevo turbato quando, scorgendo le tristi condizioni famigliari di certi miei compagni di classe, le confrontavo con quelle ideali in cui vivevano noi ragazzi nella casa pastorale di Guensbach. All’Università, riflettendo sulla mia fortuna di poter studiare e svolgere un’attività scientifica e artistica, ero di continuo spinto a ricordare che a molti ciò non era consentito dalle circostanze materiali o dalla salute. Un radioso mattino d’estate, a Guensbach durante le vacanze di Pentecoste- era il 1896 – mi aggredì, appena svegliato, il pensiero che non potevo accogliere tale fortuna come un fatto naturale, ma dovevo dare qualcosa in cambio. Dopo una riflessione tranquilla, mentre fuori gli uccelli cantavano, finii per concludere, ancora prima di alzarmi, che avevo il diritto fino al trentesimo anno d’età di vivere di scienza e d’arte, per consacrarmi dopo d’allora al servizio diretto degli uomini. Mi ero chiesto molte volte quale significato avesse per me la frase di Gesù: “Chi vuole conservare la sua vita, la perderà, e chi perde la sua vita per amore mio e del vangelo, la conserverà”. Ora l’avevo trovato. Oltre alla felicità esteriore possedevo quella interiore.

Quale forma avrebbe assunto la mia attività futura, non mi era ancora chiaro allora. Lasciai che fossero le circostanze a guidarmi. Di già fissato c’era soltanto che doveva essere un servizio umano diretto, anche se modesto.

Dapprima pensai naturalmente a un’attività in Europa. Progettai di raccogliere bambini abbandonati o trascurati per educarli e impegnarli poi a loro volta in una simile opera di assistenza. Quando nel 1903 andai a abitare nell’ampio, luminoso appartamento ufficiale del direttore, al secondo piano del seminario, mi trovai in condizione di compiere un tentativo. Mi presentai ora qui, ora lì, ma sempre senza successo. Le disposizioni degli istituti assistenziali per l’infanzia non si adattavano a una collaborazione volontaria del genere. Quando, ad esempio, dopo l’incendio dell’orfanatrofio di Strasburgo mi offersi col suo direttore di ospitare alcuni dei ragazzi fino a nuovo avviso, egli non mi lasciò neppure finir di parlare. Anche altri tentativi andarono a monte.

Per un certo periodo pensai anche di dedicarmi in futuro ai vagabondi e agli ex carcerati. Anche in preparazione di ciò, assecondai un’iniziativa del pastore di St. Tomas, August Ernst. Ogni giorno, dall’una alle due, egli riceveva qualunque persona avesse bisogno di un  sussidio o di un letto per la notte; e poi, invece di farle alla cieca una piccola elemosina o di farla attendere fino a quando avesse assunto informazioni sul suo conto, le proponeva di andarla a trovare nel corso dello stesso pomeriggio a casa sua, o dove aveva preso alloggio, per esaminare insieme i dati che aveva fornito sulla situazione e accordarle, se del caso, il proprio appoggio nella misura e per lo spazio di tempo necessari. A tal fine compiemmo un’infinità di corse in bicicletta nel centro della città e nei sobborghi, molto spesso col risultato di contrastare che il postulante era irreperibile all’indirizzo che aveva indicato. Ma in tutta una serie di casi avemmo occasione, conoscendo la situazione da vicino, di prestare un aiuto adeguato. Alcuni cari amici mi consentirono di usare anche i loro mezzi all’occorrenza.

Già da studente avevo svolto attività assistenziale come membro dell’associazione studentesca “Diaconat Thomana”, che si riuniva nel seminario  teologico. Ogni settimana ciascuno di noi doveva visitare un determinato numero di famiglie povere, consegnare il sussidio concesso e stendere un rapporto sulle loro situazione. Raccoglievamo i soldi necessari da benefattori che l’iniziativa , promossa da generazioni precedenti e da noi ereditata,  contava fra le vecchie famiglie borghesi di Strasburgo. Due volte l’anno, se non sbaglio, ciascuno di noi doveva fare il giro di questua che gli era assegnato. Per me, che ero timido e maldestro nei rapporti sociali, era una cosa penosa. Credo di essermi talvolta comportato molto goffamente in quelle prime prove delle mie successive ricerche di aiuti, ma imparai allora che la richiesta fatta con tatto e discrezione viene meglio accolta della richiesta audace, e che è proprio del giusto elemosinare sopportare di buon animo anche le ripulse.

Certo, nella nostra inesperienza giovanile, non impiegavamo, malgrado le migliori intenzioni, nel modo più opportuno tutto il denaro consegnatoci. Ma lo scopo era egualmente raggiunto, perché tale attività obbligava dei giovani ad occuparsi dei poveri. Perciò ricordo con profonda gratitudine coloro che accoglievano con comprensione e generosità i nostri sforzi, e mi auguro che a molti studenti possa esser dato di compiere un simile tirocinio, come mandatari dei benefattori, nella lotta contro il bisogno.

Quanto ai vagabondi e agli ex carcerati, avevo capito che si poteva aiutarli in maniera efficace soltanto con l’intervento di molti individui decisi a interessarsene. Mi ero d’altronde reso conto che questi potevano combinare qualcosa di utile solo collaborando con qualche organizzazione. Ma, tutto sommato, propendevo per un’attività assolutamente personale e autonoma. Benché fossi disposto a mettermi, all’occorrenza, a disposizione di un’organizzazione, non abbandonai la speranza di trovare alla fine un’attività a cui dedicarmi come individuo libero. Ho sempre considerato l’esaudimento di questo ardente desiderio come grande grazia, continuamente rinnovata.

Un mattino, nell’autunno del 1904, trovai sulla mia scrivania nel seminario di St. Thomas uno dei fascicoli verdi con cui la Società missionaria di Parigi riferiva mensilmente sulla sua opera. Una certa signorina Scherdlin soleva recapitarmeli. Sapeva che mi interessavo particolarmente della Società, per l’impressione che aveva suscitato in me le lettere di uno dei suoi primi missionari, di nome Casalis, quando al tempo della mia infanzia mio padre le aveva lette durante i culti.  Aprii meccanicamente il fascicolo, deposto sul tavolo la sera prima in mia assenza, mentre lo mettevo da una parte per iniziare subito il lavoro. In quel momento il mio sguardo si posò su un articolo dal titolo “I bisognosi della Missione del Congo”. Era di Alfred Boegner, il direttore della Società missionaria, un alsaziano, e deprecava che alla missione mancassero le persone per svolgereQ la sua opera nel Gabon, la regione settentrionale della colonia del Congo. Allo stesso tempo esprimeva la speranza che tale appello inducesse coloro “sui quali già si posava lo sguardo del Maestro” ad “Di uomini che al cenno del Maestro semplicemente rispondano: “Signore, mi metto in cammino”, di tali uomini ha bisogno la Chiesa”.

Terminato di leggere, mi posi tranquillamente al lavoro. La ricerca era finita.

Qualche mese più tardi trascorsi il mio 30esimo compleanno nello stato d’animo dell’uomo della parabola, che vuole costruire una torre e calcola “se ha da poterla completare”. Il risultato fu che decisi di realizzare d’allora in poi il progetto del servizio puramente umano nell’Africa equatoriale.

All’infuori di un  fedele compagno nessuno sapeva della mia intenzione, Quando le lettere spedite da Parigi divulgarono la notizia, dovetti sostenere un’aspra lotta coi famigliari e coi conoscenti.Quasi più che la decisione in sé, essi mi rimproveravano di aver mancato di fiducia nei loro confronti, perché non ne avevo discusso prima. In quelle dure settimane mi tormentavano fuor di misura insistendo su tale questione di secondaria importanza. Il fatto poi che alcuni amici teologi si distinguessero in questa campagna mi appariva assurdo, perché tutti avevamo già tenuto una bella, o bellissima, predica sull’apostolo Paolo che, stando alle sue parole contenute nella lettera ai Galati, non aveva prima consultato né carne né sangue su quanto voleva fare per Gesù.

Parenti e amici biasimavano l’uno contro l’altro l’insensatezza della mia condotta. Io ero, a sentir loro, un uomo che voleva sprecare il talento trasmessogli per correre dietro a delle illusioni. Dovevo lasciare l’attività tra i selvaggi a coloro che potevano farlo senza buttare a mare doti e preparazione scientifiche e artistiche. Widor, che mi amava come un figlio, mi redarguì paragonandomi a un generale che voleva schierarsi col fucile sulla linea dei tiratori (allora non si parlava ancora di trincee). Una signora pervasa da spirito moderno mi dimostrò che avrei potuto fare molto di più con conferenze a favore dell’assistenza medica da portare agli indigeni. La massima “Da principio era l’azione” del Faust goethiano non aveva più valore nei nostri tempi, la propaganda era la madre degli avvenimenti. (…)

 

Capitolo 11 “Prima della partenza per l’Africa” di  “La mia vita e il mio pensiero”

 

(…) Quando ebbi la certezza di poter raccogliere i mezzi necessari per la fondazione di un piccolo ospedale, feci alla Società missionaria di Parigi l’offerta definitiva di servire a mie spese come medico, dal punto centrale di Lambarene, la sua zona lungo il fiume Ogoué.

 

La Missione di Lambarene era stata fondata nel 1976 dal dottor Nassau, un missionario e medico americano; del resto americani erano stati i missionari che, giunti nel paese nel 1874, avevano iniziato l’attività evangelica nella regione di Ogoué. Quando il Gaon era diventato possedimento della Francia, la Società di Parigi aveva sostituito, a partire dal 1892, gli americani, dato che questi non erano in grado di impartire l’istruzione scolastica in francese, come era prescritto dal governo.

Il direttore della Società di Parigi, Jean Bianquis, che era succeduto a Boegner e che, grazie alla devozione non ostentata e alla saggezza amministrativa, procurò molti amici alla sua istituzione, si adoperò con tutta la sua autorità perché non si lasciasse perdere l’occasione di avere gratuitamente il tanto sospirato medico missionario per il Gabon. Ma gli ortodossi opposero resistenza. Decisero di convocarmi davanti al comitato e di sottopormi ad un esame dottrinale. Non mi restai al gioco, obiettando che quando aveva nominato i suoi discepoli, Gesù aveva preteso da loro soltanto la volontà di seguirlo. Feci altresì al comitato che, secondo le parole di Gesù “Chi non è contro di me, è con me”, una società missionaria avrebbe fatto male a respingere un mussulmano che si fosse offerto di curare i negri ammalati. Poco tempo prima la Società di Parigi non aveva accettato un parroco che voleva andare missionario perché, a causa della sua convinzione scientifica, non aveva risposto con un sì incondizionato alla domanda se riteneva il quarto vangelo opera dell’apostolo Giovanni.

Per non subire la stessa sorte rifiutai di comparire davanti al comitato riunito e di lasciarmi interrogare teologicamente.

Per contro mi offersi di fare una visita personale a ciascun membro separatamente affinché, sulla base della conversazione avuta con me, si rendesse conto se io rappresentavo veramente un così grave pericolo per le anime dei negri e la reputazione della società.

La proposta venne accettata e mi costò alcuni pomeriggi. (:::)

Nel febbraio del 1923 le 70 casse vennero avvitate e spedite in anticipo a Bordeaux. Quando poi preparammo il nostro bagaglio a mano,  mia moglie trovò da ridire per la mia insistenza nel voler portarmi dietro 2000  marchi in oro anziché in biglietti. Le risposi che bisognava fare i conti con la possibilità di una guerra: in tal caso l’oro avrebbe conservato in qualsiasi parte del ondo il suo valore, mentre la sorte della carta moneta era incerta e le banconote potevano essere bloccate.

(…)

 

Ciò che vale per i bianchi non vale per i neri – Da “Storie Africane” pag. 39 ss

 

Mi capita spesso durante i miei viaggi in piroga di conversare con i rematori. Di solito mi chiedono di spiegare quale differenza c’è fra il loro paese e quello degli uomini bianchi. Allora io cerco di fisare la loro attenzione su tre argomenti che ritengo più significativi.

Innanzitutto – spiego – in Europa le foreste si incendiano. Questa è una cosa che gli indigeni non sanno immaginare. Qui la percentuale di umidità è talmente elevata che neanche nei periodi di maggiore siccità la foresta non prende fuoco, neanche se si facesse il possibile per appiccarlo. Riesce perfino bruciare i tronchi che sono stati abbattuti durante la stagione secca e sono da mesi ad asciare per essere utilizzati nelle piantagioni. Bruciano soltanto i rami più piccoli e quelli di medie dimensioni. I grossi tronchi restano carbonizzati, sparsi intorno alle piantagioni.

Nelle nostre preghiere, proprietari e dipendenti fumano ininterrottamente e vuotano in tutta tranquillità le loro pipe ancora accese alla segatura, che è tanto umida da scongiurare qualsiasi pericolo d’incendio. Date le condizioni, come posso fare per spiegare agli indigeni che in Europa basta un solo fiammifero per incendiare un bosco intero?

Quando tutte le osservazioni su questo fatto straordinario si sono esaurite, racconto che in Europa c’è della gente che rema per divertirsi. L’affermazione è accolta sempre da risa sfrenate e cominciano subito le domande. “Chi li costringe a remare?” “Nessuno!” “Ma ci sarà allora qualcuno che regala qualcosa perché lo facciamo?” “No remano soltanto per diletto e anche senza compensi, talvolta fino alla stanchezza più completa!”.

I commenti su questo secondo argomento non hanno mai fine. Talvolta accade anche qui che gli equipaggi di due piroghe che risalgono il fiume facciano a gara per superarsi. Ma che ci sia della gente che sale su una piroga senza dover fare un viaggio o trasportare della merce, semplicemente per remare , è un fatto che per i neri rimane del tutto incomprensibile. A questo punto neppure neppure  tento di spiegare loro che cosa è lo sport.  Le condizioni della loro vita li portano tanto spesso a esercitare la forza fisica e a fare movimento, assai  più di quanto sia nei loro desideri, che essi non potrebbero capire come della gente sia disposta a darsi tanto da fare senza essere obbligata.

Infine, come ultimo argomento, spiego che in Europa un uomo può sposare una donna senza doverla pagare.  La loro risposta è un grido che mi giunge da tutte le parti: “Non è vero! Ti prendi  gioco dei poveri negri!”. Qui la donna è considerata oggetto di valore. Dal momento della sua nascita, la famiglia tiene già conto del capitale che essa rappresenta. Si tratta di un’abitudine mentale ched gli indigeni hanno fin dalla loro prima giovinezza. Il boy di una signora europea che aveva dato alla luce due gemelle nel mio ospedale, non trovò altro complimento da fare al padre che dirgli: “Ora sei ricco!” .

Tutta la vita dell’indigeno è una corsa affannosa alla ricerca dei soldi per l’acquisto di una donna. Ed è a tale scopo che egli cerca fin da ragazzo di guadagnare qualcosa. Spesso è costretto a lasciare il villaggio per occuparsi presso europei  in località molto lontane.  Ma i risparmi di tre o quattro anni di lavoro sono del tutto insufficienti  a pagare una donna, il cui prezzo è normalmente così elevato da superare la somma che un indigeno potrebbe mettere da parte in dieci anni di lavoro. Quindi si sposa e compra la donna a credito. Il padre, e se questi non è più in vita il fratello più anziano, devono aiutarlo nel primo pagamento e garantire per i successivi.

Per assicurare moglie al proprio figlio, i genitori cominciano a versare anticipi per ragazze che contano appena qualche anno di vita. Proprio mentre scrivo, un infermiere indigeno da poco in servizio al mio ospedale mi chiede un notevole anticipo sul salario per l’acquisto di una donna  che ha appena 9 anni. Mi spiega che già da parecchio temo sta facendo versamenti e che se non sarà in grado di completarli la donna sarà data a un altro. In questo caso ci vorrà non poca fatica per ottenere la resa del denaro già versato o per lo meno una parte di esso.

Le difficoltà sorgono dal fatto che il marito, quando si sposa, non conosce ancora esattamente il prezzo complessivo della sua donna e neppure riesce a ottenere precisazioni sulle modalità dei futuri pagamenti.  Con il matrimonio ha inizio un’estorsione che la famiglia della donna continuerà per diversi anni. Il padre della giovane e i parenti in linea paterna non contano molto in questo affare. La donna appartiene alla madre e agli zii materni: ad essi spetta la maggior parte del denaro.

(…) Le donne indigene abusano largamente del loro diritto di far ritorno in qualsiasi momento in senso alla famiglia. Per un terzo dell’anno, e talvolta per un periodo anche maggiore, i miei infermieri sono vedovi temporanei. Le mogli hanno portato con sé i figli più piccoli e lasciato i grandi al padre.

Per tutto il tempo che rimangono soli, i miei infermieri sono costretti a cucinare per sé e per i figli. La conseguenza e che sono sempre di cattivo umore e che trascurano il lavoro. Se poi trovo incomprensibile che essi si sottopongano a un simile stato di cose, alzano le spalle e mi rispondono semplicemente . “Avviene  sempre così”. E sanno che nessuna opposizione sarebbe loro d’aiuto.

Nonostante le interminabili discussioni fra il marito e la famiglia della donna, durante le quali essa è costretta sempre a schierarsi dalla arte dei suoi, in questo paese le unioni sono nella generalità dei casi abbastanza felici.

Il fatto che un  bianco possa sposarsi senza  essere obbligato a lasciarsi sfruttare e tiranneggiare dalla famiglia della moglie, appare per gli indigeni adusati a tale regime una delle storie più incredibili. A questo punto, non oso certo aggiungere che spesso è il marito a ricevere denaro dalla famiglia della donna: mi crederebbero senz’altro uno spaccone!.

https://youtu.be/UHgTJbCtvbM qui 8 video in inglese sul Medico della giungla collocati su You Tube
Il sito internazionale in lingua inglese, francese e tedesco su Albert Schweitzer
 http://www.schweitzer.org/2012/en/
Trasmissione radiofonica svizzera italiana:
 http://www.rsi.ch/rete-due/programmi/cultura/oggi-la-storia/Albert-Schweitzer-3625883.html
In tedesco

 

Se cerchi la ’fratellanza di coloro che portano l’impronta del dolore’’ hai trovato casa. Tutti coloro che hanno sperimentato che cosa sia il dolore fisico e lo strazio del corpo, sono uniti da un forte legame segreto. Chi è stato sottratto al dolore non può pensare di essere libero di nuovo, di poter vivere come prima completamente non curante del passato. Ora egli è ‘’un uomo a cui sono stati aperti gli occhi’’ sul dolore e deve aiutare fin dove può a recare agli altri la stessa liberazione di cui lui ha potuto godere.

Io è da tanti anni che mi ritrovo in questo pensiero del Premio Nobel e vi ringrazio per le 123 adesioni su Facebook! 
Se riuscite a recuperare la petizione contro il riarmo nucleare del teologo missionario vi sarei molto grato

Riprendo il testo del 27 novembre col proseguimento della digitalizzazione del 1 capitolo “Dalla fanciullezza agli anni d’università” di “La mia vita e il mio pensiero”, pag. 13

“In Matteo 10 si parla della missione dei 12 discepoli. Nel discorso con cui li congeda, Gesù annuncia loro che subiranno ben presto una grave persecuzione. Ma a loro non capita niente.
Egli annuncia anche che l’apparizione del Figlio dell’uomo avrà luogo prima che essi finiscano il giro della città d’Israele, e ciò può solo significare che nel frattempo si aprirà il regno ultraterreno, messianico. Egli non li aspetta più di ritorno.
Come può Gesù far intravedere ai discepoli cose che non si avverano nel seguito del racconto? Le spiegazioni di Holtznmann, secondo cui non si trattava di un discorso storicamente avvenuto, bensì di una fusione di “frasi di Gesù” compiuta più tardi, dopo la morte, non mi soddisfava. Persone vissute in un periodo successivo non gli avrebbero mai messo in bocca parole che non si erano avverate.
Il testo lapidario mi induceva a supporre che Gesù avesse realmente predetto ai discepoli le persecuzioni e l’apparizione immediatamente successiva del soprannaturale Figlio dell’uomo, senza che gli avvenimenti seguiti gli dessero ragione. Ma come si arrivò a una simile aspettativa , e quale esperienza fu per lui constatare che le cose andavano diversamente da quanto aveva previsto?
Matteo 11 riferisce la domanda del Battista a Gesù e la risposta che questi gli fa pervenire. Anche qui mi sembrò che Holtzmann e i commentatori in genere non tenessero abbastanza conto degli enigmi del testo, A chi intende alludere il Battista quando chiede a Gesù se è “colui che ha da venire? Si è proprio sicuri, mi chiedevo, che per “colui che ha da venire” si possa intendere soltanto il Messia? Secondo la dottrina del tardo giudaismo, l’apparizione del Messia sarebbe stata preceduta dalla venuta del precursore, il risorto Elia. All’atteso Elia si riferisce Gesù con l’espressione “colui che ha da venire”, quando dice ai discepoli (Mt 11,14) che il Battista è quell’Elia che deve venire: Dunque conclusi, il Battista nella sua domanda ha usato l’espressione nello stesso significato, Egli ha inviato i suoi discepoli da Gesù non per chiedergli se egli sia il Messia, ma benché ci possa apparire strano, per sapere da lui personalmente se egli sia l’atteso precursore del Messia, Elia.
Ma perché Gesù non da alla sua domanda una risposta chiara? Dire che con la risposta elusiva ha voluto mettere alla prova la sua fede è un’espediente d’imbarazzo, che ha fornito lo spunto a molte prediche. Ben più semplice è supporre che Gesù eviti il sì come il no perchè non vuole ancora far sapere pubblicamente chi si ritiene. Sotto ogni aspetto il racconto della domanda del Battista offre dunque la prova che a quel tempo nessuno dei fedeli vedeva in Gesù il Messia. Se egli fosse stato considerato in un modo o nell’altro il Messia, il Battista avrebbe formulato la sua domanda in questo senso.
Su nuove vie d’interpretazione mi spinse anche la frase di Gesù rivolta ai discepoli dopo la partenza dei messi del Battista: fra i nati di donna Giovanni è il più grande, ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui (Matteo 11,11).
La consueta spiegazione secondo cui con queste parole Gesù ha voluto muovere una critica a Battista, e porlo più basso dei fedeli raccolti intorno a lui in quanto membri del regno di Dio, mi riusciva insoddisfacente e insipida perché anche questi fedeli erano di donna. Scartandola, fui spinto a pensare che, contrapponendo il Battista e i membri del regno di Dio, Gesù accennasse alla differenza fra il mondo naturale e quello soprannaturale messianico. Come uomo nella condizione che gli esseri umani ricevono con la nascita, il Battista è il più grande di tutti quelli che sono vissuti. Ma gli appartenenti al regno dei cieli non sono più uomini naturali, con l’avvenuto regno messianico hanno subito una trasformazione nello stato soprannaturale, angelico, Poiché sono esseri soprannaturali, il più piccolo di essi è più grande della più grande figura umana apparsa nel tempo naturale passato. Certo, anche Giovanni Battista appartiene a questo regno, come grande e come piccolo. Ma soltanto nel suo modo d’essere naturale ha una grandezza unica nel suo genere, superiore a tutti gli esseri umani.

