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Interdipendenza

Ieri sera esperimenti spirituali di interscambio fra quaccherismo e buddismo a Saronno, ospite dell’amico Davide Puglisi: nella seconda parte partecipazione del monaco bavarese Ajahn Piyadhammo, presente nel fine settimana a Milano e Novara con vari gruppi. Ampia apertura di Pema Chodrom e Matri (gentilezza amorevole) hanno contaddistinto la serata che ha affrontato diverse tematiche: dalla sofferenza agli 8 precetti del monachesimo orientale, dal rapporto madre e figlia al situazione dei bambini che chiedono carità in Cambogia.

Prossimo incontro del monaco buddista tedesco: venerdì  a Milano ore 20.30 in via Borsieri 12 – “Le persone dotate di saggezza, sanno trovare l’oro perfino nella spazzatura”

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Punti di vista sul silenzio

Il culto del silenzio è previsto alle ore 19 a Milano, Via Carducci 8 (MM Cadorna) . E’ prevista la possibilità di nevicate in pianura ed è gradita la puntualità metropolitana; basta organizzarsi coi mezzi.

La Conferenza delle ore 20 è confermata. Segnaliamo che il Segretario del PSI non si è scomodato nel darci una risposta, per reperire un numero del quotidiano Avanti del 1946 (Roma è così, insomma: non si tratta solo di pregiudizi milanesi !) così come un Comune citato nella relazione per la documentazione di supporto, offre riscontro solo sul sito web, confondendo il virtuale con la realtà. E forse trascurando i loro stessi interessi, in primis turistici.

Non è prevista comunque una relazione di sintesi sul web.

Grazie della collaborazione e alla prossima !

 
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Davide Melodia, membro della Società degli Amici, ha scritto in vita molto sul tema sia in lingua inglese su http://www.quaker.org/melodia/silence/  che in italiano su http://www.quaker.org/melodia/signore/  – I link sembrano funzionare correttamente:  si tratta di una miniera teologica molto preziosa.

Il punto di vista di un monaco buddista americano contemplativo è un aiuto anche per noi, che privilegiamo l’azione dopo la preghiera, il silenzio, la confessione, la meditazione individuale e quella espressa collettivamente

Il silenzio e lo spazio

del venerabile Ajahn Sumedho

Segnalazione dell’amico del socialismo buddista Davide Puglisi

© Ass. Santacittarama, 2004. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Giuliano Giustarini.
Dal ‘Forest Sangha Newsletter’, n. 58, ottobre 2001.