Così, alla fine del mio primo anno di studi, persi la fiducia nella spiegazione allora dominante delle parole e dell’azione di Gesù al momento del’invio dei discepoli nel mondo in missione e, con essa, in genere nell’interpretazione storicamente autorevole della sua vita. Quando ritornai dalle manovre, mi erano ormai aperti gli orizzonti completamente nuovi . Era per me chiaro che Gesù non aveva annunciato la fondazione di un regno nel mondo naturale ad opera sua e dei fedeli, bensì l’avvento di un regno che avrebbe accompagnato il prossimo inizio dell’era soprannaturale.
(…)

Capitolo 4 : Studi sull’ultima cena e sulla vita di Gesù. 1900-1902 – La mia vita e il mio pensiero di Albert Schweitzer

(…) Nel lavoro sul problema eucaristico passo in rassegna le soluzioni tentate dalla teologia scientifica sino alla fine del XIX secolo. Allo stesso modo cerco di mettere in luce dialetticamente la sua autentica natura. Risulta così che sono insostenibili la sua autentica natura. Risulta così che sono insostenibili tutti i tentativi di spiegare la cerimonia protocristiana come una distribuzione del pane e del vino che, grazie alla ripetizione delle parole di Gesù indicanti il pane e vino come il suo corpo e il suo sangue, avrebbero acquistato in qualche modo il significato di corpo e sangue.
La cerimonia conviviale del primo cristianesimo era qualcosa di completamente diverso da una ripetizione sacramentale o una rievocazione simbolica del sacrificio di Gesù. La ripetizione dell’ultima cena con gli apostoli ha assunto tale significato nel sacrificio della messa cattolica e nella comunione protestante per ricordare la remissione dei peccati.
Per quanto possa apparirci strano, le simboliche parole di Gesù non hanno determinato l’essenza della cerimonia per gli apostoli e i primi fedeli: tanto che, stando alla nostra conoscenza del cristianesimo delle origini, esse non venivano ripetute nel banchetto comune dei tempi più antichi, L’elemento costitutivo della cerimonia non era dunque dato dalle cosidette parole di istituzione pronunciate da Gesù., bensì dalle preghiere di ringraziamento per il pane e il vino. Queste attribuivano tanto all’ultima cena di Gesù coi discepoli quanto all’agape della comunità protocristiana un significato connesso all’atteso banchetto messianico.
Così si spiega come nei tempi più antichi la cerimonia della comunione venga chiamata “eucarestia”, cioè “rendimento di grazie”, e, come si svolga non annualmente la sera del giovedì santo, bensì al mattino presto di ogni domenica, in quanto giorno della sua resurrezione, in cui si guarda al suo ritorno in occasione dell’avvento del regno di Dio.
(…)

 

La mia vita e il mio pensiero di Albert Scheitzer
Edizioni di Comunità, 1965

Sono nato il 14 gennaio 1875 a Kayserberg nell’Alta Alsazia, come secondo figlio del vicario Ludwing Scheitzer, che curava la piccola, sparsa comunità evangelica del luogo. Il nonno paterno era maestro elementare e organista a Pfaffenhoeffen nella Bassa Alsazia, un mestiere esercitato datre suoi fratelli. Mia madre, Adele, nata Schillinger, era la figlia del pastore di Muellbach nel Muenstertal (Alta Alsazia).
Poche settimane dopo la mia nascita mio padre si trasferì a Guensbach nel Muenstertal. Lì trascorsi con le tre sorelle e il fratello una fanciullezza molto felice, offuscata soltanto dalle frequenti malattie di mio padre. In seguito la sua salute migliorò. E, vigoroso settantenne, egli assisté durante la guerra la sua comunità sotto il fuoco dei cannoni francesi che sparavano giù dalla valle dalle alture dei Vosgi distruggendo più di una casa e facendo non poche vittime fra gli abitanti di Guenbach a Weoier im Tal.
Quando avevo cinque anni, mio padre cominciò a insegnarmi a suonare sul vecchio clavicembalo che era appartenuto al nonno Schillinger. Egli non possedeva una grande tecnica, a scuola eseguendo sull’armonium melodie di corali da me armonizzate. A otto anni, coi piedi che arrivano sì e non a toccare la pedaliera, cominciai a suonare l’organo. Avevo ereditato la passione per questo strumento dal nonno Schillinger, che si interessava molto di organi e della loro fabbricazione e , stando a quanto mi raccontava mia madre, improvvisava in modo eccellente. Se andava in qualche città, si preoccupava anzitutto di conoscere gli organi. E quando venne installato il celebre organo nella chiesa collegiata di Lucerna, vi si recò, per vedere all’opera il costruttore.
A nove anni potei per la prima volta sostituire l’organista nell’ufficio divino.
Fino all’autunno del 1884 frequentai la scuola rurale di Guenbach. Poi andai per un anno alla “Realschule” (cioè una scuola secondaria senza insegnamento di lingue antiche) a Muenster, dove, prendendo lezioni private di latino, mi preparai alla quinta ginnasiale. Il mio padrino di battesimo, Ludwing Schweitzer, fratellastro del nonno e direttore delle locali scuole elementari, ebbe la bontà di accogliermi in casa sua. Altrimenti mio padre, che per il mantenimento della numerosa famiglia disponeva soltanto del suo modesto stipendio di pastore, avrebbe ben difficilmente potuto mantenermi al ginnasio. La severa educazione a cui fui sottoposto in casa di questo prozio e della moglie – non aveva figli – mi giovò molto. Con profonda gratitudine ricordo sempre tutto il bene he da loro ho ricevuto.
Benché avessi imparato senza fatica a leggere e a scrivere , avevo fatto la scuola rurale e la “Realshule” con risultati possibili. Ma al ginnasio fui dapprima un cattivo allievo. Ciò dipendeva non solo dall’indolenza e dall’inclinazione a passare il tempo fantasticando, bensì anche dal fatto che le lezioni private di latino mi avevano preparato in modo insufficiente per la quinta. Solo quando il mio insegnante di quarta, il dottor Wehmann, mi abituò alla precisione nel lavoro e mi diede un po’ di di fiducia in me stesso, le cose andarono meglio. Soprattutto influì su di me dandomi modo di capire subito, fin dai primi giorni di lezione, che si preparava ogni volta col massimo scrupolo. Divenne per me un modello di adempimento dal dovere. Ho continuato a frequentarlo anche in seguito. Quando verso la fine della guerra andai a Strasburgo, dove aveva abitato negli ultimi tempi, chiesi subito di lui e appresi che, ammalatosi di nervi per la fame sofferta, si era tolto la vita.
Come insegnante di musica a Mulhouse ebbi Eugen Muench, il giovane organista della locale chiesa riformata di St. Stephan, appena venuto dal conservatorio musicale di Berlino, dove era stato preso dall’entusiasmo per Bach che allora andava diffondendosi. A lui devo se così presto acquistai conoscenza delle opere del cantore di St. Tomas e, se a partire dal 15 esimo anno di età, ricevetti una solida preparazione d’organo. Quando nell’autunno del 1989 egli morì di tifo nel fiore degli anni, tenni il suo ritratto in un breve opuscolo scritto in francese, che venne pubblicato a Mulhouse e fu la mia prima opera data alle stampe.
Al ginnasio provai interesse principalmente per la storia e le scienze naturali.
Nelle lingue e in matematica dovetti invece compiere uno sforzo per combinare qualcosa. Ma col tempo mi sentii stimolato a riuscire proprio nelle materie per cui non avevo una spiccata attitudine. Così nelle classi superiori fui tra gli allievi discreti, se non i migliori. In componimento però, se ben ricordo, fui di solito il primo della classe.
Come insegnante di latino e greco in prima avemmo l’ottimo direttore del ginnasio, Wilhelm Deeke di Lubecca. Egli non era nelle sue lezioni un arido filologo, e si faceva conoscere la filosofia antica, pur non trascurando gli accenni al pensiero più recente. Era un entusiastico seguace di Schopenhauer.
Il 18 giugno 1893 superai l’esame di licenza. Nello scritto non ebbi particolare successo, neppure nel componimento. Ma nell’orale attirai l’attenzione del residente della commissione esaminatrice – il dottor Albrecht di Strasburgo, ispettore generale scolastico – per le cognizioni e i giudizi di storia. Un “ottimo” in storia da lui proposto e motivato abbellì il mio diploma di maturità, per il resto piuttosto mediocre,
Nell’ottobre di quello stesso anno la generosità del fratello maggiore di mio padre, che era commerciante a Parigi, mi consentì di ascoltare le lezioni del maestro d’organo parigino Charles – Marie Widor. Il mio insegnante di Mulhouse mi aveva preparato così bene che Widor, dopo una mia esecuzione di prova, mi accettò come allievo, benché limitasse in genere la sua attività agli appartenenti alla classe d’organo del conservatorio. Il suo insegnamento ebbe per me importanza decisiva. Egli mi guidò ad approfondire la tecnica e a perseguire una compiuta plasticità dell’interpretazione. E allo stesso temo mi aprì gli occhi al significato dell’architettonico nella musica.
Alla fine di ottobre 1893 mi iscrissi all’università di Strasburgo. Presi alloggio presso il seminario teologico (il “Colleggium Wihelmitanum”) di St. Thomas, che era diretto dal dotto pastore Alfred Erichson. A quel tempo egli era impegnato nel completamento della grande edizione delle opere di Calvino.
L’università strasburghese era allora in piena fioritura. Non ostacolati da alcuna tradizione, insegnanti e studenti cercavano di realizzare insieme l’ideale di un ateneo moderno. Non vi erano quasi professori anziani nel corpo accademico. Un’aria fresca, giovanile dava il tono a tutto l’ambiente.
Frequentai contemporaneamente teologia e filosofia. E poiché al ginnasio avevo studiato appena i rudimenti dell’ebraico, il primo semestre mi fu rovinato dalla preparazione all'”Hebricum” (l’esame preliminare in tale lingua), che il 17 febbraio 1984 riuscì a superare a stento. Più tardi, sempre spronato dall’ansia di riuscire a fare quanto non mi era congeniale, diedi più solide basi alla mia conoscenza di questa materia.
La preoccupazione dell'”Hebraicum” non mi imedì di seguire con assiduità un corso di Heinrich Julius Holtzmann sui sinottici – vale a dire i primi tre vangeli – e le lezioni di Wilhelm Windelband e Theobald Ziegler sulla storia della filosofia.
Dal primo arile 1894 in poi feci il mio anno di servizio militare, La bontà del mio capitano mi permise, durante le consuete esercitazioni, di trovarmi quasi regolarmente alle 11 all’università ad ascoltare, Windelband.
Quando nell’autunno si partì per le manovre nella zona di Hochfelden (Bassa Alsazia), misi nello zaino il mio Testamento in greco. All’inizio del semestre invernale, infatti gli studenti di teologia che concorrevano a borse di studio dovevano sostenere un esame in tre materie: per chi stava prestando servizio militare bastava invece una materia sola. Io avevo i sinottici.
Per non sfigurare all’esame con Holtzmann, da me così stimato, mi portai dunque dietro alle manovre il Nuovo Testamento in greco; e poiché allora ero così vigoroso da non sapere cosa fosse stanchezza, la sera e nei giorni di riposo mi dedicavo allo studio. Durante l’estate avevo esaminato a fondo il commento di Holtzmann. E ora volevo acquistare una conoscenza diretta del testo e vedere che cosa avevo assimilato del commento e del corso delle lezioni. Il risultato fu singolare. Holtzmann era riuscito a far accettare dagli studiosi l’ipotesi di Marco, cioè la teoria secondo cui questo Vangelo era il più antico e il suo disegno era alla base di quelli di Matteo e Luca. Con ciò pareva dimostrato che si dovesse intendere l’attività di Gesù soltanto da un punto di vista del vangelo di Marco. Con mio stupore persi la fiducia in questa conclusione quando durante una giornata di riposo nel villaggio di Guggenheim, affrontai i capitoli 10 e 11 di Matteo e mi accorsi dell’importanza della materia in essi contenuta, che era trattata soltanto da Matteo e non da Marco.
(…)

 

Abbandono spirituale
in Rispetto per la vita di Albert Schweitzer – Edizioni di Comunità Milano 1965

La mia personalità può influire solo su una parte infinitesima dell’ente infinito. Tutto il resto si allontana da me ondeggiando del tutto indifferente alla mia esistenza, come navi distanti alle quali faccia inutili segnali. Ma nell’offrire me stesso a favore di ciò che rientra nella mia piccola sfera d’azione e che ha bisogno del mio aiuto, comunico spiritualmente con l’Ente infinito e dò così significato e ricchezza alla mia povera esistenza. Il fiume si è ricongiunto con l’oceano.
(Etica)

Le forze nascoste della bontà

Di tutto il desiderio d’ideale che esiste nell’umanità solo una piccola parte può manifestarsi con le azioni. Tutto il resto è destinato a realizzarsi in risultati invisibili, i quali tuttavia valgono mille volte di più dell’attività che attira l’attenzione del mondo. Quei risultati stanno in rapporto a quest’ultima come il mare profondo alle onde che si muovono in superificie. Le forze nascoste della bontà si concretano negli uomini che esercitano come occupazione secondaria l’immediato servigio personale, non realizzabile nel lavoro quotidiano. Il destino di molti è di avere come professione, allo scopo di guadagnarsi la vita e di soddisfare le esigenze della società un lavoro più o meno senza anima nel quale possono esprimere poco o nulla delle loro qualità umane, poiché in quel lavoro essi devono essere poco più che delle macchine umane. Eppure nessuno si trova nella condizione di essere senza alcuna opportunità di offrirsi agli altri come essere umano. Il problema dal fenomeno del lavoro perfettamente organizzato , specializzato e meccanizzato dipende solo in parte, in quanto alla sua soluzione, da questa attitudine della società che non solo non accetta le condizioni così prodottesi , ma cerca di difendere, appena può, i diritti della personalità umana. L’importante è che gli interessati non si pieghino semplicemente al loro destino, ma cerchino invece con tutta la loro energia di affermare, in mezzo a quelle condizioni sfavorevoli, la loro personalità umana affidandosi all’aiuto dell’attività spirituale. Ognuno ha la possibilità di salvare la sua vita umana, a dispetto della vita professionale, purché afferri qualsiasi opportunità di essere un uomo attraverso un’azione personale, anche se modesta, per il bene del prossimo bisognoso dell’aiuto dei suoi simili. Ci si arruola così al servizio della spiritualità e del bene. Nessun destino può interferire ad un uomo di offrire agli altri questo servizio immediato compiuto parallelamente al lavoro quotidiano. Se per lo più tale servizio non viene reso, è perché si lasciano perdere le opportunità
(Vita)

Da Rispetto per la vita di Albert Schweitzer:

Chiunque si sia accorto che l’idea dell’amore è il raggiungimento spirituale di luce che ci arriva dall’infinito, non chiede più alla religione di donargli la completa conoscenza di ciò che è soprannaturale. Egli medita, è vero, sui grandi problemi e chiede qual è il significato del male sulla terra? Come accade che in Dio, la grande causa prima, la volontà di creare e la volontà di amare sono una sola cosa? In che rapporto reciproco stanno la vita spirituale e la vita materiale e in che modo la nostra esistenza è transitoria eppure eterna?  Ma è pure in grado di lasciare queste domande senza risposte per quanto penoso possa rinunciare a ogni speranza di soluzione. Nella consapevolezza della propria esistenza spirituale in Dio per mezzo dell’amore, egli possiede quello di cui ha bisogno. (Vita)

Un giorno, nella mia disperazione, mi lasciai cadere su una sedia della camera di consultazione e gemetti: “Che matto sono stato a venire qui a curare dei selvaggi come questi!” . Al che Giuseppe rispose pacatamente: “Si dottore , qui sulla terra lei è un gran matto, ma non in cielo”. (Ospedale)

L’elemento essenziale del cristianesimo quale venne predicato da Gesù e quale è compreso dal pensiero è che solamente per mezzo dell’amore possiamo venire alla comunione con Dio. Tutta la vera conoscenza di Dio si basa su questo fondamento: noi Lo sperimentiamo nella nostra vita come volontà di amare. (Vita)

Gesù ha un significato per il nostro mondo perchè una possente forza spirituale fluisce da Lui e scorre anche attraverso i nostri tempi. Nessuna scoperta storica può mettere in dubbio né confermare questo fatto. Esso è il solido fondamento del cristianesimo. (Ricerca di Gesù)

Più profonda è la pietà tanto gli umili sono le sue pretese riguardo la conoscenza del soprannaturale. Essa è come un sentiero che si insinua tra le colline invece di passarvi al di sopra.  (Vita)

Poiché ho fiducia nel potere della verità e dello spirito, credo nel futuro del genere umano, L’affermazione etica della vita e del mondo contiene in sé una volontà e un desiderio ottimistici che non potranno mai andar perduti. Non ha quindi mai paura di guardare in faccia la triste realtà e vederla quale realmente è. (Vita)

La verità non ha un suo tempo particolare. La sua ora è adesso, sempre, e più che mai quando sembra maggiormente inopportuna alle circostanze del momento. (Foresta vergine)

Mi convinsi – e sono tuttora convinto – che la verità dei principi fondamentali del cristianesimo deve venire dimostrata dal ragionamento, e non da nessun altro metodo. La ragione, dissi a me stesso, ci viene data affinché possiamo portare nel suo raggio di azione ogni cosa, perfino le più sublimi idee di religione. E’ questa certezza mi riempì di gioia. (Memorie di fanciullezza)

La rinuncia a pensare è una dichiarazione di fallimento spirituale. Quando svanisce la convinzione che gli uomini possano arrivare a conoscere la verità per mezzo del proprio pensiero, allora si fa strada lo scetticismo. Coloro che cercano di rendere la nostra epoca scettica in questo senso, lo fanno perché si aspettano che gli uomini, dopo aver rinunciato alla speranza di scoprire da sé la verità, finiranno per accettare come verità ciò che viene loro imposto con autorità e per mezzo della propaganda (vita)

Il pensiero molto profondo è umile. Si preoccupa soltanto che la fiamma della Verità, da esso alimentata, bruci emanando il calore più intenso e più puro; non si cura della distanza a cui arriva il suo chiarore (pensiero indiano)

La prima edizione integrale in italiano della «Kulturphilosophie»

Aggiornamento della pagina su web https://ecumenici.wordpress.com/albert-schweitzer/

E  su Facebook https://www.facebook.com/Albert-Schweitzer-non-ufficiale-1612162799049868/?fref=ts

Nel 2015 è celebrato il 50° anniversario della morte di Albert Schweitzer (1875-1965), il grande filosofo-teologo protestante, medico-missionario in Africa e apostolo del «rispetto per la vita».

Se in Italia non è del tutto dimenticato lo dobbiamo alla passione e al tenace lavoro di Alberto Guglielmi Manzoni, autore della migliore biografia intellettuale del grande alsaziano1. È uscita da pochi mesi la sua ultima fatica: la prima traduzione integrale italiana della sua opera filosofica fondamentale: la Kulturphilosophie (primi due volumi del 1923, poi ripubblicati nel 1990 con il titolo Kultur und Ethik)2. Un libro che ebbe una lunga e travagliata gestazione: abbozzato idealmente negli ultimi anni dell’Università (1900), fu rimeditato lungamente nel primo soggiorno a Lambaréné in Africa, durante la costruzione del primo Ospedale (1914-17), prima della deportazione in Francia negli anni di guerra, come prigioniero politico.

Scrive Schweitzer: «L’Illuminismo e il razionalismo del XVIII secolo avevano formulato ideali etici razionali che avevano iniziato a confrontarsi con la realtà e a cambiarla. Ma intorno alla metà del XIX secolo questo confronto con la realtà si è affievolito e gradualmente spento. Perché è accaduto? Per il fallimento della filosofia. Schiller, Goethe e altri hanno dimostrato che il razionalismo era più una filosofia popolare che una vera filosofia. Ma non sono stati in grado di sostituire ciò che andavano demolendo con un pensiero nuovo capace di mantenere, con la medesima forza, le idee di civiltà presso l’opinione pubblica».

Le scienze della natura hanno poi finito per ribellarsi e, con l’entusiasmo del popolo che ricerca la verità delle cose, hanno abbattuto le sontuose costruzioni della fantasia. Ormai veniva considerato contenuto di verità solo ciò che le scienze descrittive andavano scoprendo del reale. Il razionalismo era liquidato e con lui scompariva anche la prospettiva ottimistica ed etica che aveva annunciato e che era in grado di orientare il destino del mondo, dell’umanità, della società e dell’individuo».

La rivoluzione industriale ha completato l’opera. «Molti individui vivono ormai semplicemente come macchine di produzione e non più come uomini. Tutto ciò che si dice sul valore morale e spirituale del lavoro non significa nulla per loro. Il costante eccesso di lavoro cui è sottoposto l’uomo moderno ha come conseguenza che la dimensione spirituale inaridisce in lui e cade sempre più vittima del bisogno di distrazioni superficiali». Sembra di vedere Charlot in Tempi moderni. E ancora:

«Ci sfugge ogni nostra affinità con il prossimo: per questo ci stiamo avviando sul cammino della disumanità. Ogni qualvolta scompare la coscienza che ogni uomo, in quanto tale, un poco ci riguarda, la civiltà e l’etica cominciano a vacillare: l’inesorabile diffondersi della disumanità è pertanto solo una questione di tempo».

Dieci anni prima dell’ascesa al potere di Hitler questo pensiero ci appare profetico: «Quante espressioni di violenza, talvolta sottili, talvolta feroci, si sono rivelate come verità razionali sugli uomini di colore e hanno poi raggiunto l’opinione pubblica!».

«Al nazionalismo è imputabile la catastrofe che so è abbattuta su di noi e che determina il decadimento della nostra civiltà. Che cos’è il nazionalismo? Un patriottismo impuro e spinto sino all’assurdo che sta rispetto al patriottismo nobile e sano come un’idea folle sta a un principio razionale. Vengono dogmaticamente asserite ed elucubrate presunte differenze razziali di carattere intellettuale con una tale caparbietà che questi discorsi insulsi diventano un’ossessione e a dichiarata superficialità di un popolo appare come una malattia immaginaria». Qui si sente avvicinare l’epoca de Mein Kampf! «Ci vuole un nuovo orientamento spirituale che sia capace di appianare i conflitti tra i popoli e all’interno delle nazioni in modo da rendere possibili i presupposti di una nuova civiltà». Questo nuovo orientamento spirituale è il «rispetto per la vita».

Già in un sermone predicato nel 1919 a Strasburgo Schweitzer aveva detto: «L’amore per le creature, il rispetto per qualsiasi essere vivente, la partecipazione a ogni vita: questi sentimenti non ci devono essere estranei. Non possiamo avere che rispetto per tutto quanto si chiama vita: ecco l’inizio e il fondamento di tutta l’eticità». Questa voce illuminata si è spenta cinquant’anni fa ma parla ancora oggi: è straordinariamente attuale per chi la vuole ascoltare!

  1. A. Guglielmi,Albert Schweitzer, Ventimiglia, Philobiblon, 2003.
  2. A. Schweitzer,Filosofia della civiltà, traduzione di A. Guglielmi Manzoni, Roma, Fazi, 2014, pp. 380, euro 19,00. Il significato del termine tedescoKultur è più ampio del corrispondente italiano «cultura» e si preferisce quindi tradurlo «civiltà».

 

Sanremo. E’ organizzata in occasione del 50° anniversario della morte del medico missionario e Premio Nobel per la Pace Albert Schweitzer la conferenza dal titolo “Albert Schweitzer (1875 – 1965). Un grande testimone del Novecento” che avrà luogo venerdì 23 ottobre 2015 alle 16.30 a Villa Nobel.

La conferenza, organizzata dalla Provincia di Imperia e dal Comune di Sanremo in collaborazione con la Chiesa Evangelica Luterana di Sanremo e il Club Unesco Sanremo, sarà tenuta da Alberto Guglielmi Manzoni.

Nel corso dell’incontro verranno proiettate immagini relative alla vita e all’opera di Schweitzer e si ascolteranno, tramite riproduzioni su cd, brani musicali di Schweitzer che suona Bach.

Il nome di Albert Schweitzer (1875-1965) è senza dubbio legato all’opera missionaria cui si è dedicato per oltre mezzo secolo: la realizzazione del villaggio-ospedale a Lambaréné, nell’allora Africa equatoriale francese (attuale Gabon), in cui ha curato i lebbrosi e i malati colpiti dalla malattia del sonno. Ma accanto all’infaticabile impegno umanitario, non meno significativa è stata la molteplicità di attività e di interessi che hanno caratterizzato l’intera sua esistenza. Fu pastore e teologo protestante (luterano), studioso di filosofia (inizialmente Kant), di letteratura tedesca (in modo particolare Goethe) e di religioni orientali, ma anche organista (interprete di Bach) e musicologo. Diventò medico-missionario in Africa e, per la sua attività filantropica, fu insignito del premio Nobel per la Pace, conferito nel 1953 ma valido per l’anno precedente. Di lui restano importanti opere su Gesù, la mistica dell’apostolo Paolo, Goethe e Bach.

Nota sul relatore:

Nato e residente a Sanremo, Alberto Guglielmi Manzoni si è laureato in filosofia all’Università di Pisa ed è orientatore in intermediazione culturale. Lavora da anni per la Provincia di Imperia, occupandosi di lavoro e di orientamento professionale. Ama l’arte, la poesia e la scrittura e ha all’attivo numerose conferenze e varie pubblicazioni tra cui “Albert Schweitzer. L’etica del rispetto per la vita”; la monografia “Ugo Janni a Sanremo. Una grande testimonianza di ecumenismo cristiano”; “Pace e pericolo atomico. Le lettere tra Albert Schweitzer e Albert Einstein” (con la prefazione di Arrigo Levi). Ha curato il saggio “Stranieri nel Ponente ligure. Percorsi e testimonianze tra Ottocento e Novecento”. Ha tradotto dal tedesco all’italiano il volume “Filosofia della civiltà” di Albert Schweitzer. L’ultima sua fatica è il saggio “Tedeschi in Riviera. La Sanremo di Federico III tra cure climatiche, mondanità e religiosità solidaristica”

 

 

Lo strumento della chiesa di Saint-Jean, a Losanna, festeggia il suo centenario. L’organista Matthias Seidel ne racconta la storia movimentata

 

Di Vincent Volet. Fonte Bonne Nouvelle, Protestinfo

C’è più di una ragione per interessarsi all’organo della chiesa di Saint-Jean, a Losanna. Non soltanto lo strumento festeggia questo mese il suo centenario, ma è stato progettato dal celebre dottor Albert Schweitzer. Il teologo e medico missionario alsaziano era anche un organista di talento. Appassionato di musica, desiderava ridare all’organo le sonorità dell’epoca di Bach, che considerava come il quinto evangelista.

Questo progetto coincideva con quelli del pastore Jules Amiguet, all’origine della chiesa di Saint-Jean. Il pastore aveva il progetto di ridare alla chiesa protestante una liturgia più bella, e alla sua chiesa un aspetto ispirato al Rinascimento italiano, realizzato dal pittore Louis Rivier. Uno strumento musicale degno del Cantore di Leipzig non poteva che sedurlo.

Come il futuro Premio Nobel e il pastore si siano conosciuti resta un mistero. «Il legame è senza dubbio dovuto a Marguerite de Loys-Chandieu, castellana di Dorigny – spiega Matthias Seidel, organista a Saint-Jean – che possedeva il terreno e ha finanziato la costruzione della chiesa».

Il pastore Amiguet ha chiesto al dottor Schweitzer di fare un modello per il suo organo e lo strumento è stato realizzato da Dalstein & Haerpfer. «Schweitzer parla dello strumento nelle sue lettere e dice di esserne contento – nota Seidel, 50 anni, lui stesso tedesco di origine – lo ha suonato, in particolare durante un concerto nel 1925, come faceva spesso per finanziare il suo ospedale in Africa». Il centenario dell’organo coincide con il giubileo della scomparsa del dottor Schweitzer.

«Alcuni oggi criticano il missionario – nota Seidel – ma bisogna vedere le cose nel loro contesto. Con la sua opera ha donato un bell’esempio. Il suo organo non si rivela adatto soltanto alla musica di Bach ma anche con Brahms, Mendelssohn, musiche più calme, trattenute…». Luterano, Matthias Seidel appezza i culti della domenica sera a Saint-Jean, dove da più di un secolo si utilizza la liturgia del pastore Amiguet.

LA VITA DEL MEDICO MISSIONARIO, NOBEL PER LA PACE

La storia (quasi) segreta

di Albert Schweitzer

La sopravvivenza del suo ospedale africano

garantita dall’ abilità come musicista

Albert Schweitzer, Nobel per la pace nel 1952 per la straordinaria opera come medico missionario in Africa , ma anche organista, interprete di Bach, musicologo, teologo, filosofo,. scrittore, conferenziere fervente pacifista .Se della sua storia di pioniere della medicina in Africa, creatore di un ospedale e di un lebbrosario – un ‘impresa per la quale Albert Einstein lo definì «il più grande uomo vivente»,- si sa molto. molto meno di sa del ruolo che ebbero per la sua materiale sopravvivenza i dischi che aveva inciso nel 1936. Fu lui stesso ad ammetterlo: «Per anni mi hanno dato di che vivere».

Nato nel 1875 in terra tedesca, a Kaysersberg, passata alla Francia dopo la Prima guerra mondiale, e morto nel 1965 su suolo africano, a ,Lambaréné in Africa il «dottore bianco» (bianco di pelle e bianco di vestito) veniva pagato in natura dai suoi pazienti: pollame, capre, maiali. Lui, rigorosamente vegetariano, distribuiva i “pagamenti” a chi più ne aveva necessità. L’omaggio riconoscente a quelle lontane incisioni che gli avevano permesso di continuare la sua opera Schweitzer lo scrisse nel 1952, nel corso di una breve corrispondenza con Walter Legge, “signore e padrone” della produzione di musica classica presso la casa discografica inglese EMI-Columbia.

I DISCHI DEL 1936- Proprio sotto gli auspici di Legge, Schweitzer aveva realizzato sedici anni prima alcuni dischi con musica di Johann Sebastian Bach (sul quale scrisse anche un libro, ancora oggi imprescindibile), che non erano certo sfuggiti al raffinato orecchio degli specialisti, ma che il normale pubblico aveva lasciato tranquillamente passare senza troppo emozionarsi. Ma ora, dopo il conferimento del Nobel per la pace, il nome di Schweitzer era sulla bocca di tutti, in tutto il mondo. Moltissimi, ammirati e incuriositi, avrebbero voluto ascoltare cosa le sue mani sapevano trarre dalla doppia tastiera di un grande organo. Non solo Bach, ma anche Mendelsshon, Franck e Widor, suo secondo maestro, fiorivano sulla punta di quelle dita.

UNA LETTERA TRA CINQUECENTO – Le lettere inviate a Walter Legge portano date tra il 9 marzo e il 19 novembre di quell’ anno 1952 e vertono su una preoccupazione che stava profondamente turbando il neo-Nobel, ansioso di poter registrare di nuovo, adesso che erano disponibili nuove apparecchiature e nuove rivoluzionarie possibilità tecniche (il nastro magnetico aveva sostituito l’incisione diretta, il microsolco stava spazzando via il 78 giri, si cominciava a parlare di alta fedeltà).

« Caro Amico — scriveva Schweitzer — cerco di non pensare a ciò che potreste supporre a causa del mio lungo silenzio. Vi chiedo comprensione. Voi stesso avete potuto constatare durante il mio soggiorno a Londra quanto fossi affaticato. Ho dovuto affrontare il lavoro di ricostruzione del mio ospedale, che mi ha stremato. In questo momento, il tempo, il lavoro pressante e la stanchezza mi impediscono di rispondervi. Nessun essere umano dovrebbe affrontare in una sola volta compiti tanto impellenti come i miei».

A Strasburgo ha dovuto occuparsi della spedizione di 125 casse di materiale assolutamente indispensabile per il funzionamento del suo ospedale, «e voi non potete immaginare che razza di lavoro sia compilare tutti quei moduli». Si scusa, ma in un sacco giacciono cinquecento lettere inevase, tutte in attesa di una risposta immediata. E in quel mucchio c’è certo anche quella che Legge gli ha da tempo spedito. La prima lettera di Schweitzer, quella del 9 marzo, finisce con un post scriptum che apre alla speranza: «Un’infermiera si è gettata dentro quella montagna di corrispondenza e ha recuperato anche la vostra missiva e quelle della casa discografica Columbia».

UN EQUIVOCO E UN DUBBIO- La verità è che i dischi Schweitzer li vuole assolutamente realizzare. L’ha promesso a Goddard Lieberson, della Columbia americana durante un recente soggiorno a New York. Ha addirittura iniziato con alcune registrazioni in proprio e con l’aiuto del genero, impegnato con il registratore magnetico, suonando il nuovo grande organo dell’Abbazia di St. Moritz, in Svizzera. Ma si è dovuto fermare perché lo strumento è solo raramente disponibile. Il colloquio con Lieberson gli ha però lasciato rinnovata energia e grande voglia di fare. Ecco che improvviso nasce il problema, il cruccio che tormenta la sua coscienza: «Credevo che le due Columbia, quella d’America e quella inglese, fossero esattamente la stessa cosa», poi ha scoperto con sgomento che la realtà non sta in questi termini. Il lavoro che sta portando avanti per la American sarà disponibile anche per la English ? Pare di no. Il progetto, al quale si sta dedicando con mille ansiose speranze, sta dunque forse per naufragare? Si sente quasi un traditore, certamente un ingrato: «La Columbia inglese non deve assolutamente dubitare della mia riconoscenza e deve sapere che per le nuove registrazioni tutto si sistemerà. Non deve assolutamente mettere in dubbio la mia amicizia; vi dovrò sempre ringraziare per aver potuto effettuare alcune incisioni in St Aurelia, a Strasburgo, nel 1936. Mai lo dimenticherò». E conclude: «Mi sento legato a voi inglesi da vincoli di sincera lealtà».

LA SOSPIRATA SOLUZIONE – Per liberare la coscienza da quel “peso” ricontatterà di persona i grandi capi della Casa americana. Lieberson si mostra comprensivo con il Nobel, forse anche in omaggio alla sua fama ormai planetaria; si rende conto che ostacolarlo sarebbe una sgradevole pubblicità per tutto il Gruppo. Finalmente Schweitzer ottiene che il sospirato “passaggio” dei nastri abbia luogo. Ogni sua registrazione sarà messa a disposizione di entrambe le Columbia. Trionfante lo comunica a Legge: «Sono riuscito a far capire alla American quanto mi abbia turbato sembrare un ingrato nei vostri confronti e così sono riuscito a ottenere che tutti i dischi registrati per gli americani saranno anche della English, che potrà tranquillamente pubblicarli». L’entusiasmo è incontenibile, e lui ci ha preso gusto: «Voglio registrare ancora e ancora». I dischi furono realizzati e oggi li troviamo in compact disc.

Albert Schweitzer, l’uomo eccezionale che portò la medicina in Africa

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Massimo Di Forti – Il Messaggero

Era troppo. Filosofo, teologo, musicista, medico (le sue quattro lauree), ma anche muratore, carpentiere, architetto, costruttore di barche, dentista, idraulico, meccanico, farmacista, giardiniere, zoologo, veterinario. Un uomo universale nel senso in cui lo furono Leonardo, Goethe e pochi altri. Albert Schweitzer – scomparso a 90 anni il 4 settembre di mezzo secolo fa, dopo una vita leggendaria – fu per Einstein «il più grande essere umano del XX secolo». Nel ’52 gli dettero il Nobel per la pace ma nel suo caso era persino poco, se si riflette sul complesso delle sue opere, profonde, originali, rivoluzionarie, in ogni campo, dalla filosofia alla musica e alla teologia. Fu il più grande organista del suo tempo e la massima autorità al mondo nella costruzione di organi.

Con una scrittura che ancor oggi mantiene un raro splendore, Schweitzer è stato autore di un’insuperata biografia di Bach, di una altrettanto celebrata di Goethe (di cui ammirava «l’unione di lavoro materiale e di attività intellettuale»: «mi impressionò profondamente il fatto che per questo gigante degli intellettuali non esistesse alcun lavoro troppo umile per la sua dignità»), un libro su Gesù in odore di eresia (contestava il Gesù storico per affermarne lo spirito eterno che giungendo «negli spiriti degli uomini lotta per una nuova norma di vita»), uno sull’amatissimo Paolo apostolo delle genti, di uno studio magistrale sui grandi pensatori indiani e di storici appelli contro gli esperimenti atomici. La summa del suo pensiero, comunque, fu il principio del “rispetto per la vita”, che lo vede precursore indiscusso dei movimenti ambientalista e animalista e del suoi protagonisti, da Fritjof Capra a Peter Singer.

Fu uno choc planetario l’annuncio dato all’inizio del ’900 dal teologo protestante di lasciare la gloria e l’Europa per recarsi come medico in Africa. Nel 1913, trentottenne, partiva da Gunsbach con la moglie Hélène Blesslau, sposata l’anno prima, per Lambaréné nel Gabon dove avrebbe costruito con le sue mani un ospedale di legno.

John Gunther, il più famoso giornalista e inviato degli anni 30-60, chiese nel ’53 a Schweitzer le ragioni di quelle scelte. Perché l’Africa? Perché era rimasto sconvolto dalla statua di un nero in catene alla base di un monumento di Bartholdi, l’autore della statua della Libertà. Perché come medico? Perché era stanco delle parole e voleva passare ai fatti. Perché Lambaréné? Perché era un luogo inaccessibile e pericoloso e non c’era un solo medico in tutta la zona. Avrebbe dovuto aggiungere, le Grand Docteur, che l’incredibile impresa era la sua risposta all’appello di Cristo («Chi vorrà salvare la sua vita la perderà, colui che avrà perduto la vita la troverà…») e di dare, con l’amore, un senso alla nostra esistenza.

Il principio del rispetto della vita fu il culmine teorico e pratico di questa sfida, oggi più che mai attuale. Era nato quando Albert aveva poco più di sette anni, un suo amico lo aveva invitato a colpire con le fionde gli uccelli ed egli aveva accettato per non essere schernito ripromettendosi di mancare il colpo ma rimase bloccato al momento del tiro dal suono delle campane della chiesa. Fu «una voce dal cielo». Albert disperse gli uccelli, scappò a casa e da allora conservò «nel profondo del cuore il comandamento: Tu non ucciderai». L’etica del rispetto per la vita è oggi la più alta ispirazione per ambientalisti e animalisti (ma alcuni non lo sanno) del mondo intero: «Un uomo è morale soltanto quando considera la vita sacra come tale, quella delle piante e degli animali altrettanto di quella dei suoi simili». Che rivoluzione, se venisse accettata. Fa onore all’ultimo Cortona Mix Festival aver ricordato Schweitzer con un concerto delle sue musiche.Come tutti i Grandi, Schweitzer è stato osannato e anche criticato. Era inevitabile, con quei meriti. Troppi per farli accettare alla mediocrità. E poi che ne sa, la mediocrità, della carità e dell’amore? Le accuse erano soprattutto volte alle condizioni igieniche dell’ospedale e al rifiuto di ammodernarlo, di farlo più occidentale. Neppure Gunther si sottrasse al coro. Nonostante la grande ammirazione per il dottore («Ha salvato migliaia di vite») e l’ammissione che il livello della chirurgia fosse «molto elevato», non riusciva ad accettare che gli animali e gli abitanti potessero aggirarsi in un luogo di cura tra rifiuti e «impianti sanitari pittoreschi». Ma c’era, sicuramente, una difficoltà di intendersi. Schweitzer non voleva (e i suoi critici non lo capivano) imporre agli africani condizioni a loro estranee, preoccupandosi invece di farli sentire a casa propria. Lo scrisse all’Abbé Pierre, suo fraterno amico (che lo capiva, eccome): «Questo non è un ospedale, è un villaggio dove si cura e si guarisce. So che non è moderno, ma è più che moderno, è umano». Oggi Lambaréné è una cittadina di oltre 25.000 abitanti. L’ospedale cura 50.000 persone all’anno.

Per un primo approccio informativo segnaliamo che è stata pubblicata questa pagina su Wikipedia:

https://it.wikipedia.org/wiki/Albert_Schweitzer

 

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Una proposta di lettura: aiutateci a diffondere da domani la pagina nella cerchia dei vostri amici https://ecumenici.wordpress.com/albert-schweitzer/

Contiene queste informazioni ed altre già inviate

Albert Schweitzer, Filosofia della civiltà

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Qual è il senso della vita? Cosa significa fare il bene? Qual è il giusto rapporto dell’uomo con il mondo? Schweitzer affronta gli interrogativi fondamentali della disciplina filosofica, sviluppando in questo libro la sua teoria del rispetto della vita. Scritto tra il 1913 e il 1917, Filosofia della civiltà offre un’impietosa critica della realtà e della cultura dominanti. Ma l’autore individua una via di ricostruzione: solo il principio del “rispetto per la vita” può illuminare il cammino dell’umanità e condurla al vero progresso.
Il nostro pensiero filosofico ha smarrito la sua dimensione elementare e anche l’etica sembra brancolare nel buio. La vera filosofia deve muovere dalla constatazione più immediata della coscienza: “Sono vita che vuole vivere, in mezzo a vita che vuole vivere”. A partire da questo punto di vista possiamo intessere una relazione spirituale con il mondo, prima ancora di dedicarci alla sua conoscenza.

Albert Schweitzer
Filosofia della civiltà
Fazi Editore 2014

Schweitzer e Einstein, due amici in difesa della pace e contro il nucleare : un testo ancora attuale
9788870168457

PACE E PERICOLO ATOMICO
di A. Guglielmo Manzoni – ed. Claudiana

Praticamente coetanei – uno medico e teologo, l’altro scienziato e filosofo, il primo luterano, il secondo ebreo – Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace nel 1952, e Albert Einstein, premio Nobel per la Fisica nel 1921, si incontrarono solo due volte e si scambiarono una serie di lettere, tutte tra il 1948 e il 1955.