Secondo uno stile di vita mondano, il silenzio è qualcosa di cui non vale la pena occuparsi. È più importante pensare, creare, fare cose: riempire il silenzio con il suono. Di solito pensiamo ad ascoltare il suono, la musica, qualcuno che parla; riguardo al silenzio, crediamo che non ci sia nulla da ascoltare. E quelle volte in cui siamo con qualcuno e nessuno dei due sa cosa dire all’altro, ci sentiamo imbarazzati, a disagio; il silenzio tra noi e l’altro diviene fastidioso.
Tuttavia, concetti come silenzio e vacuità cominciano a indicare una direzione da sviluppare, qualcosa cui prestare attenzione, dal momento che nella vita moderna siamo riusciti a distruggere il silenzio e a demolire lo spazio. Abbiamo creato una società nella quale siamo ininterrottamente indaffarati; non sappiamo come riposare o rilassarci o come semplicemente essere. A causa delle pressioni cui la nostra vita soggiace, menti intelligenti sprecano tanto di quel tempo a sviluppare una tecnologia che faciliti la vita, eppure ci ritroviamo stressati. Li hanno chiamati “congegni per risparmiare il tempo”, dovrebbero permetterci di ottenere tutto ciò che vogliamo semplicemente premendo un bottone. Mansioni noiose sarebbero così svolte da robot e macchinari. Ma come trascorriamo il tempo che abbiamo risparmiato?
In un modo o nell’altro dobbiamo avere qualcosa da fare, rimanere indaffarati, dover riempire sempre il silenzio con il suono e lo spazio con le forme. In effetti, l’enfasi è sull’essere una personalità, qualcuno che possa dimostrare il proprio valore. È questa la lotta estenuante, il ciclo interminabile da cui ci sentiamo stressati. Quando siamo giovani e pieni d’energia possiamo goderci i piaceri della gioventù, la salute, le storie d’amore, le avventure e tutto il resto. A un tratto, però, queste esperienze possono interrompersi, magari per una menomazione o perché abbiamo perso qualcuno cui eravamo molto attaccati. Ciò che ci accade può scuoterci al punto che i piaceri sensoriali, la salute, il vigore, il bell’aspetto, la personalità, le lodi del mondo non ci danno più felicità. Oppure possiamo sentirci amareggiati perché non siamo riusciti a ottenere il livello di piacere e successo che immaginiamo ci spetti di diritto. Così dobbiamo sempre metterci alla prova, essere qualcuno, intimiditi dalle richieste della nostra personalità.
La personalità è condizionata nella mente. Non nasciamo con una personalità. Per diventare una personalità dobbiamo pensare, concepirci come qualcuno. La personalità può essere buona o cattiva, o un insieme di cose, e dipende dal riuscire a ricordare, dall’avere una storia, avere opinioni, assunti su noi stessi, attraenti o non attraenti, amabili o no, intelligenti o stupidi, opinioni variabili a seconda delle situazioni. Ma quando sviluppiamo la mente contemplativa vediamo attraverso ciò. Cominciamo a sperimentare la mente originaria: la coscienza prima che sia condizionata dalla percezione.
Ora, se cerchiamo di pensare a questa mente originaria, ci ritroviamo intrappolati nelle nostre facoltà analitiche. Perciò, dobbiamo osservare e ascoltare anziché sforzarci di immaginare come diventare qualcuno che è illuminato. Meditare al fine di diventare qualcuno che è illuminato non funziona, perché in tal modo creiamo il nostro io come una persona che adesso è non-illuminata. Tendiamo a riferirci a noi stessi come non-illuminati, persone con un mucchio di problemi, o addirittura come casi disperati. A volte ci immaginiamo che la cosa peggiore che possiamo pensare di noi stessi è la verità. C’è una sorta di perversione che ritiene che l’autentica sincerità risieda nell’ammettere le peggiori cose possibili su noi stessi!
Non sto formulando giudizi contro la personalità, ma vi sto consigliando di conoscerla, in modo che non siate più spinti dall’illusione che create e dagli assunti che avete su voi stessi in quanto persone. Ed è per questo che si impara a sedere calmi in meditazione e ad ascoltare il silenzio. Non è che questo vi renderà illuminati, ma si oppone alla forza dell’abitudine, alle energie inquiete del corpo e delle emozioni. È per questo che ascoltate il silenzio. Potete udire la mia voce, potete udire i suoni delle cose che accadono, ma dietro tutto ciò c’è una specie di sibilo, un ronzio quasi elettronico. Questo è quello che chiamo ‘il suono del silenzio’. Lo trovo un modo molto utile per concentrare la mente, giacché, quando si inizia a notarlo (senza considerarlo una sorta di conseguimento), esso diviene un efficace metodo per la contemplazione, per udire sé stessi pensare. Il pensare è di per sé una specie di suono, no? Quando pensate, potete udirvi pensare. Così, quando ascolto me stesso pensare è come ascoltare qualcun altro che parla. Per cui ascolto il pensiero della mente e il suono del silenzio: quando sto con il suono del silenzio, mi accorgo che non sto pensando. C’è calma, per cui osservo, osservo coscientemente la calma e questo aiuta a riconoscere la vacuità. La vacuità non è il rifiuto, la negazione di qualcosa, ma un lasciar andare le tendenze abituali dell’attività irrequieta o del pensiero ossessivo.