Nondimeno entrambi misero in guardia i contemporanei contro i pericoli di un progresso tecnico-scientifico acefalo, facendo pressioni contro i test e le sperimentazioni della bomba atomica – la cui costruzione, in un primo tempo, Einstein aveva appoggiato nel timore che il regime nazista se ne dotasse per primo – e battendosi per il disarmo nucleare e la pace.

Recensione:

GUGLIELMI MANZONI, Pace e pericolo atomico: le lettere tra Albert Schweitzer e Albert Einstein, Claudiana, Torino, 2011.

Il saggio del Manzoni si propone di mettere in evidenza la preoccupazione di due grandi uomini del XX secolo, Einstein e Schweitzer, uno scienziato e filosofo ebreo, premio Nobel per la fisica nel 1921, l’altro medico e teologo luterano, premio Nobel per la pace nel 1952, legata ai progressi tecnico-scientifici, che hanno condotto verso le sperimentazioni della bomba atomica, alla battaglia per il disarmo nucleare e alla promozione della pace.
Il saggio è diviso in due parti ed è composto di quattro capitoli: i primi tre contenuti nella prima parte e il quarto nella seconda parte. Nel primo è riportata una breve descrizione dei due Albert e di ciò che li accomuna. Entrambi sono nati e cresciuti in Germania, hanno vissuto lontano dalla loro patria (Einstein in
America e Schweitzer in Africa, precisamente svolgendo la sua attività di medico presso l’ospedale per lebbrosi costruito a Lambaréné), si sono ritrovati a vivere in un’epoca ricca di sconvolgimenti e cambiamenti sociali, politici e storici dovuti all’ascesa dei totalitarismi, prima, e del blocco creatosi dalla guerra fredda, dopo. Hanno completamente rivoluzionato il modo di pensare del loro tempo attraverso le opere apportate nei loro campi: Einstein, attraverso una nuova concezione del cosmo, che prende il nome di “teoria della relatività” e Schweitzer attraverso “il rispetto per la vita” come chiave fondamentale dell’etica. Entrambi sono stati personalità schive e riservate, hanno coltivato interessi nel campo artistico: entrambi musicisti; Schweitzer era un eccellente organista che nutriva una vera passione per Bach, sul quale ha anche scritto un
libro nel 1905, J. S. Bach, il musicista poeta , mentre Einstein era un violinista. Entrambi, e questa è la cosa più fondamentale, hanno messo in guardia i contemporanei dai rischi e dai risvolti negativi di un cieco progresso scientifico e tecnologico che porta ad una situazione di aridità morale e disumanizzazione.
Entrambi ponevano al centro delle loro preoccupazioni il problema della guerra. Soprattutto Einstein, le cui riflessioni e quesiti sono riportate nel carteggio con Freud del 1932 nella nota opera Perché la guerra? (Torino, 1975).
All’interno di questi interventi si può notare come lo scienziato, di fronte all’incapacità degli uomini di liberarsi delle loro pulsioni aggressive, trovi una soluzione ipotetica nel fatto che i singoli stati devono rinunciare alla loro sovranità, mettendosi nelle mani di un organismo sovrannazionale capace di comporre i conflitti reciproci tra gli stessi stati. Freud afferma che le guerre avranno fine con il perfezionamento intellettuale e civile dell’umanità, oppure con l’avvento di una personalità dotata di genio artistico: magari un musicista o un pittore. Libero di pensare e dunque di creare nuovi valori: questa potrebbe essere la seconda ipotesi di Einstein.
Veniamo al punto di vista e alle riflessioni di Schweitzer. A questo proposito è opportuno citare una sua importante opera, I popoli devono sapere. Discorsi e documenti di Albert Schweitzer sui rischi nucleari (Gorle, 2000).
E’ importante presentare questi documenti in quanto sono di attualità anche ai nostri giorni e ci aiutano a riflettere sui valori e sul rispetto per la vita. Un esempio attuale è stato l’appello di pace del Presidente degli Stati Uniti, Obama, pubblicato dal quotidiano il Corriere della Sera (Aprile, 2009) e del conseguente smantellamento delle armi nucleari: l’esistenza di migliaia di armi nucleari è l’eredità più pericolosa della guerra fredda. Come si può notare le voci dei due Albert risuonano ancora nel nostro mondo odierno. I loro corpi perché finiti son sepolti, ma le anime, infinite, sono eteree e vivono in ogni luogo e tempo.
Entrambi esprimono sdegno e costernazione nel vedere come l’essere umano abbia impiegato le sue capacità intellettive e le preziose cognizioni scientifiche raggiunte escogitando un terribile strumento di distruzione quale fu, appunto, la bomba atomica. Il medico tenne tre conversazioni trasmesse alla radio di Oslo, e poi da altre stazioni nel mondo, nei giorni 28, 29 e 30 aprile 1958 denunciando gli esperimenti nucleari sia perché si sarebbe sfociati in una terza guerra mondiale, che inevitabilmente sarebbe una guerra atomica con la continua corsa al riarmo delle grandi potenze sempre più costituita da strumenti e armi di precisione quali i missili, sia perché l’atmosfera terrestre, essendo contaminata da tali esperimenti sottoforma di pulviscoli radioattivi, continuarli costituisce un crimine per la nostra specie, i cui figli rischierebbero di nascere deformi fisicamente e tarati nell’intelletto. Uno tra gli elementi radioattivi più pericolosi è lo stronzio 90. Esso si deposita nelle ossa, dalle quali emette la sua radiazione sulle cellule del midollo osseo, quello in cui si formano i globuli bianchi e rossi del sangue. Ne derivano malattie del sangue che per la maggior parte dei casi hanno esito mortale. Soprattutto, questa radiazione danneggia le cellule degli organi del processo della riproduzione. Dunque la distruzione dell’intera umanità. Come ebbe a dire Einstein in Testamento spirituale: messaggio contro la guerra atomica contenuto nell’opera Come io vedo il mondo (Bologna, 1978).
Nel terzo capitolo troviamo l’impegno e la visione di Einstein. Egli si oppose ai governi dittatoriali e per questo motivo (e per le sue origini ebraiche) abbandonò la Germania subito dopo la presa del potere da parte del partito nazista. In principio fu favorevole alla costruzione della bomba atomica al fine di prevenirne la costruzione da parte di Hitler. Egli scrisse una lettera, il 2 agosto del 1939, su sollecitazione di Leo Szilard, scienziato tedesco, al presidente Roosevelt incoraggiandolo a iniziare un programma di ricerca per creare delle armi atomiche. Roosevelt rispose creando un comitato per studiare la possibilità di usare l’uranio come arma nucleare. Successivamente, tale lettera fu all’origine del Progetto Manhattan, varato dagli Stati Uniti per la messa in opera della bomba atomica che nell’estate del 1945 avrebbe distrutto le due città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki. Il progetto assorbì tale comitato ed Einstein non fu ascoltato quando nel 1945 si oppose al lancio della stessa bomba sul Giappone. In seguito non furono pochi i tormenti dello scienziato dopo che si diffuse la voce che fosse diventato il fondatore della bomba atomica e dichiarò in più occasioni, che se non fosse stato per la minaccia della Germania, non avrebbe accelerato la costruzione di tale ordigno.
Ma è ovvio che lo scienziato più che promuovere o chiedere la costruzione della bomba atomica, volesse avvertire la comunità politica americana circa l’eventualità che questo ordigno si realizzasse davvero e soprattutto che l’uranio potesse diventare una potente fonte di energia e quindi, sottoposto a opportuni controlli. Per ricollegarci al discorso, nel saggio Enigma nucleare (Milano, 2011), sono spiegate diverse nozioni di fisica in merito all’energia dall’atomo: il concetto di fissione, reazione a catene e massa critica.
Nozioni legate al nome di Einstein (Teoria della relatività, Milano 1978) per quanto riguarda la nascita della formula della relatività E=mc2, per spiegare la differenza di massa tra l’uranio e i prodotti del suo decadimento che genera energia. Pensiamo anche a Enrico Fermi per quanto riguardo la criticità raggiunta attraverso una reazione a catena controllata con la pila atomica (sua invenzione).
Nel quarto e ultimo capitolo si trova il carteggio tra Einstein e Schweitzer dal 1948 al 1955, una lettera datata 1955 indirizzata a Margot Einstein, figlia dello scienziato avuta dalla sua seconda moglie, la cugina Elsa Lowenthal, e una corrispondenza datata nel 1957 tra Schweitzer e Helene Dukas, segretaria e collaboratrice di Einstein fino alla sua morte, poi curatrice e fiduciaria delle opere postume dello scienziato. In esse troviamo la stima reciproca tra Einstein e Schweitzer come uomini e nei confronti delle attività eseguite nei loro campi (per esempio si può notare un’accurata descrizione dell’ospedale di Schweitzer a Lambaréné) e la loro preoccupazione di trasmettere un universale messaggio di pace. Un’amicizia a distanza fatta di telepatia possiamo dire. E’ interessante notare come, benché fossero lontani l’uno dall’altro, in queste poche lettere
viene sottolineato il fatto che le loro menti e i loro pensieri si unissero per una causa comune: l’ideale di umanità e la paura del futuro dell’umanità, come l’uno alimentava l’attività dell’altro e come tra loro ci fosse un intimo legame come fossero due fratelli (Serena Musante).

ALBERT SCHWEITZER

Un “vero” testimone del nostro tempo

 Albert20Schweitzer

L’infaticabile opera del medico e filantropo alsaziano

per la cura dei più “diseredati” dell’Africa equatoriale

 

 

 

Negli anni ’50 il nome di Albert Schweitzer, noto sino allora in cerchie intellettuali ristrette e nelle minoranze protestanti, godette anche in Italia di una vasta fama. Schweitzer fu tra i maggiori difensori internazionali della causa della pace e dei movimenti antinucleari. Aveva fatto l’esperienza diretta della prima guerra mondiale e si era sentito ossessivamente coinvolto dalla seconda e dalle sue conseguenze, ma aveva anche dimostrato nei fatti come fosse possibile servire la causa della pace occupandosi dei vivi e dei poveri.

Si tira quindi un sospiro di sollievo a poter parlare, sentir parlare, anche se solo per poco, della straordinaria vita e pensiero di un “vero” protagonista della storia e di un grande testimone del nostro tempo quale è Albert Schweitzer, la cui esistenza lo ha visto dedito ad impegni e scelte di elevato valore umano, sociale e culturale, quali la teologia, la musica, la medicina; ma anche alla riflessione sull’argomento a lui più caro dopo la dedizione all’umanità: la filosofia della civiltà. Forse tardi, ma ancora in tempo Schweitzer comprese che l’amore per il prossimo (il vero fine dell’esistenza, la poetica “escatologia” alla quale portava il mistero della Fede, ben al di là delle questioni filosofiche e teologiche) non poteva avvenire se non sacrificando la propria vita, nel corso della quale ne trasse l’amara constatazione di vivere “in un periodo di decadenza spirituale”, dove “la rinuncia a pensare è una dichiarazione di fallimento” ma anche la forza di combattere per far recuperare “dignità all’essere umano”.

Nonostante questo esempio di estrema considerazione e rispetto dell’uomo e di ogni altra forma di vita (come vedremo), sembra impossibile che oggi, nel XXI secolo, si incontrino eccessive (per non dire assurde) difficoltà ogni qualvolta si intende intraprendere una “buona azione” nei confronti del prossimo. E questo, anche se con più mezzi di trasporto, di comunicazione, di risorse di ogni genere, etc.; mentre ai tempi di Schweitzer, il sentimento della solidarietà era l’unico mezzo che consentiva di rispondere concretamente agli appelli del medico alsaziano… Ciò, in presenza di due conflitti mondiali, di problemi etico-filosofici, di legislazioni non progressiste…

 

 

L’infanzia, l’adolescenza, gli studi

Albert Schweitzer nasce il 14 gennaio 1875 a Kaisersberg nell’Alta Alsazia, dal padre Ludwig (vicario che curava la piccola comunità evangelica del luogo) e dalla madre Adele Schillinger, figlia del pastore di Muhlbach nel Munstertal nell’Alta Alsazia. Secondogenito (aveva un fratello e tre sorelle), Albert trascorre una fanciullezza serena; a cinque anni suo padre gli insegna a suonare il clavicembalo; a sette anni già stupiva la maestra di scuola eseguendo sull’armonium melodie di corali da lui stesso armonizzate; a otto anni comincia a suonare l’organo (raggiungendo una buona preparazione a soli quindici anni). Fino al 1881 frequenta la scuola rurale di Gunsbach; l’anno successivo frequenta il ginnasio di Mulhouse (in Alsazia), con particolare interesse per la storia e le scienze naturali, ottenendo ottimi risultati, diplomandosi il 18 giugno 1893, e nello stesso anno si iscrive alla Facoltà di Filosofia all’università di Strasburgo, frequentando contemporaneamente Teologia. Nell’aprile 1894 svolge il servizio militare. Durante i successivi anni di università si occupa in modo autonomo del problema dei Vangeli e della vita di Gesù.

Fa sensibili passi avanti nei suoi studi musicali quando Ernst Munch (fratello del suo maestro di Mulhouse, e organista di St. Wilhelm a Strasburgo), gli affida l’accompagnamento d’organo delle cantate e delle passioni nei concerti bachiani del coro, da lui fondati e diretti, acquistando così familiarità con le creazioni di Bach, e Richard Wagner. Nel 1898 supera il primo esame di Teologia e, nel contempo, si prepara per la tesi di laurea in Filosofia. A Parigi si perfeziona in organo con Widor e sotto la guida di Marie Jaell; inoltre è proprio grazie a Widor e a Charles Schweitzer (secondo fratello del padre di Albert, e noto filologo) che il giovane Albert ha modo di entrare in contatto a Parigi con importanti personalità.

Dopo una breve pausa a Berlino, nel luglio 1899 torna a Strasburgo e si laurea in Filosofia (a 24 anni), e di li a poco prepara la tesi di teologia, laureandosi nel 1900 a 25 anni. La sua tesi verterà sull’opera di Immanuel Kant ed il suo modo  di intendere la religione; un pensiero per molti, ancora oggi, scomodamente illuminista, ma Albert Schweitzer saprà uscire dalla consuetudine e andrà, per il resto della sua intensa vita, diritto all’essenza delle cose a discapito del pensiero comune. Nel dicembre del 1899 assume l’incarico di insegnante e predicatore alla comunità di St. Nicolai di Strasburgo; nel 1902 inizia un corso sulle letture pastorali, occupandosi nel contempo della storia delle ricerche sulla vita di Gesù, e nel 1903 assume la direzione del seminario di St. Thomas, con uno stipendio di 2000 marchi. Mentre la prima pubblicazione della storia delle ricerche della vita di Gesù uscirà nel 1906.

La decisione di diventare medico nella foresta

Anche se la storia dell’umanità è ricca di uomini per i quali il desiderio di fare cose straordinarie fu la molla delle loro azioni, sono pochi gli uomini che meglio di Schweitzer hanno saputo ciò che significa essere a contatto dell’umanità sofferente e indigente. Ma perché Schweitzer si è deciso a diventare medico nella foresta vergine? La Medicina per Albert Schweitzer non fu una vocazione della gioventù, ma piuttosto degli anni maturi; fu una scelta compiuta dopo essersi lungamente dedicato allo studio della Musica, della Filosofia, della Teologia, ed aver ottenuto il successo in ognuno di quei campi. La spinta interiore lo porta ad un filantropico trasporto verso gli altri, ad un amore rivolto ai sofferenti nel senso di condivisione con chi, in qualunque parte del mondo, sia in condizione di indigenza e povertà.

Il filosofo alsaziano spiegava: “Avevo letto della miseria corporale degli indigeni nella foresta vergine, ne avevo anche sentito parlare dai missionari. Quanto più ci riflettevo tanto più mi era inspiegabile il fatto che noi europei ci occupassimo così poco del grande compito umanitario che laggiù ci aspettava”. Un mattino dell’autunno del 1904, sulla sua scrivania al seminario di St. Thomas trova un fascicolo della Società missionaria di Parigi. La sua attenzione si posa su un articolo intitolato “I bisogni della Missione del Congo”, del missionario alsaziano Alfred Boegner (direttore della Società missionaria), il quale deprecava che alla missione mancassero persone disposte a svolgere opera umanitaria in Gabon, la regione settentrionale della colonia del Congo.

Era conscio che, mentre molte persone intorno a lui lottavano col dolore e con la preoccupazione, lui poteva condurre una vita serena ed agiata… Anche quando era all’università, rifletteva sulla sua fortuna di poter studiare e svolgere un’attività scientifica ed artistica, e che a molti altri non era consentito per ragioni materiali o di salute. Per un certo periodo si dedica ai vagabondi e agli ex carcerati, come già fece da studente: appartenendo ad un’associazione studentesca svolgeva attività assistenziale.

Va precisato che Schweitzer propendeva per un’attività rigorosamente personale e autonoma, e benché fosse disposto a mettersi a disposizione di un’organizzazione, non abbandonò mai la speranza di trovare alla fine un’attività a cui dedicarsi come individuo libero. Considerò sempre la concretizzazione di questo forte desiderio come una grande grazia che, come si vedrà, si realizzò totalmente…

Qualche mese dopo, al compimento del trentesimo compleanno Albert Schweitzer decide di realizzare il suo progetto: il 13 ottobre 1905  il giovane Albertcomunica ai genitori ed agli amici più intimi che si sarebbe iscritto a Medicina, con il proposito di diventare medico e di andare nell’Africa equatoriale per mettersi al servizio puramente umano. “Con la conoscenza della medicina – sosteneva – potevo realizzare il mio progetto nel migliore dei modi, qualunque fosse il luogo verso cui il sentiero della professione mi avrebbe condotto”.

Nonostante questa determinazione non mancarono tentativi di dissuasione da parte di parenti ed amici, ai quali replicava senza esitare, perché sentiva di rispondere all’obbedienza e al comando d’amore di Gesù. Si rendeva conto che affrontare una via ignota era a dir poco rischioso, che tuttavia pensava di potercela fare: riteneva di possedere salute, nervi saldi, energia, spirito pratico, tenacia, accortezza e quant’altro.

Ciò che sorprendeva gli amici era il fatto che egli voleva andare in Africa non come missionario, bensì come medico. Aveva scelto l’Africa perché là c’era maggiormente bisogno di medici e perché voleva riparare, nel continente nero, almeno in parte, al male che i bianchi vi avevano compiuto. L’Africa, quindi, in realtà non ha significato per Schweitzer una fuga dalla vita o lo scopo della sua vita, ma piuttosto un simbolo della sua vita. Andare in quel Continente per lui non c’era nulla di eroico: si trattava semplicemente di adempiere un dovere. L’Africa è stata il simbolo della sua esistenza; il significato ne è il rispetto per la vita.

In merito a questa scelta sosteneva: “Solo chi sa trovare un valore in ogni attività consacrandosi ad essa con piena coscienza del dovere, ha l’intimo diritto di prefiggersi un’opera fuori del normale invece di quella che gli tocca naturalmente dalla sorte. Solo chi concepisce il suo proposito come qualcosa di ovvio, non di straordinario, e non conosce l’atteggiamento eroico, ma esclusivamente il dovere assunto con pacato entusiasmo, ha la capacità di essere un avventuriero spirituale. Non ci sono eroi dell’azione, ma soltanto eroi della rinuncia e della sofferenza. Pochi di essi sono conosciuti, non dalla folla, ma da una piccola cerchia di persone… Colui che è stato risparmiato dal dolore deve sentirsi chiamato a contribuire a lenire il dolore degli altri. Tutti, infatti, dobbiamo portare il fardello di sofferenze che pesa sul mondo… Chi dà la propria vita per gli altri la conserva per l’eternità. Chi si propone di agire per il bene, non deve aspettarsi che la gente per questo gli tolga gli ostacoli dal cammino, ma rassegnarsi che, quasi inevitabilmente, gliene metta qualcun altro in mezzo”.

Queste sue affermazioni richiamano il concetto di etica, ossia la scienza della condotta morale di ogni uomo. L’etica ha in sé l’idea che è necessario diventare attivi per il bene degli altri ed è uomo “etico” colui che si dedica agli altri. “L’uomo è veramente etico – secondo la sua concezione – solo quando ubbidisce al dovere di aiutare ogni essere vivente che gli sta attorno e si guarda bene dal recar danno a qualche cosa di vivo. Non si domanda quanto interesse merita questa o quella vita e nemmeno se e quanta sensibilità essa possegga. La vita in quanto tale gli è santa. Etica è responsabilità senza limiti verso tutto ciò che vive ”.
Un chiaro richiamo al pensiero di Goethe che affermava: “Sia nobile l’uomo, pronto ad aiutare e buono”.

La preparazione medica avrebbe favorito il perseguimento di questo scopo nella maniera migliore e più completa. Una scelta decisamente opportuna perché dove voleva andare, secondo i rapporti dei missionari, la presenza di un medico era la più urgente delle necessità. Prima di iscriversi alla Facoltà di Medicina ebbe tutti contro: accusato di presunzione, originalità. Lui rispondeva: “Voglio diventare medico per poter lavorare senza parlare…; mi pare la più urgente necessità, in Africa ”. Soltanto a suo padre confidò: Ho riflettuto a lungo su ogni aspetto della cosa. Ho salute, nervi saldi, energia, spirito pratico, tenacia, accortezza, non ho molti bisogni e… se farò fiasco, pazienza, mi rassegnerò ad aver sbagliato ”.

A questo proposito va sottolineato che sin da giovane talvolta nasceva in Albert, anche se con garbo e discrezione, l’amore per la polemica. Come quella volta che un’amica di sua madre gli disse: “Eh, caro Albert, adesso sei tutto entusiasmo, hai la testa piena di ideali, ma purtroppo la vita è diversa; ti accorgerai ben presto che la maggior parte di ciò che in questo momento ti esalta altro non è che illusione”. Albert, sbottando, rispose: ”Ecco il vostro errore, signori adulti! Vi piace preparare i giovani alla vita, dicendo loro che debbono rinunciare ai loro ideali. Nossignori. Vostro preciso compito dev’essere quello di aiutare la gioventù a conservare ben saldi i suoi ideali e i pensieri che la entusiasmano, perché costituiscono una ricchezza immensa. Non dite mai: “Ci penserà la realtà a spegnere i tuoi ideali ”. Ditegli invece: “ Rafforza al massimo i tuoi ideali perché la vita non riesca a sradicarli ”. Gli ideali, i pensieri, le idee sono come gocce d’acqua. Apparentemente senza forza. In una goccia d’acqua non si scorge potenza, ma se essa penetra in un crepaccio e diventa ghiaccio, fa saltare la roccia; se si trasforma in vapore mette in moto una macchina. Gli ideali, i pensieri stanno dentro di noi, apparentemente inerti e inutili. Ma diverranno potenti se ci sforzeremo di diventare più semplici, più sinceri, più puri, più mansueti, più pietosi, più amorevoli. Solo con questo lavorio, il molle ferro dell’idealismo giovanile diventerà acciaio ”. “Hai ragione figliolo – concluse il padre, vicario Ludwig -. Dove vi è una forza, vi è anche l’effetto della forza. Nessun raggio di sole va perduto. Ma non dimenticare che la verzura che il sole stimola chiede del tempo per germogliare e la sorte non concede sempre a chi ha seminato di partecipare al raccolto”.

Con gioia aveva esercitato la professione di insegnante di teologia e di predicatore. Non poteva però concepire la nuova attività come una semplice predicazione della religione, bensì soltanto come una genuina attuazione. La preparazione medica avrebbe favorito il perseguimento di questo scopo nella maniera migliore e più completa, dovunque lo avesse portato il cammino.

Nell’Africa equatoriale, secondo i missionari, la presenza di un medico era la più urgente delle necessità. “La parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro – sosteneva – mi sembrava scritta per noi. Siamo noi il ricco Epulone perché il progresso della medicina ci ha dato in mano molti mezzi contro le malattie e il dolore. E noi consideriamo gli inestimabili vantaggi di questa ricchezza come un qualche cosa di naturale. Ma laggiù, nelle colonie, c’è il povero Lazzaro, i popoli di colore, soggetti al dolore come noi, anzi più di noi perché non hanno mezzi per combatterlo”.

La sua vita ha avuto un’unica tangente: pensatore conscio della sua responsabilità dinanzi agli uomini; artista che cerca con la sua arte gli europei all’interiorità, al raccoglimento; medico nel lavoro per la salvezza dei negri. A questo proposito, tra l’altro, sosteneva: “Colui che è stato risparmiato dal dolore deve sentirsi chiamato a contribuire a lenire il dolore degli altri. Tutti dobbiamo portare il fardello di sofferenze che pesa sul mondo”.  La sua decisione fu quindi irrevocabile. Era un venerdì il 13 ottobre del 1905 quando imbucò una serie di lettere, in cui comunicava ai suoi genitori e ad alcuni amici più intimi che, con l’inizio del semestre invernale, si sarebbe iscritto a Medicina, con il proposito di andare più tardi come medico nell’Africa equatoriale.

Lo studio della Medicina (1905-1912)

Nei primi mesi di università Schweitzer scrive il saggio sulla costruzione degli organi; e nella primavera del 1906, dimettendosi da direttore del seminario teologico, lascia il collegio di St. Thomas dove aveva abitato fin dal periodo studentesco. Si dedica profondamente allo studio delle scienze naturali, che gli avrebbe procurato gran completamento della sua cultura, acquisendo una viva esperienza intellettuale. All’inizio del corso di Medicina aveva incontrato difficoltà finanziarie, ma in seguito la situazione migliorò grazie al successo dell’edizione tedesca del suo libro su Bach e agli onorari per i concerti. Nell’ottobre 1911 sostiene l’esame di Stato e, il 17 dicembre conclude la sua presenza presso il reparto di chirurgia di Madelung, ancora incredulo di avere alle spalle il grande sacrificio per lo studio della medicina.

Nei suoi studi sulla vita di Gesù aveva messo in evidenza che egli era cresciuto nel mondo ideale tardo giudaico, per noi fantasioso, dell’attesa della fine del mondo e del successivo avvento di un regno messianico soprannaturale. Perciò gli era stato rimproverato di aver fatto di lui un “esaltato”, se non addirittura una personalità dominata da idee deliranti. Quindi, attraverso l’approfondimento della tesi, doveva stabilire con criteri medici se la sua consapevolezza messianica era in qualche modo legata a una psicopatia.

Prima della partenza per l’Africa

Nonostante l’impegno per la tesi, si prodiga per i preparativi del viaggio in Africa e, nella primavera del 1912, abbandona l’insegnamento all’università e l’incarico alla comunità di St. Nicolai. Tale abbandono costituisce per Albert Schweitzer una grande rinuncia. Prima della partenza vive per un breve periodo nella paterna casa di Gunsbach insieme con la moglie Helénè Breslau (figlia  di uno storico di Strasburgo), che aveva sposato il 18 giugno 1912. Prima del matrimonio è stata per lui una valida collaboratrice nella stesura di manoscritti e nella correzione delle bozze; insomma, in tutti quei lavori letterari che dovevano essere completati prima della partenza per l’Africa.

Albert Schweitzer la moglie Helénè Bresslau

Trascorre la primavera del 1912 a Parigi per specializzarsi in Medicina tropicale ed effettuare i primi acquisti per la nuova attività che lo attendeva. Sino ad allora aveva svolto un lavoro esclusivamente intellettuale; ma ora, si trattava di compilare orinazioni sulla base di cataloghi, fare acquisti per giornate intere, scegliere le merci, esaminare forniture e conti, preparare casse ed imballaggi, redigere minuziosi elenchi per la dogana ed altro ancora. Ottenuta dal ministero delle Colonie l’autorizzazione all’esercizio dell’attività medica nel Gabon, dato che era in possesso soltanto del diploma di laurea in tedesco, comincia i preparativi mettendo insieme gli strumenti, le medicine ed ogni altro materiale necessario per un’attività ospedaliera. Per procurarsi i mezzi necessari per affrontare l’impresa ricorre alla bontà dei suoi conoscenti, la cui difficoltà era data dal fatto che tale opera umanitaria doveva ancora iniziare…

Tuttavia incontra molta disponibilità e dimostrazioni di affetto. In particolare si commuove per la generosità delle offerte dei professori tedeschi dell’università di Strasburgo per un’opera da fondare in territorio coloniale francese. Un notevole contributo materiale lo riceve grazie ad un concerto e ad una conferenza che tiene a Le Havre. Un aiuto prezioso per il disbrigo delle questioni finanziarie e commerciali gli viene da Annie Ficher (vedova di un professore di chirurgia dell’università di Strasburgo, il cui loro figlio diventerà più tardi medico in un paese tropicale), che mantenne tale impegno in Europa durante la permanenza di Schweitzer in Africa. Ora era pronto, e alla Società missionaria di Parigi comunica che come medico intendeva servire gli abitanti di Lambarènè, un villaggio del Gabon lungo il fiume Ogooué.

Nonostante il direttore della Società di Parigi, Jean Bianquis, si adoperasse per aiutare il dottor Schweitzer, gli ortodossi oppongono resistenza, e decidono di convocarlo davanti ad un comitato per sottoporlo ad un esame dottrinale. Ma Albert Schweitzer non si presta al “gioco” obiettando che, quando aveva nominato i suoi discepoli, Gesù aveva preteso da loro soltanto la volontà di seguirlo. Si rifiutò di comparire davanti al comitato e lasciarsi sottoporre a domande teologiche. Per contro, si offre di dialogare con i membri del comitato per dimostrare che non avrebbe rappresentato un pericolo per le anime dei negri… Accettarono la sua proposta anche se, alcuni dei membri, pensavano che una volta laggiù Albert Schweitzer si lasciasse tentare di confondere i missionari con la sua cultura e di mettersi a fare il predicatore. Benché fosse disposto a mettersi, all’occorrenza, a disposizione di un’organizzazione, non abbandonò la speranza di trovare alla fine un’attività a cui dedicarsi come individuo libero. Ha sempre considerato l’appagamento di questo desiderio come una grande grazia, continuamente rinnovata.

Nel febbraio 1913 erano pronte le 70 casse e spedite in anticipo a Bordeaux. La moglie di Albert (che nel frattempo aveva completato il  corso di infermiera) era contraria a che suo marito si portasse 2000 marchi in oro anziché in biglietti. Lui ribadì che bisognava fare i conti con la possibilità di una guerra: in tal caso l’oro avrebbe conservato in qualsiasi parte del mondo il suo valore, e i fatti gli diedero ragione. Albert aveva ricavato fondi presso amici e parenti, attraverso donazioni spontanee, organizzazioni di beneficenza e tenendo concerti. Quest’ultimo ruolo sarà il modo più proficuo da lui utilizzato per la raccolta di sovvenzioni per l’autofinanziamento dell’ospedale.

Il primo periodo africano dal 1913 al 1917

Il Venerdì santo (26 marzo 1913) i coniugi Schweitzer lasciano Gunsbach si imbarcano a Bordeaux. Una volta giunti a Libreville (capitale del Gabon e base navale della baia, deve il suo nome ad alcuni schiavi che nel 1849 vi si stabilirono dopo la cattura di un battello di negrieri), li attendevano altre otto ore di navigazione per giungere a Port Gentil. Il 15 aprile i coniugi Schweitzer lasciarono la nave Europe per imbarcarsi sul battello fluviale “Alembé”, percorrendo l’Ogooué (un fiume lento, limaccioso, largo tre volte il PO, che si apre la strada nell’intrico verde della foresta per centinaia e centinaia di miglia), quindi a Lambarènè alla Missione N’Gomo, accolti con molta cordialità dai missionari Christol e Ellenberger.

I coniugi Schweitzer all’arrivo in Gabon

 

Nota sulla Missione di Lambarènè

 

La Missione di Lambarènè era stata fondata nel 1876 dal dottor Nassau, un missionario e medico americano; del resto americani erano stati i missionari che, giunti nel paese nel 1874, avevano iniziato l’attività evangelica nella regione dell’Ogoouè. Quando poi il Gabon era diventato possedimento della Francia, la Società di Parigi aveva sostituito, a partire dal 1892, gli americani, dato che questi non erano in grado di impartire l’istruzione scolastica in francese, com’era prescritto dal governo.

Stabilirono la loro dimora sulle rive del fiume, una capanna sulla collina Andende (a 250 Km. dalla capitale Libreville). Subito si mette all’opera (aiutato dalla moglie, infermiera) e, non avendo dove operare, come ambulatorio si accontenta di un vecchio pollaio. Nell’autunno ottiene vicino al fiume una baracca di lamiera ondulata (8 m. x 4 m.), coperta da un tetto di foglie, e conteneva un piccolo angolo per eseguire gli interventi, ed un piccolo spazio adibito a farmacia. Intorno sorsero altre piccole capanne di bambù per il ricovero degli ammalati.
L’ospedale di Lambaréné non è da intendersi nient’altro che il concetto del rispetto per la vita, realizzato e concretizzato ben più che un comune nosocomio ai margini della foresta vergine, ne è un asilo sicuro per chi è visitato dalla sofferenza, un luogo di rifugio per uomini e animali. È altresì un simbolo di fratellanza internazionale perché da tutte le parti del mondo arrivano medicine, mezzi di sussistenza e messaggi di simpatia e di approvazione. Sin dall’inizio il tam-tam aveva già fatto sentire la sua voce e in poco tempo  si trova assediato da molti ammalati, che provenivano in piroga da distanze di 200-300 Km., scendendo o risalendo il fiume Ogouè e i suoi affluenti. I malati non arrivavano soli, ma accompagnati dall’intera famiglia e dagli animali domestici. Bisognava ospitare tutti, fra posto a tutti, sfamare tutti, uomini e bestie, malati e sani. Altrimenti rifiutavano di restare, risalivano sulla piroga e ripartivano con tutto il seguito per i villaggi da cui erano venuti.

Tra le prime difficoltà Schweitzer è nell’impossibilità di trovare interpreti, ma in seguito il problema fu risolto con la disponibilità di Joseph Azoawani (un ex cuoco, che gli rimase fedele sino alla fine dei suoi giorni); gli diede preziosi consigli per i rapporti con gli indigeni. Da lui impara che presso i primitivi è imprudente cercare di dare speranza all’ammalato e ai suoi familiari quando in verità non ce n’è più. Se sopraggiunge la morte, senza che sia stata debitamente predetta, la gente conclude che il medico non sapeva che la malattia avrebbe avuto questo esito e quindi non l’aveva individuata. Agli ammalati indigeni bisogna dire la verità senza riguardo: essi vogliono conoscerla e sanno sopportarla. La morte è per loro qualcosa di naturale, non la temono, l’attendono con calma.

La moglie Helénè Breslau, assisteva i malati più gravi, curava la distribuzione della biancheria, sovrintendeva alla farmacia, teneva sempre pronti gli strumenti per gli interventi, si occupava dei preparativi per l’anestesia; mentre Joseph fungeva da assistente. Il lavoro non mancava, ma non era tanto la sua intensità che preoccupava Schweitzer, bensì la responsabilità e le preoccupazioni. Si preoccupava di risparmiare e, nei limiti del possibile, esigeva dai pazienti negri che manifestassero concretamente la loro gratitudine per l’assistenza ottenuta. Ottiene così contributi in natura che ovviamente distribuiva fra i più poveri, e col denaro provvedeva all’acquisto del riso quando non c’erano abbastanza banane; anche se i più selvaggi avevano una diversa concezione del dono: in procinto di lasciare guariti l’ospedale, ne pretendevano uno da lui perché dicevano, era ormai diventato loro amico…

Tra i numerosi compiti, il dottor Schweitzer si proponeva di predicare, poter spiegare le parole di Gesù e di Paolo a gente per cui esse erano totalmente nuove. Nel tempo libero del suo primo anno in Africa lo dedica alla preparazione degli ultimi tre volumi dell’edizione americana delle opere di Bach per organo. Per esercitarsi aveva a disposizione un piano con pedaliera d’organo, fabbricato per le zone tropicali, avuto in dono dagli amici della Società bachiana di Parigi. Prima dello scoppio della guerra Schweitzer aveva ricevuto una grossa spedizione dell’occorrente per l’ospedale. Ma la salute di sua moglie è stata, a causa del clima, per un certo periodo cagionevole, ed avevano così trascorso al mare, presso il Port Gentil alla foce dell’Ogoouè, la stagione delle piogge tra il 1916 e il 1917.

Prigionieri a Garaison e a St. Rémy

Nel settembre 1917, appena ripreso il suo lavoro a Lambarènè, giunge la notizia di trasferirsi in un campo di concentramento in Europa. Con la moglie viene condotto sul vaporetto fluviale; giungono a Bordeaux e trattenuti in una sorta di caserma (per prigionieri in tempo di guerra). Qui Schweitzer contrae la dissenteria, che cura da sé, anche se in seguito tribolò ancora per parecchio tempo. Successivamente vengono trasferiti nel grande campo di concentramento di Garaison (un ex convento) nei Pirenei.

Fra i prigionieri era l’unico medico e, sia pur con qualche reticenza, gli è consentito esercitare l’attività di medico nel campo, essendo d’aiuto soprattutto a molti marinai affetti da malattie tropicali. Nella sua qualità di medico poté farsi un’idea della miseria che, in molteplici aspetti, regnava nel campo. Nell’internato quelli che soffrivano di più erano affetti da disturbi psichici.

Di nuovo in Alsazia

Verso la metà di luglio 1918, grazie ad uno scambio di prigionieri, i coniugi Schweitzer possono far ritorno in patria, attraverso la Svizzera. Il 15 luglio arrivano a Zurigo, e sembrava loro inconcepibile trovarsi in un paese che non conosceva la guerra. A stento Schweitzer riesce a raggiungere Gunsbach per salutare suo padre. Nel frattempo la sua salute peggiora a causa dei postumi della dissenteria contratta a Bordeaux, e necessita quindi di un intervento chirurgico. Viene operato il primo settembre a Strasburgo dal prof. Stoltz. Nell’estate del 1919 si reca in Svezia, e qui è sottoposto ad un secondo intervento chirurgico.

Il sindaco di questa città offre a Schweitzer il posto di assistente all’ospedale civile, che accetta anche perché non aveva di che vivere. Rimane in Europa ancora due anni dopo l’armistizio, che segna il passaggio dell’Alsazia dall’amministrazione tedesca a quella francese. In questo lungo periodo si dedica agli scritti su Bach e alla filosofia della civiltà, come pure alle grandi religioni e della loro visione del mondo. Nella Pasqua del 1920, su invito dell’arcivescovo Nathan Soderblom, tiene una serie di lezioni all’università di Uppsala per conto della Fondazione Olaus Petri. In questo stesso anno gli fu conferita la laureahonoris causa dalla Facoltà di Teologia di Zurigo.

Per la seconda volta in Africa (1924-1927)

 

Il 14 febbraio 1924 Albert Schweitzer lascia Strasburgo solo (la moglie resta in Europa a causa del precario stato di salute). Albert le fu sempre molto grato per il sacrificio compiuto approvando in tali circostanze la sua decisione di riprendere l’attività a Lambarènè. Questa volta vi ritorna accompagnato da Noel Gillespie, un giovane studente di chimica di Oxford. Giungono a Lambarènè il 9 aprile. Dell’ospedale non rimaneva altro che la piccola baracca in lamiera e lo scheletro in legno duro di una delle grandi capanne di bambù. Durante i sette anni della sua assenza tutti gli altri edifici erano marciti e caduti in rovina. La ricostruzione dell’ospedale richiese un anno e mezzo (altra biografia riporta parecchi mesi…) di lavoro per portarlo a un certo grado di funzionalità. Al mattino faceva il medico e al pomeriggio il capomastro. Purtroppo non riusciva a trovare operai perché il commercio del legname, rifiorito dopo la guerra, aveva assorbito tutta la manodopera disponibile. Ha dovuto così ricorrere ad alcuni “volontari”, accompagnatori di ammalati o convalescenti, che lavoravano senza entusiasmo.

Generalmente nei villaggi della foresta vergine, la boscaglia invadeva anche le capanne. Era un duro lavoro abbattere gli alberi ed estirpare i cespugli e le erbe… Gli indigeni erano sempre maldisposti a questa fatica improduttiva… Il dottor Albert Schweitzer spiega: ”Oltre ai lati negativi gli indigeni possedevano qualità molto rare. Noi siamo portati troppo spesso a giudicarli per i fastidi e le delusioni che ci procurano quando sono al nostro servizio… Non intendo giustificare la loro negligenza o negare la loro insofferenza. Mi sento in dovere di aggiungere, a loro giustificazione, che la condizione di salariati non è abituale a questa gente vissuta sempre in assoluta libertà. Per gli indigeni, lavorare non è un mestiere. Il lavoro è un episodio passeggero nella loro vita di uomini liberi. Esso rappresenta un obbligo al quale hanno accettato di sottomettersi solo per guadagnare. Quindi ogni mezzo è buono per eluderlo ”.

Poiché gli ammalati aumentavano, fra il 1924 e il 1925 trasferisce la sua abitazione su un’altra collina chiamata Adolinanongo (in dialetto galoa vuol dire “colui che dall’alto domina la tribù”), e fa venire dall’Europa due medici e due infermiere. Come se non bastasse sopraggiungono una grave carestia e una grave epidemia di dissenteria che, per affrontarle, occorsero mesi di duro lavoro. Si rende quindi necessario spostare l’ospedale in una zona più ampia. Per la terza volta ricostruisce l’ospedale, a tre Km. di distanza, e nel gennaio 1927 trasferisce anche gli ammalati, separando i contagiosi e gli alienati dagli altri. Si contavano ora 200 presenze oltre agli accompagnatori. Per la prima volta i suoi malati erano ricoverati in modo degno di un uomo! Risultati che ha potuto conseguire grazie ai proventi delle sue conferenze, concerti e pubblicazioni. Ora, che erano giunti dall’Europa due medici e due infermieri, poteva pensare di tornare a casa a trovare la moglie e la figlia. Il 21 luglio (altra biografia riporta il 2 luglio) dello stesso anno lascia Lambarènè.

Nonostante l’età Schweitzer non stava mai fermo, e la sua giornata era impegnata sino a notte. Alle 7.30 entrava nella sala da pranzo, per la prima colazione. A tavola si parlava poco… Alle 9.00 era già al tavolo di lavoro per rispondere alla corrispondenza. Lo studio è anche camera da letto: 3m. x 3m. Dopo lo scritto si dedicava all’ospedale: non gli sfuggiva nulla; incoraggiava, rimproverava, risolveva i mille problemi che l’ospedale creava. Nessuno si lamentava per il caldo. Alle 19.30 si cenava, tutto il personale si radunava e aspettava Schweitzer. Dopo la cena Schweitzer suonava al pianoforte; poi si dedicava alla lettura, venivano distribuiti i libri degli inni luterani. Prima delle 21.00 la giornata aveva termine. Quando era solo, restava alzato fino alla mezzanotte a scrivere, a studiare.