Ascoltando, potete effettivamente arrestare la forza delle abitudini e dei desideri. E in questo ascolto, in questo stare con il suono del silenzio, c’è attenzione. Non occorre chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie o chiedere a qualcuno di uscire dalla stanza, non occorre trovarsi in un posto particolare, a quanto pare funziona ovunque. Può essere molto prezioso in una situazione di vita in comune, in famiglia, in qualsiasi contesto di vita abituale. In situazioni del genere ci abituiamo agli altri e tendiamo ad agire secondo assunti e abitudini senza neanche accorgercene. E il silenzio della mente consente a tutte queste condizioni di essere ciò che sono. Ma l’abilità di rifletterci in termini di sorgere e cessare ci permette di vedere che tutte le percezioni e tutti i concetti che abbiamo su noi stessi sono condizioni della mente, non sono ciò che siamo veramente. Ciò che pensate di essere non è ciò che siete.
A questo punto potreste ribattere: “E allora cosa sono?”. Ma avete bisogno di sapere cosa siete? Avete bisogno di sapere cosa non siete, è abbastanza. Il problema è che crediamo di essere tutte quelle cose che non siamo e per questo motivo soffriamo. Non soffriamo a causa del non-sé (anatta), del non essere nessuno: soffriamo perché siamo qualcuno tutto il tempo. Ecco dov’è la sofferenza. Quando non siamo ‘qualcuno’, perciò, non c’è sofferenza, c’è sollievo, come deporre un pesante fardello pieno di ‘auto-coscienza’, di paure per ciò che le altre persone pensano. Tutto quell’insieme che è correlato al senso del nostro ‘io’, possiamo lasciarlo cadere. Possiamo semplicemente lasciarlo andare. Che sollievo non essere qualcuno! Non sentire di essere qualcuno che ha tanti problemi, che “dovrebbe praticare di più la meditazione”, che “dovrebbe andare ad Amaravati più spesso”, che “dovrebbe sbarazzarsi di tutte queste cose e non ci riesce!”. Tutto questo è pensiero, vero? È fabbricare ogni genere di concetti su se stessi. È la mente giudicante. La mente discriminante che vi dice in continuazione che non siete buoni abbastanza, che dovete essere migliori.
Quindi possiamo ascoltare; questo ascolto è a nostra disposizione tutto il tempo. All’inizio magari è utile fare ritiri di meditazione, trovare situazioni in cui siete incoraggiati e sostenuti in questo compito, dove c’è un insegnante che vi stimola, che vi aiuta a ricordare, perché è facile ricadere nelle vecchie abitudini, soprattutto nelle abitudini mentali, che sono sottili. E il suono del silenzio non sembra degno di essere ascoltato. Anche se ascoltate la musica, potete ascoltare il silenzio dietro la musica. Non distrugge la musica, ma la pone in una prospettiva in cui non siete trascinati via dalla musica o assuefatti al suono. Potete apprezzare il suono e anche il silenzio.
La Via di Mezzo di cui parla il Buddha non è un estremo di annichilimento. Non è come dire: “Tutto ciò di cui dobbiamo occuparci è il silenzio, la vacuità, il non-sé. Dobbiamo sbarazzarci dei nostri desideri, della nostra personalità, tutto il regno dei sensi è una minaccia al silenzio. Dobbiamo distruggere tutte le condizioni, tutta la musica, tutte le forme, non dobbiamo avere forme in questa stanza, solo muri bianchi”. Non si tratta di vedere il mondo ‘formato’ come una minaccia alla vacuità, di parteggiare per il condizionato o per l’incondizionato, ma piuttosto di riconoscere la loro relazione: questa è una pratica continua.
La consapevolezza è la via, dal momento che siamo fortemente condizionati dallo stare qui, sul pianeta Terra, con questo corpo umano. Dobbiamo vivere tutta la vita all’interno dei limiti, dei problemi e delle difficoltà del corpo umano. E abbiamo emozioni. Sentiamo tutto e ricordiamo tutto. Siamo in questo stato di piacere e dolore per tutta la vita. Ma possiamo vederlo nel modo giusto, ed è questo che intende il Buddha: comprendere le cose così come sono, riuscire a lasciar essere le cose così come sono, anziché creare illusioni.
A causa dell’ignoranza creiamo infinite illusioni sulla vita, sul nostro corpo, sui nostri ricordi, sul nostro linguaggio, sulle nostre percezioni, opinioni, punti di vista, la cultura, le convenzioni religiose, e così diventa complicato, difficile e separativo. L’alienazione che oggi la gente prova è il risultato dell’ossessione riguardo a se stessi, l’ossessione per cui il nostro senso dell’io è di assoluta importanza. Siamo stati educati a pensare che la nostra vita è tutta qui, per cui possiamo riempirci della nostra auto-importanza. Anche il fatto che possiamo ritenere di essere un caso disperato: anche qui continuiamo a dare quella enorme importanza. L’importanza che conferiamo a noi stessi ci fa trascorrere anni dagli psichiatri a discutere i motivi per cui saremmo senza speranza. È piuttosto naturale, visto che dobbiamo passare tutto il tempo con noi stessi. Possiamo fuggire dagli altri, ma non da noi stessi.
L’anatta, il non-sé, è molto frainteso, si tende a vederlo come una negazione dell’io, qualcosa da mettere via, che non dovremmo avere. Non è così che funziona l’anatta. L’anatta, il non-sé, è un suggerimento per la mente, è uno strumento per cominciare a riflettere su cosa siamo veramente. A lungo andare, non occorre considerarci in alcun modo in termini di ‘essere qualcosa’. Se portiamo avanti questa riflessione, allora il corpo, le emozioni, i ricordi, tutto ciò che sembra identificarsi in maniera così assoluta, insistente, con noi stessi, può essere visto in termini di ‘sorgere e cessare’. E quando siamo consapevoli della cessazione delle cose, ci sembra più autentico delle condizioni effimere che tendiamo ad afferrare o dalle quali ci sentiamo ossessionati. Le tendenze abituali sono molto forti, ci vuole un po’ per riuscire a superare questo scoglio dell’ossessione per l’io, ma ci si può riuscire. 
In merito a ciò, alcuni psicologi e psichiatri hanno commentato che abbiamo bisogno di un io. È una cosa importante da considerare, l’io non è qualcosa che non dovremmo avere, ma è qualcosa cui dare la giusta collocazione, è bene che l’io poggi sulla bontà della nostra vita invece che venga a crearsi dai difetti, dagli errori e dalle tendenze negative della mente.