L’inosservanza degli indigeni

 

Gli operati sono la principale causa delle preoccupazioni del dottor Schweitzer e collaboratori. La loro inosservanza alle prescrizioni era la norma… Spesso gli operati, cedendo alla tentazione di passare le dita sotto le bende per toccare le ferite, correvano il rischio di infettarsi. Non era davvero facile, secondo Schweitzer, essere medico dei primitivi! Ogni sabato pomeriggio era dedicato alla pulizia delle baracche; erano reclutate tutte le donne che accompagnavano in ospedale i loro congiunti. Gli indigeni non riescono a capire perché si deve curare tanto la pulizia delle zone che circondano l’ospedale: per loro è del tutto indifferente che nel corso degli anni si ammassino intorno ai villaggi cumuli di immondizie. È difficile convincerli che è proprio questa montagna di sudiciume la causa prima delle febbri che colpiscono i loro familiari e i loro figli. Proprio perché la maggior parte dei malati arrivavano all’ospedale, provenienti da villaggi lontani, impiegando intere settimane, non di rado arrivava gente che aveva affrontato un lungo e faticoso viaggio, e spesso l’intervento chirurgico si rivelava impossibile e senza speranza. Tuttavia, come questa gente non morisse di fame nell’attesa, è stato, per così dire, sempre un mistero…

Ma sulla tendenza a giudicare o ad analizzare il comportamento di queste popolazioni, o comunque del prossimo, Schweitzer, sosteneva: “Non si ha il diritto di indagare nell’intimo degli altri. Il voler analizzare i sentimenti del prossimo è indelicato. Non c’è solo un pudore del corpo, esiste anche quello dell’animo che bisogna rispettare. Anche l’animo ha i suoi veli, dei quali non ci si deve liberare”. Così Schweitzer descriveva gli indigeni. Il nero non è un essere stupido, come può credere chi presta fede ai racconti dei vari esploratori che basano i loro giudizi sulle esperienze fatte con portatori e rematori. Per conoscere veramente l’indigeno è indispensabile che i rapporti non siano da padrone a dipendente, ma da uomo a uomo”.

 

“Dobbiamo cercare – proseguiva – di cogliere la sua autentica natura attraverso l’atteggiamento del tutto esteriore e poco simpatico che egli ostenta in nostra presenza. Chi ci è riuscito, sa quanta generosità si racchiude nel suo animo. Ciò che mi ha sempre sorpreso nei nostri indigeni è la mitezza d’animo. Essi ignorano quella solidarietà che spinge un uomo a portare aiuto a un proprio simile, come a noi è stato insegnato dai comandamenti divini. Paragonato agli europei, l’indigeno è un essere asociale: è assurdo accusarlo di inosservanza dei doveri. Egli è ancora troppo preoccupato di sé per interessarsi agli altri. Quando invece è costretto a sopportare un’ingiustizia, spesso dà prova di una pacatezza e di una calma che non ha mancato di sorprendermi. Fra l’altro ritengo che gli indigeni siano meno suscettibili di noi ai sentimenti di collera e vendetta”.

Ancora due anni in Europa

Complessivamente Schweitzer fece 19 viaggi a Lambarènè. Ovunque andasse gli impegni si susseguivano. Divenne famoso in tutto il mondo: la rivista “Time” lo considerò “il più grande uomo del mondo”. Trascorre l’autunno e l’inverno del 1927 in Svezia e in Danimarca; la primavera e l’estate del 1928 è in Olanda, Svizzera, Inghilterra, Germania per una serie di concerti e per ritirare il premio Goethe per la sua opera missionaria. La sua resistenza fisica, il suo carattere fermo, la sua perseveranza, la sua fede, la sua musica d’organo vissuta come un atto di fede, sono stati i motivi profondi del suo successo.

Nel dicembre 1929 riparte per l’Africa accompagnato ancora una volta dalla moglie. Un soggiorno che durerà sino al 1932, perché la moglie, a causa del clima, tornò in Europa verso la Pasqua del 1930. Nel gennaio 1932 ritorna in patria e il 22 marzo è a Francoforte per tenere il discorso ufficiale per il primo centenario della morte di Goethe. In questa occasione pronunciò un violento discorso di sfida al nazismo. Da allora la Germania rimase esclusa dagli itinerari dei suoi viaggi. Ritorna in Africa nell’aprile 1933, ma solo per pochi mesi. Infatti, nel gennaio successivo è in Europa per far fronte ad impegni di conferenze che tiene a Londra, Oxford e ad Edimburgo.

Il 5 febbraio 1935 parte per la quinta volta per Lambarènè per ritornare ad Edimburgo nell’agosto successivo. Nell’agosto 1939 torna a Lambarènè per proteggere la sua opera, in vista del secondo conflitto mondiale, prima del quale la media dei pazienti curati e assistiti era di 3.500 all’anno. Nel 1940 vi furono anche dei combattimenti nei pressi dell’ospedale, e per quasi tutto il periodo della guerra fu quasi completamente isolato dal resto del mondo. Le difficoltà aumentarono anche perché le donne europee, i cui mariti erano stati richiamati sotto le armi, non osavano abitare da sole in località isolate della giungla e chiedevano asilo a Schweitzer.

Altri bianchi, impossibilitati ad abbandonare l’Africa, si erano ammalati e bisognava accoglierli in ospedale; pure alcuni medici e infermieri si erano ammalati ed era necessario allontanarli da Lambarènè perché riacquistassero la salute in un clima più salubre. Prima della fine della guerra Albert Schweitzer ebbe il conforto di riabbracciare la moglie che era riuscita a raggiungerlo ancora una volta in Africa. Il maggio 1945 giunge la notizia che in Europa erano cessate le ostilità, e con la fine della guerra riprende i contatti con l’Europa e soprattutto con l’America, che contribuì ad inviare materiale, medici ed infermieri.

Nell’ottobre del 1948 Schweitzer torna in Europa (in questo periodo scrisse “L’ospedale nella foresta vergine”) e prima della fine del 1949 (dopo essere stato per la prima volta negli Usa) è di nuovo a Lambarènè. Quando nel 1951 torna in Europa la sua fama è all’apogeo: i critici di tutta Europa concordavano nel giudicare eccezionale il periodo passato nella foresta. Ad un famoso corrispondente svizzero scrisse: “Soffro di essere famoso e cerco di evitare tutto ciò che attira su di me l’attenzione”. Questa sua timidezza fu notata ed apprezzata da tutti coloro che ebbero contatti con Schweitzer. In questo stesso anno era stato eletto membro dell’Accademia delle scienze morali e politiche di Parigi. Nel 1952 il dottor Schweitzer fu onorato con il premio Nobel per la pace, ma poté recarsi ad Oslo per la solenne cerimonia solo l’anno dopo, in occasione della quale tenne una conferenza sul problema della pace nel mondo. Fu un vibrante appello in favore della pace e della bontà. Con il denaro del Premio (33.480 dollari) poté portare a termine il suo villaggio dei lebbrosi che venne inaugurato nel 1954 con il nome di “Villaggio della luce”.

Ma come esercitava l’attività medica?

Già nella sua autobiografia “Ma vie et ma pensée” Schweitzer annotava che all’età di 21 anni aveva deciso di vivere per la scienza e per l’arte sino ai trent’anni e di consacrarsi in seguito ad un servizio puramente umano. Voleva diventare medico per poter lavorare senza essere costretto a parlare e, in Africa, la presenza di un medico corrispondeva al bisogno più urgente. Mantenne e concretizzò questo suo proposito. Nell’ottobre 1905 si presentò in qualità di studente al preside della Facoltà di Medicina di Strasburgo. Superata la trentina e conscio dell’impegno che avrebbe dovuto affrontare negli anni successivi, annotava nelle sue memorie: “… così ora inizio una lotta contro la fatica ed il tempo che durerà per parecchi anni”.

Partendo per l’Africa si preparò a compiere un triplice sacrificio: rinunciare alla sua attività artistica, abbandonare l’insegnamento universitario, perdere la propria indipendenza materiale e ridursi, per il resto della sua vita, a dipendere dall’aiuto dei suoi amici. Nel 1912 ottenne l’autorizzazione ad esercitare la pratica medica, e trascorse quasi un anno a Parigi per seguire dei corsi di medicina tropicale; nel frattempo si dedicò alla raccolta di materiale tecnico-sanitario che gli sarebbe servito per la sua attività a Lambaréné, dove vi giunse nella primavera del 1913 con  la moglie Hélène Breslau che gli sarebbe stata accanto coadiuvandolo come infermiera e, inizialmente, anche come anestesista. Inizialmente alloggiarono in una piccola baracca di lamiera ondulata e per ambulatorio ebbero a disposizione un vecchio pollaio adiacente all’abitazione. Solo nel tardo autunno poterono fruire di una baracca più grande con un tetto di foglie il cui interno conteneva un piccolo ambulatorio, una sala operatoria, una farmacia e un angolo per la sterilizzazione.

In seguito sorsero altre capanne per il ricovero degli indigeni che, scendendo o risalendo il grande fiume Ogoué, arrivavano dalle zone più lontane e inesplorate del nord (accompagnati dai famigliari con al seguito i loro animali e le loro povere cose) coperti da piaghe ulcerose, paralizzati dal tripanosoma, dissanguati dalla malaria, accecati dal tracoma, deturpati dalla lebbra. Ma spesso erano affetti da più patologie. Era difficile trattare questi malati: alcuni rifiutavano l’intervento perché ancora “soggiogati” dallo stregone del villaggio, altri con ferite aperte facevano il bagno nelle acque infette del fiume; le gravide rifiutavano di partorire all’ospedale per cui si rendeva necessario ricorrere a stratagemmi per convincerle a dare alla luce i loro bambini in modo più sanitario… “Dopo un viaggio di 400-500 chilometri – osservava Schweitzer – arrivavano in condizioni pietose (spesso disperate), affamati, denutriti; e per varie settimane, prima di operarli, dovevamo nutrirli e rimetterli in sesto”.

In mancanza di denaro ai pazienti veniva richiesto un contributo in natura e lavoro. Senza scendere ulteriormente in dettagli, si può immaginare quali erano le difficoltà di organizzazione e funzionamento di un ospedale nel cuore dell’Africa agli inizi del secolo scorso, creato dal nulla in un habitat e in un clima ostili, e per i primi anni senza collaboratori tecnici competenti. Dopo alcuni mesi, e superati i primi ostacoli, il piccolo ospedale poteva ospitare quotidianamente una quarantina di degenti. Sino al 1917 e dal 1924 in poi il medico alsaziano si dedicò prevalentemente all’attività medica e chirurgica, che fu incrementata con l’arrivo del dottor Marc Lauterburg. “Ma il dottor Schweitzer, nel campo della scienza medica – precisa Adriano M. Sancin, chirurgo e ginecologo, fondatore e segretario nazionale dell’Associazione Italiana Albert Schweitzer, con sede a Trieste (telef. 040/27.46.34) – non fu un genio e non ha mai inventato nulla. Vanno quindi eliminate certe idee sulla sua genialità riportate più volte dai mass media, male informati ed alla ricerca di notizie sensazionali o quantomeno infondate. Quello che invece ci stupisce di Schweitzer, e ciò che vale per tutte le sfere della sua attività, non è tanto la sua capacità geniale quanto la pazienza di apprendere. Una pazienza sostenuta indubbiamente da una straordinaria forza di volontà e favorita, pure, come egli stesso affermava, da una buona dose di fortuna”.

Ma anche se il dottor Schweitzer non scoprì nulla in ambito medico, sotto certi aspetti è da considerarsi un pioniere nel trattamento di alcune patologie tropicali: fu il primo, ad esempio, che introdusse in Africa equatoriale dagli Stati Uniti, il Promine ed il Diasone, due prodotti per il trattamento della lebbra; e anche il primo a sostituire l’Atoxyl e l’Arseno benzolo (farmaci dagli effetti collaterali pericolosi e inadatti a distruggere i microrganismi che avevano già invaso le cellule del sistema nervoso centrale) con il Germanyl, il Moranyl ed ilTryparsarmide, molecole che, grazie alla scoperta della statunitense dottoressa Pearce, avevano rivoluzionato il trattamento della malattia del sonno. Il farmaco venne sperimentato in parallelo da Schweitzer a Lambaréné presso l’Istituto Pasteur di Parigi, ed era incredibile vedere quei pazienti riprendersi lentamente.
Purtroppo sull’impiego del Trypasarmide gravava il dubbio che provocasse lesioni al nervo ottico con conseguente cecità permanente. Per il trattamento di altre patologie, come la tubercolosi polmonare o ossea, le avitaminosi, l’ulcera fagedemica, le affezioni intestinali, etc., venivano usate sostanze biochimiche sperimentate e prodotte con rigore medico dall’industria farmaceutica d’oltre oceano. Gli interventi principali riguardavano ernie giganti, elefantiasi (malattia provocata dall’ostruzione dei vasi linfatici da parte di microfilarie, n.d.a.), fibromi uterini, gozzi, piaghe e ferite causate soprattutto dall’attività di disboscamento. Diversi i casi disperati. Si operava in anestesia generale o locale, e i pazienti ben presto si resero conto che nessuna magia o farmacopea africana li avrebbe potuti guarire.

Durante un rientro in Europa, il dottor Schweitzer frequentò la Clinica Odontostomatologica di Strasburgo per perfezionare le sue conoscenze stomatologiche. Dopo vari viaggi all’interno dell’Europa per tenere concerti e conferenze, si fermò ad Amburgo per aggiornarsi sui progressi della terapia del sonno, e frequentare un corso di chirurgia che gli consentì di affrontare e risolvere la quasi totalità delle patologie chirurgiche. Rientrando a Lambaréné dovette più volte ricostruire letteralmente il suo ospedale, “trascurato” dagli abitanti ma soprattutto perché durante la sua assenza era marcito, soffocato dalla vegetazione e divorato dalle termiti; in un’altra occasione a causa di una grave epidemia di dissenteria e per il conseguente aumento di ricovero dei malati le baracche dell’ospedale erano del tutto insufficienti, tanto da imporre una grande opera di ampliamento. Per riportarlo ad un certo grado di funzionalità Schweitzer dovette dedicarvisi personalmente per molti mesi…

Fu così che decise di trasferirsi su una collina (Adolinanongo), tre chilometri a monte sulla riva destra dell’Ogoué dove l’ospedale avrebbe potuto estendersi. La spesa per la sostituzione delle baracche di bambù dai tetti di foglie con baracche in lamiera ondulata non era indifferente; inoltre, per mettere l’ospedale al sicuro dalle inondazioni del fiume e dalla valanga d’acqua che scendeva dai pendii della collina durante la stagione delle piogge, scelse una soluzione fra moderna e preistorica creando un villaggio di baracche su palafitte. L’attività ospedaliera venne affidata ai colleghi Nessmann, Lauterburg e Trensz mentre Schweitzer per un anno si trasformò in sorvegliante degli operai: dovette assumersi personalmente tale incombenza poiché la mutevole schiera di “volontari”, reclutata fra gli accompagnatori degli ammalati, rispettava soltanto l’autorità del vecchio dottore.

Durante la seconda guerra mondiale le installazioni ospedaliere di Lambaréné furono messe a dura prova: tutta l’Africa equatoriale francese, con la sola eccezione del Gabon, si unì alla Francia libera, in guerra contro Hitler. Lambarénè si trovò al centro di una lotta tra francesi liberi e collaborazionisti hitleriani, tant’è che sino al 1942 rimase isolata dal resto del mondo.

All’ospedale le difficoltà aumentavano; i bianchi, ad esempio, impossibilitati ad abbandonare l’Africa, si erano ammalati e bisognava accoglierli in ospedale; ma anche alcuni medici ed infermieri si erano ammalati ed è stato necessario allontanarli da Lambaréné perché riacquistassero la salute in un clima più salubre. In questa circostanza Schweitzer scrisse: “Bisogna fare appello alle nostre ultime energie per soddisfare le esigenze dell’ospedale. La nostra preoccupazione quotidiana consiste nella fatica poiché per molto tempo non vi saranno sostituzioni”.

Ma presso Lambaréné c’era pure un ospedale governativo, costruito in epoca recente, che però era quasi sempre deserto. I negri non volevano andarci perché era un ospedale troppo… all’europea, e preferivano l’ospedale di Schweitzer con tutte le sue capre, le sue galline, pieno di bambini e dove all’igiene non si badava troppo. L’igiene, del resto, non è qualcosa di assoluto, l’igiene necessaria agli africani è (soprattutto era, n.d.a.) diversa da quella necessaria agli europei.

Nessuno verrebbe da me – spiegava il medico filantropo – se li costringessi a vivere in corsie sterilizzate, sui lettini di ferro, tra lenzuola bianche. Non sanno che farsene delle lenzuola. Io li curo lasciandoli vivere come sono abituati nei villaggi assediati dalla foresta, piccoli nuclei che per secoli sono rimasti centri di cultura isolati con i propri costumi, dialetti e persino modi di cucinare diversi… Gli ammalati che giungono ad Adolinanongo, dopo settimane di piroga sull’Ogoué, sono uomini già in crisi e ricoverarli in un ospedale all’europea, in ambienti a loro estranei, vuol dire imporre loro un secondo ben più grave trauma, provocare una nuova crisi alla quale reagiscono con la fuga, preferendo morire nei loro villaggi. Sono le strutture che devono adeguarsi agli uomini e non gli uomini alle strutture”.

Anche per queste ragioni non sono mancate le critiche a lui e al suo ospedale, ma è bene rammentare che l’obiettività elementare è frutto delle cose nella loro situazione stessa e nel loro momento storico. Ed ciò che Schweitzer applicò in pratica nel suo tanto discusso villaggio sanitario, ove accolse gli ammalati e le loro famiglie, con al seguito i loro animali; e acconsentì ai vari gruppi etnici di vivere secondo i loro costumi adattandosi egli stesso alla cultura dei popoli e rispondendo alle esigenze degli ammalati, rispettoso com’era, sino all’eccesso, della libertà individuale degli africani. Tollerò le loro abitudini tribali, la poligamia, le loro interminabili discussioni… Risultati di un’improvvisazione che hanno come scopo combattere le sofferenze e guarire i suoi ammalati. “Tutto questo – affermava – è insito nello spirito del cristianesimo, e come tale si manifesta più o meno in tutte le religioni delle varie civiltà”.

Il dottor Schweitzer  non fu mai un progressista ma era profondamente conscio che il progresso, di per sé, non rappresenta una garanzia per l’umanità. Rifiutò il gigantismo delle moderne strutture (sino a “stravolgere” le regole della medicina occidentale) in quanto le considerava follie di grandezza, tentazioni della modernità. Visse in povertà nel suo ospedale, in economia, ove il superfluo era bandito, e fu così che le illusioni e le ambizioni nate dall’indipendenza politica negli anni ’60, determinarono quell’atteggiamento di disprezzo, di avversione che indusse a giudicare la struttura superata, o peggio ancora, vergognosa.

Considerazioni ampiamente condivise, sia pur a posteriori, dal dottor Sancin, che tra l’altro, da oltre trent’anni si dedica ad attività organizzative nell’ambito dell’assistenza sanitaria nei paesi in via di sviluppo dall’Africa all’estremo Oriente: “Dovremmo dedicare maggior attenzione alle generazioni future di medici e ricercatori che vorranno sacrificare o dedicare parte della loro esistenza per il bene di un’umanità più disagiata, più vulnerabile ed emarginata, fuori dai credi politici o religiosi. Solo così riusciremo a colmare, almeno in parte, le grandi differenze che separano ancora l’umanità”.

Gli ultimi anni

Nel 1959 il dottor Albert Schweitzer  fa ritorno per l’ultima volta a Lambarènè. L’ospedale ospitava ormai 600 persone e il numero degli ammalati tendeva ad aumentare. Molti medici di ogni parte del mondo profittarono per offrire gratuitamente la loro opera durante le vacanze a favore dell’ospedale. Questo anche perché nel frattempo si sono costruite strade, un aeroporto sull’altra riva del fiume. Ora si lavora molto: in una sola giornata si sono fatte 17 interventi chirurgici di ernia (c’erano ben due tavoli operatori). Sino all’agosto del 1965 le Grand Docteur  poté confidare ancora nella sua buona salute anche se, ormai, non aspettava altro che essere sepolto a Lambarènè accanto alla moglie Hélène (che era morta il 1 giugno 1957 a Zurigo, all’età di 78 anni. Fu cremata e le sue ceneri furono trasportate a Lambarènè e sepolte all’ombra di una palma vicino all’abitazione del marito). Il “grand docteur” si spegneva alle 23.30 (altra biografia riporta alle 23.25) del 4 settembre del 1965, mentre gli ammalati avevano preso il sonno ristoratore delle loro sofferenze, gli animali tacevano nella notte tropicale e il grande fiume Ogouè rispecchiava le luci della finestra di Schweitzer  ancora illuminata.

Il buffo ed “impenetrabile” dottore

 

Albert Schweitzer  era piuttosto alto (m. 1,80) e di corporatura robusta. Ciò che colpiva subito in  lui era il volto: i folti e arruffati capelli bianchi (che raramente si spazzolava), lo facevano somigliare ad Einstein. Per i famosi, espressivi, potenti baffi a cespuglio, qualcuno ha voluto vedere in lui una rassomiglianza con Nietzsche, altri con Joseph Wirth o Aristide Briand; mentre i francesi lo trovavano somigliante a Clemenceau. Tuttavia, i suoi occhi erano inconfondibili, dall’espressione profonda.

 

Per quanto riguarda il suo carattere (per la verità difficile da interpretare) alcuni lo hanno definito dal temperamento focoso, testardo, calcolatore, visionario, etc. In realtà era un uomo non privo di difetti: era autoritario, pedante, teutonico e soprattutto un cocciuto passatista. In cinquant’anni di vita africana non si era mai curato di imparare una sola parola dei loro dialetti; e per evitare ogni rapporto con le autorità locali, aveva rifiutato l’installazione di un telefono. Le classi dirigenti e intellettuali africane lo accusavano di non capire le “istanze” del mondo nuovo. Forse c’è qualcosa di vero in tutto ciò ma Schweitzer non aveva mai creduto nella capacità delle popolazioni indigene di autogovernarsi democraticamente.

Le critiche dei demagoghi neri e dei retori bianchi furono pesanti per colui che, ai selvaggi della foresta, aveva sacrificato un’intera esistenza. Un giornalista che ebbe modo di conoscerlo più da vicino disse: “Non bisogna crederlo un santo. È un uomo con tutti i difetti umani, ma come uomo è grandissimo”. Quando John Gunther visitò Schweitzer a Lambarènè nel 1954 scrisse: “Schweitzer è troppo al di sopra, troppo complesso per afferrarlo facilmente, è un uomo universale”, e quando gli chiese se si sentiva più francese o più tedesco, la sua risposta fu istantanea, senza ombra di dubbio: “Homo sum”. Ma c’è invece chi sostiene fosse molto semplice, naturale e modesto più di quanto venisse descritto da una certa stampa, soprattutto americana. Si intratteneva volentieri con tutti, rispondeva personalmente a chi gli scriveva, con calligrafia chiara, minuta, elegante. Si era soliti vederlo con i vecchi pantaloni cascanti, pieni di rammendi, con le tasche sempre gonfie di lettere.

Nel contempo era un uomo di un rigore estremo. Nel villaggio regnava una disciplina assoluta ed un rigore necessari per scoraggiare i romantici, gli avventurieri e tutti coloro che chiedevano di poter prestare la loro opera al suo fianco senza possedere le doti morali e psicologiche adatte. Albert Schweitzer non tollerava che si portassero i calzoni corti, che si girasse a testa nuda o che ci si lamentasse del caldo. Vestiva di bianco e portava il casco coloniale di sughero; non aveva mai abbandonato questa divisa che nessuno più adottava e che spesso veniva indicata come il simbolo di un colonialismo ormai scomparso.

Il dott. Schweitzer e la figlia Rhena negli ultimi anni in Gabon

Egli diceva che la mosca tse-tse, per succhiare il sangue, punge attraverso i tessuti più spessi…, quando sente il corpo sul quale si è posata fa il più piccolo movimento, vola via; è troppo furba per posarsi su un fondo chiaro dove sarebbe subito scoperta, e perciò la migliore difesa consisteva nel portare abiti bianchi (o comunque chiari). Quando era già famoso e doveva recarsi in Europa viaggiava in terza classe “solo perché non c’era la quarta ”, sosteneva. Quando si recava a cerimonie, a tenere concerti e conferenze e a ricevere premi, se la cavava con un vecchio vestito nero e una cravatta a farfalla che non abbandonava mai. Dotato di un fisico eccezionalmente forte, irrobustito anche dal lavoro manuale, Schweitzer poté resistere a tutte le malattie tropicali pur restando in continuo contatto con i lebbrosi che spesso gli fungevano da infermieri e interpreti. A Lambaréné viveva senza agi e conforti della vita moderna, non leggeva giornali, non possedeva radio, telefono od automobile. Non si è mai spostato in aereo. Sovente chiedeva consigli agli altri e mai si elevava a maestro, mai faceva pesare l’autorità della sua cultura, della fama, dell’età. Con la sua autorità pretendeva molto dai collaboratori e si mostrava del tutto indifferente ai visitatori del suo villaggio (anche se questa versione diverge da altre biografie).
Frugalissimo, si nutriva quasi esclusivamente di frutta, lasciando parte di questi suoi pasti ad alcuni animali, la cui vita, come tutte le esistenze, egli rispettava profondamente. Non volle mai salire su un aereo, si rifiutò di “modernizzare” il suo ospedale, e di apprendere le varie lingue. Di qui le aspre critiche da parte di europei che lo tacciarono di colonialismo, ma lui replicava sorridendo a queste trovate; più che un colonialista egli era un grande “africano”. Ma un’originale definizione di sé l’ha data lo stesso Schweitzer, in occasione del suo 70° compleanno, parlando ai collaboratori di Lambaréné: “Io sono per un terzo professore, un terzo farmacista e un terzo contadino. Per di più posseggo qualche goccia di sangue dei selvaggi”. Godeva di una salute eccezionale grazie alla quale ha saputo far fronte a lavori manuali, viaggi, disbrigo della (a volte) fitta corrispondenza, resistendo al torrido clima equatoriale, sino a raggiungere un’età di … tutto rispetto. Sosteneva di perseguire tre principi: “Volontà, disprezzo dell’inazione (ozio), perseveranza. Ma anche una buona dose di fortuna”.

Ma come mai, ci potremmo chiedere, tra i missionari Schweitzer è stato (e forse lo è ancora) il più popolare, il più noto? È presto detto. La sua eccezionale personalità, la sua decisione di partire per l’Africa con un gesto che dai più è stato visto come una rottura con una brillantissima carriera, le sue opere, la sua filosofia del rispetto della vita,i suoi interventi in delicati momenti della vita internazionale, hanno commosso l’opinione pubblica mondiale. Inoltre, per la realizzazione della sua opera ha avuto a disposizione mezzi che gli altri missionari non si sognavano nemmeno. Schweitzer era conscio di tutto questo e sosteneva di non aver fatto nulla di straordinario; ed era sincero. Ma spiegava anche: “Nessuno verrebbe da me se io li costringessi a vivere in corsie sterilizzate, su lettini di ferro, tra lenzuola bianche. Non sanno che farsene, loro, delle lenzuola. Io li curo lasciandoli vivere come sono abituati a vivere nei loro villaggi, tra i loro familiari e le loro bestie, con le loro piccole e grandi infrazioni all’igiene. Io ho tutto nel mio ospedale: antibiotici e cortisonici, sulfamidici e vitamine, raggi X, elettrocardiografi ed altro ancora. Manca solo l’igiene. Ma c’è qualcosa che vale di più dell’igiene: la serenità, la distensione dell’animo, l’azione favorevole dell’ambiente”.

Il momento della notorietà

Coloro che credono che Albert Schweitzer volesse attirare in qualche modo l’attenzione da parte dei mass media o di chicchessia, va ricordato che la sua notorietà si diffuse a livello mondiale solo quando, nel 1945, alla Radio americana Albert Einstein (suo amico) disse che nella foresta equatoriale africana viveva “uno dei più grandi uomini dei tempi moderni, se non il più grande”. Tale notorietà si intensificò dopo il riconoscimento del Premio Nobel ed ancor più nei primi anni ’60 quando, grazie all’Air France, a Lambarènè giunsero giornalisti attirati dalla tentazione di fare un “servizio” su Albert Schweitrzer e il suo ospedale. Di solito li riceveva l’alsaziana Emma Haussknech, con Schweitzer da trent’anni.

Nel 1953 giunse Jhon Gunter, famoso giornalista americano, che scrisse: “È un grand’uomo, uno dei più grandi d’ogni tempo, è una natura così alta e versatile che sfugge a una facile comprensione. Ha un poderoso naso aquilino, baffi spioventi, occhi che veramente fissano. È di una corporatura robusta e la sua tenuta consiste in un elmetto coloniale, una camicia bianca, aperta, calzoni sbrindellati, grosse scarpe nere. Forza, calma, autorità, sensibilità…; tutte queste caratteristiche si rispecchiano nella sua faccia fiera, dallo sguardo penetrante e dal pelo brizzolato. È un viso straordinario e Schweitzer è un magnifico uomo… Talvolta è dittatore, pedante, irascibile, ma esercita un fascino che ha del miracoloso ed è letteralmente adorato. E la sua risata, le volte che ride, è un segno evidente della sua dolcezza interiore… È un despota dal cuore d’oro”.

Schweitzer utilizzava l’umorismo come una forma di terapia equatoriale, un modo di ridurre la temperatura, l’umidità, le tensioni. In realtà, si serviva dell’umorismo in modo così artistico che si aveva la sensazione che lo considerasse quasi come uno strumento musicale. Durante i pasti, quando l’équipe si trovava tutta riunita, Schweitzer aveva sempre una storiella da raccontare. La risata era probabilmente la portata più importante: era stupefacente vedere come i membri dell’équipe sembravano ringiovaniti dall’argutezza del suo umorismo.

Ai giornalisti, stupiti della sua opera, Schweitzer diceva: “Questo che vedete, vi piaccia o meno, è il mio ospedale. Questa che vedete è la mia religione. Il mio ospedale è povero, ma ricco di qualcosa che voi non vedete perché ne siete già ricchi: la libertà, anche per un lebbroso, di vivere… Qui c’è il rispetto per la vita, per le consuetudini… Il telefono a che servirebbe? Se un malato muore o guarisce, io non saprei quasi mai dove e a chi telefonare…” Per capire che si è in un ospedale bisogna leggere sopra gli usci delle baracche le scritte: Malati nuovi”, “Consultazioni generali”, “Sala per le operazioni”.

Nel processo evolutivo di ogni essere umano c’è un tempo in cui la sua triplice natura (fisica, emozionale e mentale) raggiunge inevitabilmente un tale sviluppo da consentirne una sintesi perfetta. Ed è da questo momento che l’uomo diventa personalità, in quanto pensa, decide e dispone; assume il controllo della sua vita, tanto da costituire un fattore di rilevante influenza nel mondo.

Il celebre medico alsaziano, esempio fulgido di amore per il Creato (tra l’altro definito da alcuni un visionario, emissario sospetto da altri, in odore di santità da altri ancora) ha influito profondamente sullo spirito della nostra epoca con la sua vita esemplare e il suo pensiero profondo? Il suo mistico rispetto per l’amore, per la luce, e per la vita può ispirare ancora oggi il nostro cammino? Ed ancora. Può aiutare a lenire il dolore dell’umanità? A chi mi legge il diritto di accennare una risposta quale contributo al mantenimento della memoria di un testimone del tempo che, forse, ha pochi eguali; ma sicuramente, oggi, nella solidarietà con il sud del mondo, appare come un antesignano. Con pregi e difetti.
EB

Bibliografia

“ Il dottor Albert Schweitzer ”; Ed. Della Volpe, 1965

 

“ Albert Schweitzer – La mia vita e il mio pensiero ”; Ed. Comunità, 1965

 

“ 75° anniversario della fondazione dell’ospedale di Albert Schweitzer ”, catalogo e mostra a cura di Adriano M. Sancin, 1988

 

“ Albert Schweitzer – Vita – Sermoni –Documenti- Pensieri ”, di Luigi Grisoni; Ed. Velar, 1993

 

“ Albert Schweitzer – Rispetto per la vita ” – Ed. Claudiana, 1994

 

“ Albert Schweitzer e il rispetto per la vita ”, di Luigi Grisoni; Ed. Velar, 1995

 

“ Albert Schweitzer – Le Medicin ”, conferenza di Adriano M. Sancin per la Celebrazione di Albert Schweitzer all’Accademia di Medicina di Torino; 11/10/1995

 

Fonte: internet http://www.siaecm.org/medici_famosi/schweitzer/SIAECM_Documenti_A_SCHWEITZER.htm

Da storia del Vegetarismo su WEB 

Dott. Albert Schweitzer (1875-1965)

Missionario e statista, Premio Nobel per la pace nel 1952

In Here’s Harmlessness: An Anthology of Ahimsa, compilato da H. Jay Dinshah (fondatore della Società Vegana Americana) si trovano citazioni da Schweitzer, inclusa la seguente: “Sono conscio del fatto che mangiare carne non concordi con i sentimenti più nobili dell’animo umano e per questo evito di farlo ogni volta che posso”.

Da The Vegetable Passion, di Janet Barkas (New York, 1975): “…Schweitzer considerava il vegetarismo come una sorta di rispetto reverenziale per la vita e si doleva del fatto di non poter raggiungere pienamente quell’obiettivo, almeno non come avrebbe voluto. Durante i suoi ultimi anni di vita divenne un vegetariano più coerente: pare che Barkas ricevette queste informazioni da “Anita Daniel, la quale condivise molti pranzi e molte cene con Schweitzer, nella sua residenza del villaggio di Gunsbach, in Alsazia”.

Citazioni:

L’uomo non troverà la pace interiore finché non imparerà ad estendere la propria compassione a tutti gli esseri viventi. – The Philosophy of Civilisation

La coscienza tranquilla è un’invenzione del diavolo. – The Philosophy of Civilisation

Verso la fine del terzo giorno, nel momento stesso in cui, al tramonto… mi balenò alla mente, inattesa e repentina, la frase: “Rispetto reverenziale per la vita”.

Un uomo è etico solo quando la vita, in quanto tale, è sacra per lui, quando rispetta la vita di piante ed animali, così come quella del suo prossimo, e solo quando dedica tutto se stesso all’opera di sostegno di tutte quelle forme di vita che necessitano di aiuto.

Qualsiasi religione, o filosofia, non basata sul rispetto per la vita non è una vera religione o una vera filosofia. – Lettera ad un’organizzazione animalista giapponese, 1961

Ciò che più di tutto fa di un essere umano un vero uomo è la sua empatia per tutte le creature viventi.

Quando aiuto un insetto in difficoltà non faccio altro che cercare di espiare una parte delle colpe dovute ai crimini [degli esseri umani] contro gli animali.

Questa è la mia formica personale. Ti riterrò responsabile se le romperai le zampe (ad un bambino di dieci anni).

La felicità? Un’ottima salute e una pessima memoria, niente di più.

Non si può permettere che qualcuno consideri leggero il peso delle proprie responsabilità. Finché vengono perpetrati tanti maltrattamenti ai danni degli animali, finché i gemiti degli animali assetati, imprigionati in vagoni merci, continuano a non essere ascoltati, finché tanta brutalità ha la meglio nei nostri mattatoi… siamo tutti colpevoli. Ogni essere vivente è prezioso proprio perché vive, perché rappresenta una delle manifestazioni evidenti di quel mistero che chiamiamo vita.

Secondo il pensiero europeo moderno stiamo vivendo una vera e propria tragedia: i legami originari tra un atteggiamento positivo nei confronti del mondo e l’etica si stanno lentamente ma irreversibilmente allentando e alla fine verranno troncati del tutto. – Out of My Life and Thought

Lo spirito dell’uomo non è morto. Continua a vivere in segreto… È giunto a credere che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi, e non solo gli esseri umani. – Discorso tenuto alla consegna del Premio Nobel per la pace: The Problem of Peace in the World Today.

La nostra civiltà non ha sentimenti umani. Siamo uomini troppo poco umani! Dobbiamo riconoscerlo e cercare di trovare una nuova spiritualità. Abbiamo perso di vista questo ideale, occupati come siamo a pensare agli affari degli uomini, anziché al fatto che la nostra bontà e compassione dovrebbero estendersi a tutte le creature. La religione e la filosofia non hanno insistito abbastanza sul fatto che dovremmo essere buoni e compassionevoli con tutti gli esseri viventi.– Letter to Aida Flemming, 1959

Nostro dovere è prendere parte alla vita e averne cura. Il rispetto reverenziale per tutte le forme di vita rappresenta il comandamento più importante nella sua forma più elementare. Ovvero, espresso in termini negativi: “Non uccidere”. Prendiamo così alla leggera questo divieto che ci troviamo a cogliere un fiore senza pensarci, a pestare un povero insetto senza pensarci, senza pensare, orribilmente ciechi, non sapendo che ogni cosa si prende le proprie rivincite, non preoccupandoci della sofferenza del nostro prossimo, che sacrifichiamo ai nostri meschini obiettivi terreni. – Reverence for Life

Affermare la vita significa rendere più profonda, più interna la voglia di vivere ed esaltarla. Allo stesso tempo l’uomo, divenuto un essere pensante, si sente obbligato ad accordare a tutti gli esseri dotati di voglia di vivere lo stesso rispetto reverenziale di cui investe la propria esistenza. Percepisce la vita altra come simile alla sua. Comprende ciò che è bene: preservare la vita, valorizzare al massimo la vita in grado di svilupparsi; e comprende ciò che è male: distruggere la vita, nuocere alla vita, reprimere la vita in grado di svilupparsi. Questo è il principio assoluto, fondamentale, della morale ed è una necessità del pensiero. – Citato in A Treasury of Albert Schweitzer, ed. Kiernan.

Brani vari tratti da ‘Memoirs of Childhood and Youth’:

Ricordo di aver sempre sofferto a causa della grande miseria che vedevo nel mondo. Non ho mai conosciuto la gioia di vivere spontanea propria della fanciullezza e penso che molti bambini si sentano così, anche se spesso, visti dall’esterno, sembrano completamente felici e senza preoccupazioni.

Ciò che mi faceva più soffrire era vedere dei poveri animali costretti a sopportare così tanto dolore e tante privazioni. La vista di un cavallo vecchio e zoppicante trascinato da un uomo mentre un altro lo colpiva con un bastone mentre veniva portato al mattatoio di Colmar mi perseguitò per settimane.

Era una proposta terribile [che Albert, di otto anni, passasse il tempo con un amichetto ad uccidere gli uccelli con una fionda]… ma non osai rifiutare, perché avevo paura che avrebbe riso di me. Andammo quindi vicino ad un albero, ancora quasi del tutto spoglio, dove gli uccellini cantavano allegri al mattino e non avevano per niente paura di noi. Poi, come un indiano curvo sulla preda, il mio compagno mise un sasso nella fionda e tirò. Obbedendo al suo sguardo autoritario, feci lo stesso, non senza spaventosi rimorsi di coscienza, giurando solennemente a me stesso che avrei sparato quando lo avesse fatto anche lui. Nello stesso istante le campane della chiesa iniziarono a suonare, fondendosi in un’unica melodia con il canto degli uccelli sotto il sole. Era la campana di avviso, che suonava mezz’ora prima della campana vera e propria. Per me era come una voce proveniente dal paradiso. Buttai a terra la fionda, facendo fuggire gli uccelli, che erano così al sicuro dalla fionda del mio compagno e fuggii a casa. Da allora, ogni volta che le campane della Settimana Santa suonano tra gli alberi senza foglie, sotto il sole, ricordo con immensa gratitudine il modo in cui, allora, risuonò nel mio cuore il comandamento Non uccidere.

Solo una parte irrilevante delle immense crudeltà commesse dagli uomini può essere ascritta ad istinti crudeli. La maggior parte di esse è dovuta a superficialità o ad abitudini consolidate. Le radici della crudeltà, quindi, sono più diffuse di quanto non siano forti. Ma verrà il giorno in cui l’inumanità, protetta dalle abitudini e dalla superficialità, soccomberà di fronte all’umanità difesa dalla riflessione. Lasciateci lavorare per far sì che questo giorno arrivi.

Brani vari tratti da ‘Civilization and Ethics’

Qual è la natura di tale degenerazione, imperante nella nostra civiltà, e perché si è creata? … Ciò che rende la nostra civiltà un disastro è il fatto che sia molto più sviluppata materialmente che spiritualmente. C’è uno squilibrio… Ora i fatti ci invitano a riflettere. Ci dicono con parole terribilmente crude che una civiltà che si sviluppa solo dal lato materiale e non nella propria sfera spirituale… si avvia al disastro.

L’etica del rispetto reverenziale per la vita ci spinge a condividere quanto ci turba e a parlare e agire insieme senza paura per alleggerire la responsabilità di ciò che proviamo. Ci mantiene uniti nella ricerca di un’opportunità per aiutare in qualche modo gli animali, per risarcirli dell’immensa miseria arrecata loro dagli uomini e così per un momento fuggiamo dall’incomprensibile orrore dell’esistenza.

Devo interpretare le vita che mi circonda nello stesso modo in cui interpreto la mia. La mia vita è molto significativa per me. La vita che mi circonda deve essere significativa per se stessa. Se mi aspetto che gli altri rispettino la mia vita, io devo rispettare quella degli altri, per quanto strana mi possa sembrare. E non solo la vita umana, ma la vita di tutti gli esseri: le forme di vita di livello superiore al mio, se esistono; quelle di livello inferiore, che so che esistono. L’etica, come viene intesa nel mondo occidentale, è stata finora limitata ai rapporti tra uomini. Ma questa etica è limitata. Abbiamo bisogno di un’etica più vasta, che includa anche gli animali.

L’uomo è veramente etico quando rispetta l’obbligo di aiutare tutte le forme di vita che è in grado di aiutare, e quando, per evitare di danneggiare un essere vivente, cambia i suoi progetti. Non chiede in che misura questo o quell’essere vivente meriti simpatia, né se questo sia capace di provare sentimenti. Per un uomo etico la vita è sacra per se stessa. Se, dopo un temporale, quest’uomo esce in strada e vede un verme smarrito, penserà sicuramente che quel verme morirà disidratato al sole se non penserà a dargli immediatamente del terreno umido dove poter strisciare, perciò lo porta via dal mortale selciato di pietra e lo deposita nell’erba verde. Se, passando, dovesse vedere un insetto caduto in una pozza, perderebbe un po’ del suo tempo a cercare una foglia o uno stelo su cui l’insetto potrà arrampicarsi e così salvarsi.

L’uomo, divenuto un essere pensante, sente il dovere di dare ad ogni voglia di vivere lo stesso rispetto reverenziale per la vita che dà a se stesso. Percepisce tale vita altra nella propria.

L’uomo pensante deve opporsi a tutte le pratiche crudeli, per quanto profondamente radicate nella tradizione e circondate da un’aureola di santità. Nel momento in cui abbiamo la possibilità di scegliere, dobbiamo evitare di causare tormento e danno alla vita altrui, perfino quella della più piccola creatura; fare altrimenti significa rinunciare al nostro essere uomini e sobbarcarci una colpa ingiustificabile.