È così facile vedersi in modi molto critici, specialmente quando ci si paragona ad altre persone o si immaginano grandi figure della storia. Ma se ci paragoniamo continuamente a ideali, non possiamo fare altro che criticarci per come siamo, perché la vita è così, è un flusso, un cambiamento, è sentirsi stanchi, avere a che fare con problemi emotivi, con la rabbia, con la gelosia, con le paure, con ogni sorta di desiderio, con tutto ciò che non vogliamo ammettere neanche a noi stessi. Ma questa è una parte del processo, dobbiamo riconoscere le condizioni e osservare la loro natura, che siano buone o cattive, perfette o imperfette: sono impermanenti, sorgono, cessano. In questo modo impariamo in continuazione e troviamo forza nel lavorare attraverso le nostre condizioni karmiche. Forse nella vita non abbiamo ottenuto un granché, forse abbiamo avuto ogni sorta di problemi fisici ed emotivi. Ma, in termini di Dhamma, questi non sono ostacoli, anzi, molte volte sono questi problemi, queste difficoltà che ci spingono a risvegliarci alla vita. E una parte di noi si rende conto che cercare di raddrizzare ogni cosa, di abbellire ogni cosa, di mettere tutto in ordine e rendere la vita piacevole, non è la risposta. Riconosciamo che nella vita c’è qualcosa di più che limitarsi a controllarla e cercare di ottenere il massimo dalle condizioni.
Il riconoscimento del silenzio è una via per lasciare andare la nostra posizione, il nostro senso dell’io, la nostra convenzione. Nel silenzio c’è unità. È come lo spazio in questa stanza: è lo stesso per tutti noi. Non posso affermare che lo spazio è mio. Lo spazio è semplicemente spazio, è dove le forme vanno e vengono. Ma è anche qualcosa che possiamo osservare, contemplare. E cosa accade? Sviluppando la consapevolezza dello spazio, cominciamo ad avere un senso dell’infinito: lo spazio non ha né inizio né fine. Possiamo costruire stanze, considerare lo spazio come qualcosa che esiste in una stanza come questa, ma sappiamo che in realtà è l’edificio che è nello spazio. Lo spazio è come l’infinito, non ha confini. Ma nelle limitazioni della nostra coscienza visiva, i confini ci aiutano a vedere lo spazio in una stanza, perché lo spazio in quanto infinito è troppo. Lo spazio in una stanza è sufficiente per contemplare la relazione tra le forme e lo spazio. Ascoltare il suono del silenzio e i pensieri ha lo stesso effetto.
Per un certo periodo ho praticato formulando deliberatamente i pensieri, pensieri neutri che non suscitano sensazioni emotive, come “io sono un essere umano”. E ascoltavo me stesso formulare quel pensiero con l’intenzione di ascoltare il pensiero in quanto pensiero e il silenzio che vi è dentro. In questo modo contemplo e riconosco il rapporto tra la facoltà del pensiero e il silenzio, il silenzio naturale della mente. Ed è qui che stabilisco la consapevolezza, la capacità che ho come individuo di essere un testimone, di essere colui che ascolta, ciò che è vigile. Nei confronti delle emozioni, ciò può essere molto difficile. Possiamo avere molte emozioni negative verso noi stessi, perché non abbiamo risolto molti dei nostri desideri di possedere le cose, di sentire le cose, di ottenere molte cose o di sbarazzarci delle cose. È qui che ascoltiamo le nostre reazioni emotive. Cominciate a osservare cosa accade da un punto di vista emotivo quando c’è questo silenzio. Può esserci negatività, possono sorgere dubbi su questa pratica, del tipo “non so cosa sto facendo”, o “è una perdita di tempo”. Ma ascoltate anche queste emozioni: sono soltanto abitudini della mente. Se le ammettiamo e le accettiamo, esse cessano. Le reazioni emotive se ne andranno progressivamente e avrete fiducia nell’essere semplicemente ciò che è consapevole.
Quindi potete fondare la vostra vita nell’intenzione di fare del bene e di astenervi dal fare del male. Paradossalmente, abbiamo bisogno di questo rispetto di noi stessi. La meditazione non si poggia sul concetto secondo cui se siamo consapevoli possiamo fare quello che ci pare, ma comporta un rispetto per le condizioni: rispettare il corpo che abbiamo, la nostra umanità, la nostra intelligenza e la nostra abilità nel fare le cose. Non significa essere attaccati o identificati, significa che la meditazione ci permette di riconoscere ciò che siamo: è così com’è, le condizioni sono così. E significa rispettare anche i nostri limiti. Il rispetto verso se stessi, il rispetto verso le condizioni, equivale al rispetto per qualsiasi stato in cui ci troviamo. Non vuol dire che ci piaccia quello stato, ma significa accettarlo e imparare a lavorare con le sue limitazioni.
Dunque, per la mente illuminata non si tratta di ottenere il massimo. Non si tratta di dover avere la migliore salute possibile e le migliori condizioni possibili, non si tratta di alimentare un senso dell’io, di qualcuno che agisce solo se ha il meglio. Quando cominciamo a renderci conto che i nostri limiti, i nostri difetti e i nostri aspetti più strani non sono impedimenti, allora li vediamo nel modo giusto. Possiamo rispettarli, possiamo essere disposti ad accettarli e ad adoperarli per superare il nostro attaccamento verso di essi. Se pratichiamo in questo modo, possiamo essere liberi dall’attaccamento e dall’identificazione con le percezioni di noi stessi, di come siamo. È quanto di meraviglioso possiamo fare come esseri umani, è ciò che ci permette di attingere alla pienezza della nostra vita. Ed è un processo continuo.