Destino di ogni verità è quello di essere oggetto di ridicolo la prima volta che viene pronunciata. In passato venne considerato pazzesco supporre che gli uomini di colore fossero esseri umani come gli altri e che dovessero essere trattati come tali. Ciò che in passato era una follia ora è una verità riconosciuta. Oggi proclamare il rispetto costante per tutte le forme di vita, nell’ambito di una richiesta seria di un’etica razionale, viene considerata un’esagerazione. Si sta però avvicinando il giorno in cui la gente sarà stupita che la razza umana sia vissuta tanto tempo prima di capire che nuocere distrattamente alla vita è incompatibile con una vera etica. L’etica è, nel senso più vasto del termine, un senso di responsabilità esteso a tutto ciò che ha vita

 Appunti studenteschi

Acuto osservatore della crisi della società contemporanea, Albert Schweitzer, noto medico e teologo insignito del Premio Nobel per la pace per la sua attività di chirurgo missionario nell’ospedale Lambaréné in Gabon, consacra la propria esistenza ai poveri e ai sofferenti, includendo in tale encomiabile dedizione una notevole attenzione anche ai diritti degli animali, non ancora presi in considerazione nel periodo in cui vive.

Il suo obiettivo di ricerca non si limita alla mera analisi della miseria spirituale in cui versa la sua epoca, ma si concentra particolarmente sulla possibilità di scorgere una soluzione in grado di contrastare il profondo declino morale della società contemporanea in cui l’uomo sembra aver smarrito ogni capacità riflessiva e creativa.

Secondo Schweitzer, colui che oggi denominiamo “homo oeconomicus“, la cui mente è principalmente occupata dal lavoro e dall’aumento della produzione, lo induce a cercare nei pochi ritagli di tempo a sua disposizione a prediligere letture poco impegnative, luoghi di svago e dialoghi superficiali che non prevedono alcuna fatica mentale. Così, infatti, lo studioso commenta la crescita esponenziale della banalità che percepiamo quotidianamente: «Quando lo spirito della superficialità è penetrato nelle istituzioni che dovrebbero sorreggere la vita spirituale, queste agiscono sulla società e la portano a uno stato di vuoto mentale».

Ma la sfiducia e il pessimismo non prendono il sopravvento nel suo pensiero e le riflessioni che ha donato a tutti coloro pronti ad ascoltare ed approfondire la sua voce, non invitano a ripudiare in toto ogni forma di progresso che sia riuscito ad agevolare la nostra vita, ma ad affiancarlo ad un rinnovamento spirituale che affermi il rispetto e la compassione per ogni forma di vita.

Nato il 14 gennaio 1875 a Kaysersberg, una piccola cittadina dell’Alsazia, da bambino è afflitto da problemi di apprendimento e per tale ragione impara a leggere e a scrivere in ritardo rispetto ai suoi coetanei. Ma in compenso manifesta un particolare talento per la musica imparando a suonare il clavicembalo ad appena cinque anni. Si perfezionerà successivamente nello studio dell’organo.

Dopo il servizio militare, si laurea in Filosofia e Teologia a venticinque anni.

Indifferente al pensiero dominante che scaturisce dalle dottrine filosofiche di Kant, Schweitzer presenta una tesi filosofica sulla visione religiosa del suddetto filosofo, ancora oggi oggetto di scandalo.

Nel 1905, all’età di 30 anni, avverte il prepotente impulso interiore di aiutare gli indigenti e, dopo essere venuto a conoscenza di una società missionaria parigina che si occupa di missioni in Gabon, priva di personale medico altamente qualificato, decide di iscriversi in Medicina. Consegue la specializzazione in malattie tropicali a trentotto anni. Nonostante già occupi una posizione di rilievo come direttore del seminario di St Thomas e percepisca un ottimo stipendio, il desiderio di recarsi in Africa ad aiutare le persone sofferenti lo induce ad abbandonare tutto per cercare di migliorare le condizioni di salute di quegli esseri umani depredati e dimenticati dal mondo.

Già da studente si era occupato di senzatetto ed ex carcerati, lavorando come volontario presso un’organizzazione umanitaria. Ma con il passare degli anni, la sua estrema sensibilità lo spinge a cambiare vita per prestare soccorso in Africa, ben consapevole dei rischi che avrebbe corso.

Al male che i bianchi avevano recato ai paesi africani vuole porre rimedio, almeno in parte. «Colui che è stato risparmiato dal dolore deve sentirsi chiamato a contribuire a lenire il dolore degli altri. Tutti dobbiamo portare il fardello di sofferenze che pesa sul mondo».

Insieme alla moglie Helénè Breslau, un’infermiera sposata nel 1912, parte per l’Africa e si stabilisce a Lambarènè alla Missione N’Gomo, fondata dal medico e missionario americano Nassau.

I coniugi si stabiliscono in una modesta capanna sulla collina Andende e cominciano immediatamente a lavorare inizialmente in un vecchio pollaio, che usano come ambulatorio, e poi in una baracca di lamiera con un angolo per poter eseguire le operazioni e un piccolo spazio dove poter riporre i medicinali.

Intorno alla baracca vengono costruite alcune piccole capanne di bambù da adibire al ricovero degli ammalati.

Moltissime sono le persone malate che si recano da Albert Schweitzer per essere curate e ciò che l’uomo apprende dagli indigeni con cui viene in contatto è la loro necessità di conoscere subito la verità sul loro male e la serena accettazione della morte, sconosciuta a noi occidentali.

In breve tempo il suo nome diventa famoso in tutto il mondo e la rivista “Time” lo definisce “il più grande uomo del mondo.”

Fa spesso ritorno nella sua terra e si oppone in modo plateale al nazismo, sfidandone apertamente l’ideologia con un discorso molto acceso il 22 marzo 1932 a Francoforte.

Dopo quella sua dichiarazione decide di non far più ritorno in Germania.

Timido e introverso mostra apertamente di non amare la sua notorietà e confessa ad un noto corrispondente svizzero il suo disagio per la fama che lo ha investito con le seguenti parole: «Non amo la notorietà e cerco di evitare tutto ciò che attira su di me l’attenzione».

Nel 1952 Schweitzer riceve il premio Nobel per la pace, ma ritirerà il premio l’anno seguente.

Durante la solenne cerimonia in suo onore, lancia un appello volto ad indirizzare il mondo alla pace e alla solidarietà. Usa poi il denaro del premio per poter terminare i lavori della costruzione del “Village de la Lumière” (Il Villaggio della Luce) per i lebbrosi, inaugurato nel 1954.

La grandezza di un uomo come Schweitzer, che dedica la sua vita agli ultimi di questa terra, animali compresi, e rispetta gli usi e costumi di popoli molto differenti da noi occidentali, è un esempio encomiabile di tolleranza e amore verso il prossimo ancora oggi attuale, visti gli scontri di civiltà fomentati da uomini piccoli e senza scrupoli che mirano solamente a dividere l’umanità per poterla meglio assoggettare.

La morte della moglie, avvenuta nel 1957, lo segna profondamente e anche se proseguirà instancabile il suo lavoro fino agli ultimi istanti della sua vita, s’intuisce il tormento di un uomo profondamente innamorato che non aspetta altro di vedere il proprio corpo sepolto accanto a quello della donna che lo aveva seguito in quel percorso straordinario intrapreso.

Albert Schweitzer si spegnerà silenziosamente nella sua capanna la notte del quattro settembre del 1965.

Uomo dalla personalità complessa, sul suo temperamento è stato scritto molto, ma a noi basta conoscere la sua opera e i suoi pensieri per poterne comprendere l’immensa grandezza.

FRASI

Di seguito alcuni suoi pensieri significativi accompagnati dalle sue straordinarie esibizioni musicali.

È la capacità dell’uomo di empatizzare con tutte le creature viventi che fa di lui veramente un uomo.

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L’esempio non è la cosa che influisce di più sugli altri: è l’unica cosa.

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Lo spirito dell’uomo non è morto. Continua a vivere in segreto… È giunto a credere che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi, e non solo gli esseri umani.

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Nessuno dovrebbe tollerare che vengano inflitte agli animali delle sofferenze e neppure declinare le proprie responsabilità. Nessuno dovrebbe starsene tranquillo pensando che altrimenti si immischierebbe in affari che non lo riguardano. Quando tanti maltrattamenti vengono inflitti agli animali, quando essi agonizzano ignorati per colpa di uomini senza cuore, siamo tutti colpevoli.

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Nostro dovere è prendere parte alla vita e averne cura. Il rispetto reverenziale per tutte le forme di vita rappresenta il comandamento più importante nella sua forma più elementare. Ovvero, espresso in termini negativi: “Non uccidere”. Prendiamo così alla leggera questo divieto che ci troviamo a cogliere un fiore senza pensarci, a pestare un povero insetto senza pensarci, senza pensare, orribilmente ciechi, non sapendo che ogni cosa si prende le proprie rivincite, non preoccupandoci della sofferenza del nostro prossimo, che sacrifichiamo ai nostri meschini obiettivi terreni.

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La fortuna è la sola cosa che si raddoppia quando la si condivide.

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Dobbiamo non soltanto non uccidere, ma – se è possibile – conservare la vita […]. Voi, però, tenete gli occhi aperti: non perdete occasione di essere misericordiosi. Perciò, non ignorate con noncuranza il povero insetto caduto in acqua, ma pensate che cosa significhi lottare per non affogare. Aiutatelo dunque, servendovi di un uncino o di un legnetto; e se poi si pulirà le ali, vi mostrerà qualcosa di meraviglioso: la fortuna di aver tratto in salvo la vita… di aver agito per incarico e per conto dell’onnipotenza di Dio. Il verme smarrito sulla terra dura muore perché non può penetrarvi. Voi deponetelo su un terreno ricco o sull’erba: «Ciò che avrete fatto a uno di questi piccoli, l’avrete fatto a me». Queste parole di Gesù si applicano a ogni nostra azione nei confronti delle creature inferiori.

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Lo spirito dell’uomo non è morto. Continua a vivere in segreto… È giunto a credere che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi, e non solo gli esseri umani.

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Ogni qualvolta la mia vita dà in qualche modo se stessa per la vita altrui, la mia volontà di vivere limitata s’identifica con la volontà di vivere illimitata nella quale tutte le vite sono una cosa unica. Ho con me una bevanda che mi impedisce di morire di sete nel deserto della vita.

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Più guardiamo nel profondo della natura, più ci accorgiamo che è piena di vita e più constatiamo che tutta la vita è un mistero e che noi siamo uniti a ogni vita che esiste nella natura.

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Verrà un momento in cui l’opinione pubblica non tollererà più divertimenti basati sul maltrattamento e l’uccisione degli animali.

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Veramente morale non è che colui che soccorre ogni vita alla quale egli può portare aiuto e si astiene di far torto ad ogni creatura che ha vita. La vita in se stessa è sacrosanta. Io mi rendo ben conto che il costume di mangiar carne non è in accordo con i sentimenti più elevati.

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Questo che vedete, vi piaccia o meno, è il mio ospedale. Questa che vedete è la mia religione. Il mio ospedale è povero, ma ricco di qualcosa che voi non vedete perché ne siete già ricchi: la libertà, anche per un lebbroso, di vivere… Qui c’è il rispetto per la vita, per le consuetudini… Il telefono a che servirebbe? Se un malato muore o guarisce, io non saprei quasi mai dove e a chi telefonare…

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Nessuno verrebbe da me se io li costringessi a vivere in corsie sterilizzate, su lettini di ferro, tra lenzuola bianche. Non sanno che farsene, loro, delle lenzuola. Io li curo lasciandoli vivere come sono abituati a vivere nei loro villaggi, tra i loro familiari e le loro bestie, con le loro piccole e grandi infrazioni all’igiene. Io ho tutto nel mio ospedale: antibiotici e cortisonici, sulfamidici e vitamine, raggi X, elettrocardiografi ed altro ancora. Manca solo l’igiene. Ma c’è qualcosa che vale di più dell’igiene: la serenità, la distensione dell’animo, l’azione favorevole dell’ambiente.

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Fin dalla mia più tenera infanzia ho sentito il bisogno di avere compassione per gli animali. Ancor prima di andare a scuola non riuscivo a capire perché, nella preghiera della sera, dovevo pregare soltanto per delle persone. Per questo, dopo che mia madre mi aveva fatto ripetere la preghiera e mi aveva dato il bacio della buona notte, in segreto aggiungevo una preghiera per tutti gli esseri viventi, composta da me. Diceva così: «Buon Dio, proteggi e benedici tutto ciò che ha respiro, difendili da ogni male e fa’ che dormano tranquilli».

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Dovremmo dedicare maggior attenzione alle generazioni future di medici e ricercatori che vorranno sacrificare o dedicare parte della loro esistenza per il bene di un’umanità più disagiata, più vulnerabile ed emarginata, fuori dai credi politici o religiosi. Solo così riusciremo a colmare, almeno in parte, le grandi differenze che separano ancora l’umanità.

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Non si ha il diritto di indagare nell’intimo degli altri. Il voler analizzare i sentimenti del prossimo è indelicato. Non c’è solo un pudore del corpo, esiste anche quello dell’animo che bisogna rispettare. Anche l’animo ha i suoi veli, dei quali non ci si deve liberare.

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Il nero non è un essere stupido, come può credere chi presta fede ai racconti dei vari esploratori che basano i loro giudizi sulle esperienze fatte con portatori e rematori. Per conoscere veramente l’indigeno è indispensabile che i rapporti non siano da padrone a dipendente, ma da uomo a uomo.

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Il Movimento per la protezione degli animali, sorto durante la mia giovinezza, ebbe una grande influenza su di me. Finalmente c’era qualcuno che osava sostenere in pubblico che la compassione per gli animali è qualcosa di naturale, che fa parte della vera umanità, e che non è necessario tener nascosti i propri sentimenti di fronte a questa consapevolezza. Ebbi l’impressione che una nuova luce si fosse accesa nell’oscurità delle idee, e che sarebbe stata alimentata per sempre.

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Coloro che sperimentano tecniche operatorie o medicine su animali, oppure iniettano loro delle malattie per poter aiutare gli esseri umani coi risultati ottenuti, non dovrebbero mai tranquillizzare la loro coscienza con la scusa generale che le loro terribili azioni vengono compiute per un nobile scopo. È loro dovere riflettere in ogni singolo caso se è realmente e veramente così necessario sacrificare un animale per l’umanità. Dovrebbero preoccuparsi ansiosamente di alleviare il più possibile il dolore che provocano.

Quanti delitti vengono in questo modo perpetrati negli istituti scientifici dove spesso si tralascia di usare i narcotici per risparmiare tempo e fatica! Quanti delitti si compiono facendo soffrire agli animali le torture dell’agonia, solo per dimostrare agli studenti delle verità scientifiche che sono già perfettamente conosciute! Il fatto che l’animale, come vittima della ricerca, abbia col suo dolore reso tali servizi all’uomo sofferente, crea di per sé un nuovo ed unico rapporto di solidarietà tra lui e noi. Ne risulta per ognuno di noi l’obbligo di impegnarsi a fare quanto più bene è possibile a tutte le creature, in ogni circostanza. Quando aiuto un insetto in difficoltà lo faccio nel tentativo di cancellare una parte della colpa commessa con questi crimini contro gli animali.

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Ogni qualvolta la mia vita dà in qualche modo se stessa per la vita altrui, la mia volontà di vivere limitata s’identifica con la volontà di vivere illimitata nella quale tutte le vite sono una cosa unica. Ho con me una bevanda che mi impedisce di morire di sete nel deserto della vita.

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Padre celeste, benedici tutte le cose che hanno vita, difendile dal male e falle dormire in pace.

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Ogni forma di vita, in quanto è vita, è sacra e questo deve bastare. L’uomo giusto è colui che, quando trova un verme che si è smarrito dopo un temporale e si sta seccando sull’asfalto, rimette l’animale nell’erba senza chiedersi di quanta intelligenza sia dotato. Lo salva perché è vivo e la vita è sacra.

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L’ideale è per noi quello che è una stella per il marinaio. Non può essere raggiunto, ma rimane una guida.

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L’uomo non troverà la pace interiore finché non imparerà ad estendere la sua compassione a tutti gli esseri viventi.

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Il successo non è la chiave della felicità. La felicità è la chiave del successo. Se ami ciò che stai facendo, avrai successo.

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Alla domanda se io sia pessimista o ottimista, rispondo che la mia conoscenza è pessimista, ma la mia colontà e la mia speranza sono ottimiste.

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Quello che tu puoi fare è solo una goccia nell’oceano, ma è ciò che dà significato alla tua vita.

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Un ottimista è una persona che vede la luce verde ovunque, mentre il pessimista vede solo la luce rossa dello stop. La persona veramente saggia è daltonica.

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Io sono una vita che vuole vivere, circondato da altre vite che vogliono vivere.

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Il grande segreto è camminare attraverso la vita senza essere consumati. E questo è possibile a chi non si appoggia su persone o su avvenimenti ma, in ogni circostanza, si riporta a se stesso e cerca in se stesso il senso ultimo delle cose.

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Un uomo è morale soltanto quando considera sacra la vita come tale, quella delle piante e degli animali

altrettanto di quella dei suoi simili, e quando si dedica ad aiutare ogni vita che ne ha bisogno.

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Ciò che mi ha sempre sorpreso nei nostri indigeni è la mitezza d’animo. Essi ignorano quella solidarietà che spinge un uomo a portare aiuto a un proprio simile, come a noi è stato insegnato dai comandamenti divini. Paragonato agli europei, l’indigeno è un essere asociale: è assurdo accusarlo di inosservanza dei doveri. Egli è ancora troppo preoccupato di sé per interessarsi agli altri. Quando invece è costretto a sopportare un’ingiustizia, spesso dà prova di una pacatezza e di una calma che non ha mancato di sorprendermi. Fra l’altro ritengo che gli indigeni siano meno suscettibili di noi ai sentimenti di collera e vendetta.

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L’etica è, nel senso più vasto del termine, un senso di responsabilità esteso a tutto ciò che ha vita.

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Viviamo in un’epoca pericolosa. L’essere umano ha imparato a dominare la natura molto prima di aver imparato a dominare se stesso.

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La persona più importante è quella persona sconosciuta che in questo momento si dà con amore per gli altri.

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L’unica cosa importante, quando ce ne andremo, saranno le tracce d’amore che avremo lasciato.

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Chi si crede cristiano perché va a messa sbaglia. Uno non diventa un’automobile solo stando in parcheggio.

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Colui che è stato risparmiato dal dolore deve sentirsi chiamato a contribuire a lenire il dolore degli altri. Tutti dobbiamo portare il fardello di sofferenze che pesa sul mondo.

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La parabola del ricco Epulone e del povero Lazzaro mi sembrava scritta per noi. Siamo noi il ricco Epulone perché il progresso della medicina ci ha dato in mano molti mezzi contro le malattie e il dolore. E noi consideriamo gli inestimabili vantaggi di questa ricchezza come un qualche cosa di naturale. Ma laggiù, nelle colonie, c’è il povero Lazzaro, i popoli di colore, soggetti al dolore come noi, anzi più di noi perché non hanno mezzi per combatterlo.

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Ecco il vostro errore, signori adulti! Vi piace preparare i giovani alla vita, dicendo loro che debbono rinunciare ai loro ideali. Nossignori. Vostro preciso compito dev’essere quello di aiutare la gioventù a conservare ben saldi i suoi ideali e i pensieri che la entusiasmano, perché costituiscono una ricchezza immensa. Non dite mai: “Ci penserà la realtà a spegnere i tuoi ideali ”. Ditegli invece: “ Rafforza al massimo i tuoi ideali perché la vita non riesca a sradicarli ”. Gli ideali, i pensieri, le idee sono come gocce d’acqua. Apparentemente senza forza. In una goccia d’acqua non si scorge potenza, ma se essa penetra in un crepaccio e diventa ghiaccio, fa saltare la roccia; se si trasforma in vapore mette in moto una macchina. Gli ideali, i pensieri stanno dentro di noi, apparentemente inerti e inutili. Ma diverranno potenti se ci sforzeremo di diventare più semplici, più sinceri, più puri, più mansueti, più pietosi, più amorevoli. Solo con questo lavorio, il molle ferro dell’idealismo giovanile diventerà acciaio.

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È attraverso l’idealismo dei giovani che l’uomo scorge la verità, e in questo idealismo egli possiede una ricchezza che non deve mai scambiare qualsiasi altra cosa.

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Il destino di ogni verità è di venire ridicolizzata prima di essere riconosciuta.

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Io non so quale sarà il vostro destino, ma so una cosa: le sole persone tra voi che saranno davvero felici sono coloro che hanno cercato e trovato come servire.

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Chiunque si proponga di fare del bene non deve aspettarsi che gli altri gli tolgano i sassi che fanno da inciampo lungo il cammino, ma deve accettare quietamente il suo destino anche se gliene pongono altri in aggiunta.

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Avevo letto della miseria corporale degli indigeni nella foresta vergine, ne avevo anche sentito parlare dai missionari. Quanto più ci riflettevo tanto più mi era inspiegabile il fatto che noi europei ci occupassimo così poco del grande compito umanitario che laggiù ci aspettava.

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L’orrore di questa esperienza (le due guerre mondiali) dovrebbe scuoterci dal torpore e orientare la nostra volontà e le nostre speranze verso un’era in cui non ci sia più guerra. Volontà e speranza avranno un solo esito: il conseguimento, grazie a un nuovo spirito, di una coscienza più elevata, che ci impedisca l’uso mortale del potere in nostro possesso.

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Un uomo che ha una venerazione per la vita non si limita a dire le sue preghiere. Egli si getterà nella battaglia per conservare la vita, se non altro perché lui stesso è un’estensione della vita che lo circonda.

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Quando l’uomo imparerà a rispettare le creature minori della creazione, siano animali o vegetali, non occorrerà che nessuno gli insegni ad amare il suo simile.

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Non vivi in un mondo tutto da solo. Ci sono anche i tuoi fratelli.

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La coscienza tranquilla è un’invenzione del diavolo.

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Due volte, insieme ad altri ragazzi, ho pescato con l’amo. Poi, il ribrezzo di fronte alla violenza dei vermi infilzati e delle bocche lacerate dei pesci catturati mi impedì di continuare, ed ebbi addirittura il coraggio di distogliere altri dalla pesca.

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