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Una prospettiva

I problemi sociali sono sorti quando la mente mise a punto sistemi per accumulare ricchezza, potere e beni per avvantaggiarsi su altri.
Oggi, la ‘Libertà’ delle democrazie è una scusa perché pochi individui o gruppi ristretti si impadroniscono di ampie quantità di beni a danno della comunità.
La presenza delle contaminazioni interiori rende il liberalismo un ideale impraticabile. Gli uomini sono naturalmente portati a cedere alle contaminazioni. Le democrazie liberali diventano così il campo d’azione dell’egoismo e degli interessi privati.
La ‘libertà’, così interpretata, è in contraddizione con la politica.Se la politica è ciò che si occupa di gruppi umani che vivono in comunità, l’interesse andrà al benessere dell’intera comunità. Troppo accento sulla libertà sposta il segno dal collettivo all’individuo, spostamento non coerente con la vera politica.
Chi soggiace al fascino della parola ‘liberalismo’ ricordi che incoraggiare la libertà di individui spinti dall’egoismo significa andare contro la politica in senso vero, cioè la ricerca del BENE COMUNE.
Un sistema politico che non consideri prioritario il bene della collettività è un sistema immorale.
La libertà in senso Buddhista invece è la libertà dalle contaminazioni egoiche.
Tratto da: Socialismo Dhammico
di Achaan Buddhadasa.
(Tramite Davide Puglisi)

Caro Davide,
ricevetti non molto tempo fa una proposta di lavoro amministrativo per il Congo francese da parte di una multinazionale italiana di Pesaro: settore energia. Scoprii su internet – mentre ero in attesa di conoscere l’esito del primo colloquio tramite conference call col direttore del personale – che la maggior parte degli italiani (compreso un fan di Lourdes con tanto di blog) abbandonavano la posizione laggiù entro i sei mesi non tanto per il non esaltante stipendio da trasferta o per i rischi geopolitici ma per la mentalità indigena. Non potevano accettare che la loro mentalità (immagino che la ritenessero superiore a quella dei locali) non potesse essere non condivisa. Mi riferisco proprio al problema dell’accumulo e di quanto erano sostanzialmente stupidi nel non voler acquisire ricchezze. Non si rendevano conto che i topi della corsa al profitto erano proprio loro e che i liberi (purtroppo sfruttati per un un quasi nulla) erano i congolesi. So anche perchè la mia candidatura non è andata avanti… nel corso della telefonata aperta (a viva voce) iniziai a parlare di un noto medico della giungla e questo direttore della pip ..  cadde nelle fauci del coccodrillo. Non sapeva chi fosse quel dottore… e mi chiedeva perché amassi l’Africa!
Ok comprendo che i quaccheri siano mosche bianche ma forse certi selezionatori sono proprio limitati. Ma in che mondo vivono?

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La Verità buddista in noi

Sta proseguendo con celerità italiana l’iter parlamentare dei sei disegni di legge (ddl) che danno esecuzione alle Intese tra lo Stato italiano e altrettante confessioni religiose: ortodossi, mormoni, apostolici, buddisti, induisti, e testimoni di Geova. Le Intese (previste dal III comma dell’art. 8 della Costituzione) erano già state stipulate nel 2007 ma ancora se ne attendeva la ratifica da parte del Parlamento. Come cristiani ci sentiamo fortemente impegnati nel riconoscimento delle confessioni orientali, non solo cristiane, che ci donano un apporto così ricco e vitale di spiritualità. Che Roma. Ginevra e Wittemberg forse non sono più in grado di esercitare. Non si tratta esattamente di rifiuto dell’eurocentrismo religioso ma di dinamiche di interscambio che ci arricchiscono enormemente. Ci consentono di riscoprire le “ragioni” anche della nostra fede.

Eccone un esempio pratico che cattolici e protestanti sottovalutano, pensando magari di dover dare retta alle “papesse” o ai papi di turno.  Che importanza fa se si chiamano Maffei, Bonafede o Ratzinger?

Io lo ho sperimentato recentemente l’esperienza qui sotto descritta quando dei folli d’amore violento,  che ancora devono essere individuati dagli organi della Magistratura,  hanno lanciato molotov contro la mia auto e mi sono ritrovato in un batter d’occhio solo con le mie gambe. Che sono diventate anche la mia auto.

Riflettiamoci  in queste ore di riposo e grazie anche a Davide Puglisi.

Di Buddhadasa Bhikkhu,

Traduzione di Alessandro Selli.
Adesso vorrei dire qualcosa su un insegnamento del Cristianesimo per il quale i cristiani stessi non hanno interesse. È un passo del Nuovo Testamento, dall’ Epistola ai Corinti, nel quale Paolo di Tarso riassume l’intero insegnamento di Gesù. È un breve passo che contiene un’esortazione al popolo di Corinto: Se hai moglie, pensa come se non avessi moglie. Se possiedi ricchezze, pensa come se non avessi alcuna ricchezza. Se stai soffrendo, pensa come se non stessi soffrendo. Se sei felice, pensa come se non fossi felice. Se vai al mercato per fare i tuoi acquisti, non portare nulla a casa. [Prima epistola ai Corinti, 7, 29-30. (N.d.T.)]Qui abbiamo l’essenza dell’insegnamento del Buddha nella Bibbia: «Se hai moglie, pensa come se non avessi moglie». Paolo si rivolge agli uomini; non dice esplicitamente che una donna che ha marito dovrebbe pensare come se non avesse marito, ma si intende che l’affermazione vale sia per la moglie che per il marito. Il significato è: «Non nutrire acquisività, attaccamento; non identificatevi con il “mio”». Se possedete ricchezze, non siatevi attaccati, pensando ad esse come alle vostre ricchezze; pensate di non averne in realtà. Se sorge una sofferenza, prendetela per quale è, e se ne andrà. Non pensate ad essa in termini di sofferenza vostra. Se avete un motivo di felicità, non consideratelo il vostro motivo di felicità. Se andate a fare acquisti al mercato, non riportate niente a casa. Questo vuol dire: portando i nostri acquisti a casa dal mercato, la nostra mente non li identifica come «nostri». In questo senso non riportiamo nulla a casa. Questo è un insegnamento cristiano, l’essenza del Cristianesimo. Una volta ho chiesto a un cristiano, una persona di elevata condizione sociale, un insegnante, in che modo avesse inteso il passo che abbiamo citato. Inizialmente non sapeva che dire, poi mi ha risposto: «Non gli ho mai prestato interesse». Non aveva mai avuto alcun interesse per questo passo della Bibbia perché lo riteneva senza importanza. Aveva prestato grande interesse alla questione della fede, eccetera, ma nessun interesse a questa questione, che è la più importante di tutte. Ogni religione degna di questo nome tende fondamentalmente a insegnare a essere liberi dall’autoriferimento. In ogni religione c’è l’importante insegnamento della libertà dal sé e dalla preoccupazione per il sé. I fedeli però non hanno interesse per questo insegnamento. Sono come noi buddhisti, che non prestiamo interesse alla dottrina della suññata e dell’anatta, la dottrina che caratterizza il buddhismo.

Aggiungiamo solo che dobbiamo anche domandarci autocriticamente come cristiani come mai le comunità cristiane “entusiaste” in quelle terre sia scomparse dopo non molto tempo. Lo Spirito va dove vuole e anche le comunità c.d. carismatiche sono soggette a questa libertà di Dio, che poco bada alle teatralità e all’appariscenza sfrenata del culto e dell’autosuggestione religiosa. Non è quello che ci rende veramente liberi. Ossia suoi Amici. I buddisti hanno molto da trasmetterci in questi tempi in cui imperversano sette e gruppi estremisti di varie matrici.

 

Rosita Forestiere: Grazie Maurizio per questo messaggio, l’ho trovato davvero illuminante. Io rispondo dicendo: Vorrei approfondirlo parlando del rabbi Gesù che era verosimilmente sposato… non poteva essere altrimenti un rabbi. E come testo non porto l’apocrifo del vangelo di Maria, dove lui bacia Maria Maddalena… Aveva ben incarnato proprio questa idea dell’amore non possesso. Il fatto che non sia espressamente detto del suo matrimonio rientra in questa logica: era già chiamato rabbi. Non c’era bisogno di spiegare nulla ai contemporanei di allora. Era tutto scontato.

Il suo celibato, trattandosi di una situazione non comune fra gli ebrei, avrebbe dovuto essere menzionato e spiegato. Il che non è avvenuto. Non era un dettaglio insignificante. Anzi centrale per comprendere la sua ebraicità e il suo inserirsi nelle attese messianiche proprie del mondo ebraico dell’epoca.

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Ancora da Davide…

Davide cos’è il socialismo Dhammico?
Di Santikaro.
Dhammico:
Qualsiasi cosa, per esisitere in questo mondo naturale si deve armonizzare con il Dhamma, seguire la legge della Natura.
” Tutto ciò che è in armonia, conforme alla legge di natura, e serve la legge di natura è “Dhammico”.
Essere in armonia con il Dhamma significa essere non-violenti, altruisti, compassionevoli, consapevoli e pacifici .
Ajarn Buddhadasa riassume tutto ciò in due parole: “pacifico ” e “utile”.
Essere “pacifico” significa non fare nulla di male, abusare, o opprimere nessuno, sia gli altri che se stessi. Tale pace richiede un cuore-mente libero da egoismo.
Essere “utile” significa aiutare nella lotta per la vera e propria liberazione dalla sofferenza, non importa a che livello o in che contesto di vita. Il vero Dhamma non conosce la dualità “personale e sociale” o “mondo-spirituale”.
Socialismo:
Non credere che il socialismo è morto!
Questo è solo la propaganda degli irriducibili capitalisti neo-conservatori.
Il vero socialismo non è mai stato provato su larga scala.
Il socialismo è la prospettiva e l’orientamento che considera il bene della società nel suo complesso come centrale, piuttosto che il bene personale, individualista.
Così, il socialismo è l’opposto dell’ individualismo con cui siamo irretiti oggi.
Per i buddhisti impegnati, il socialismo deve essere radicato nel Dhamma.
Così, si parla di ” socialismo dhammico”.
Non si tratta di quella mostruosità dello stalinismo dittatoriale.
Il socialismo Dhammico non è servile conformismo, in quanto rispetta e nutre gli individui. Tuttavia, lo scopo della vita dell’individuo non può essere solo il proprio piacere di successo.
Nel socialismo dhammico, lo scopo e il significato della vita dell’individuo va al di là del nostro piccolo “io” e si ritrova nella società, nella natura, e nel Dhamma.
Perché il socialismo dhammico?
Ajarn Buddhadasa ha chiamato la sua visione della società nibbanica, “socialismo dhammico”.
Per lui, il socialismo Dhammico è l’espressione di due fatti fondamentali: Uno di questi è che noi siamo inevitabilmente e ineluttabilmente esseri sociali che devono vivere insieme in una forma di società che dà la priorità all’ interrelazione, alla cooperazione, ed all’ aiuto vicendevole, per risolvere il problema del dukkha.
Pertanto, il principio della giusta relazione o giusta inter-parentela è il cuore di una tale società.
Tan Ajarn concepì questa forma di società come essere il vero significato del socialismo, che può differire dalla comprensione di scienziati e politici marxisti.
Tan Ajarn amava utilizzare certe parole a modo suo e noi lo fraintendiamo se non ci rendiamo conto di questo. Sangkom-niyom, la parola thailandese per socialismo, letteralmente significa “preferenza per la società”, o “a favore della società”, piuttosto che favore dei singoli (cioè l’individualismo), come è stato spesso il caso in Occidente o nella società capitalista e del consumismo.
Il suo socialismo si radica nel fatto che noi dobbiamo vivere insieme, e quindi per sopravvivere si deve dare importanza alle strutture e ai meccanismi della società che ci permetteranno di farlo nelle maniere più idonee.
Siamo tutti responsabili per la promozione, e la cura di questi mezzi.
Questo è il nostro modo di comprendere il socialismo.
Il secondo fatto è che il socialismo può andare storto.
Ci sono stati diversi approcci al socialismo, e alcuni sono stati incorretti, hanno assunto forme autoritarie, violente e corrotte. Ajarn Buddhadasa insiste sul fatto che il socialismo deve essere modificato dal Dhamma per tenerlo onesto, morale, e non violento.
Così, si parla di socialismo Dhammico. Non vogliamo un socialismo che è principalmente materialistico o economico. Egli non sposa l’idea di un socialismo basato sul conflitto di classe o sulla vendetta.
Piuttosto, crediamo in quel socialismo che è in armonia con il Dhamma.
Per essere in armonia con il Dhamma significa che esso si deve basare sulla realizzazione dell’ interdipendenza umana.
In altre parole, il nostro socialismo deve essere morale, radicato nel siladhamma (moralità, normalità). Il Siladhamma consiste in relazioni e attività che non opprimono o si approfittano di nessuno, incluso se stessi, e che sono volte al reciproco beneficio, di noi stessi, degli altri, e dell collettivo.
Come abbiamo visto in precedenza, l’oppressione sociale è radicata nella personale e strutturale presenza dei kilesa, che è l’egoismo.
L’eliminazione di questo egoismo è il compito del siladhamma, della religione, e del socialismo dhammico.
Se il nostro socialismo può andare oltre il livello morale e realizzare una società in cui tutti sono liberi non solo da un comportamento egoista, ma anche da un attitudine egoistica non deve essere discusso in questa sede.
Credo che sia sufficiente per ora concentrarsi sullo sviluppo di una società in cui il comportamento egoistico è ridotto al minimo.
Tuttavia, come si discuterà in seguito, l’importanza deve essere data ad una più profonda moralità che minimizzi l’egoismo e ad una spiritualità che elimina l’egoismo, se le persone vogliono imparare a controllare e trasformare il loro comportamento per il bene della società Dhammica.
La gente richiede una visione che mostra come vera la felicità sta nel socialismo dhammico e in una società nibbanica, piuttosto che nell’ egoismo, nel consumismo, nel materialismo, e simili.
da ” quali Possibilità per il socialismo dhammico”, di Santikaro Bhikkhu
tradotto in proprio.

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Da Davide Puglisi: Il socialismo buddista

Estraggo alcuni spunti interessanti dal saggio di Buddhadasa intitolato ‘Socialismo Dhammico’ tutte le tradizione spirituali hanno uno sfondo socialista; non sono democrazie individualistiche in cui tutti agiscono a proprio piacere. I fondatori (sasada) delle religioni vogliono che gli uomini vivano nel rispetto dei principi sociali e operino nell’ interesse della società. Ogni volte che il vantaggio personale viene anteposto al bene comune, si fanno avanti gli inquinanti mentali e si cade sotto il dominio degli appetiti individuali. Sopratutto il Buddhismo si può definire una tradizione sapienziale socialista. Una buona definizione del vero socialismo è il principio di non prendere di più di quanto serva, in modo che restino beni da ripartire tra i bisogni di tutti. Tanto nei discorsi del Buddha che nelle regole monastiche viene detto che un monaco deve limitarsi ai bisogni primari. facciamo un esempio: un monaco ha diritto a tre soli abiti. Più di tre è considerata una violazione della disciplina. Se entra in possesso di abiti in sovrannumero, il monaco è tenuto a farne dono al Sangha, la comunità dei monaci…. tali regole servono a garantire che il monaco non disponga di cose che eccedono i bisogni, di modo che tutti i membri della comunità ne siano ugualmente forniti. Una ciotola di cibo deve bastare. Chi ne riceva in misura maggiore, deve ripartirlo con la comunità… * * * I problemi che dobbiamo affrontare sono prodotti dall’aggregazione sociale. Nell’età della pietra, quando gli individui vivevano isolati o in piccoli gruppi, non esistevano. I problemi sociali sorsero con l’aumento della popolazione e la progressiva aggregazione in gruppi sempre più numerosi. Crescendo e sviluppandosi i gruppi in una dinamica di oppressione reciproca, i problemi hanno assunto proporzioni drammatiche. Poiché si tratta di problemi indotti da un contesto sociale, e non solo individuale, dobbiamo prendere in considerazione la causa: la società. qualunque sia il sistema a base del funzionamento del gruppo, deve richiamarsi a principi che vogliano il bene della comunità, non il vantaggio di un individuo o di pochi. Se l’interesse personale viene preposto a quello comune, i problemi non si possono risolvere. Lo spirito del Socialismo è la realtà naturale (dhamma jati), Il fine del socialismo è seguire la via della natura. limitando la proprietà ai reali bisogni viviamo in armonia con le leggi di natura, che ne siamo consapevoli o no…. Secondo i testi buddhisti, i problemi sorsero nel momento in cui qualcuno ebbe l’idea di accumulare scorte, causando di conseguenza scarsità agli altri. con la tesaurizzazione dei beni, nacque il problema della diseguaglianza nella distribuzione e nell’accesso ai beni. Col tempo i problema si aggravò. I capi detenevano l’accesso alle scorte del gruppo. Le lotte divennero inevitabili. La tesaurizzazione del surplus era già iniziata quando l’uomo primitivo abitava le foreste, e proprio per limitarne gli abusi vennero sviluppati i sistemi morali.. ( TRATTO DA: IO E MIO, UBALDINI EDITORE)

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Tutto il meglio

Abbiamo mangiato insieme delle specialità siciliane e bevuto una birra, ci siamo scambiati alcuni consigli sulle migliori letture buddiste, abbiamo ironizzato sugli italiani in perenne attesa di miracoli (buddisti o cristiani che siano) o sulla fede superficiale della recita a ripetizione dei “mantra “: ne è nata un amicizia ed  un’intervista. E’ questa che proponiamo oggi, chiedendo di citare la fonte www.ecumenici.eu in caso di diffusione della stessa.
Essendo “quasi” vicini di casa e per molti aspetti del pensiero, non possiamo escludere di progettare nel futuro iniziative in comune. Di persone fuore dall’ordinario – del resto – non ne capitano proprio tutti i giorni… La dottoressa Aloi di Milano ci ha gia’ invitato in queste ore a fruire dei locali delle Officine della Psiche in pieno centro della metropoli.
Un rilievo a Davide? Spero solo di far  comprendere all’amico caro che qualsiasi confessione religiosa deve essere una cosa distinta dallo Stato, che i seguaci di un credo non possono fare la carita’ con i soldi degli altri (anche quelli dei non credenti, tanto per essere chiari). Il fatto che lo facciano  cristiani ed ebrei non e’ proprio una buona ragione per rinunciare alla liberta’ religiosa, alla separazione fra Stato e religioni e in ultima analisi al nostro essere credibili nelle idee che professiamo e soprattutto nelle azioni conseguenti.
L’amicizia e’ bella perche’ possiamo dirci liberamente anche quello che non ci accomuna, senza perdere mai la consapevolezza delle ragioni profonde che ci uniscono. Grazie Davide dell’intervista: e’ un prezioso dono formativo che non dimenticheremo.

 
Buongiorno Davide Puglisi ti autopresenti ai nostri lettori e lettrici?
Beh, che dire su di me, sono una normalissima persona sui trenta anni, con interessi del tutto normali, a cui si aggiunge l’interesse per la pratica interiore e l’impegno sociale. Vedo questi due aspetti della mia vita come le due facce di una stessa medaglia..
 
Abbiamo invitato diversi buddisti sulle nostre pagine ma non amano molto scrivere a quanto pare. Tu sei un’eccezione?
Molti Buddhisti nostrani sono spesso molto presi dalle loro vicissitudini, dal loro piccolo e rassicurante mondo fatto di incontri settimanali presso il centro buddhista a cui sono affiliati, lezioni, ritiri e rituali, e magari poco inclini ad un discorso di compartecipazione e di “pratica aperta” ovvero di impegno sociale e dialogo vero. A mio avviso c’è troppa chiusura nel mondo buddhista. Non parlo di singole persone, ma del movimento buddhista italiano nel suo insieme.
Per quanto riguarda l’impegno sociale,I buddhisti organizzati dovrebbero imparare da altri gruppi religiosi o spirituali, molto attivi in certe battaglie per i diritti civili.
 
 
Ci descrivi il tuo percorso di ricerca spirituale e di approfondimento nella vita? Non c’è solo il Dalai Lama mi pare di aver capito, anzi…
Il mio percorso all’interno del Buddhismo è iniziato quando avevo 13 anni. Incontrai l’insegnamento del Buddha in un libro scolastico, e fu un colpo di Fulmine! Da allora ho incominciato ad appassionarmi sempre di più a questa forma di pratica spirituale, studiando in varie tradizioni, tra cui quella tibetana. Crescendo mi sono accorto che la forma di pratica più adatta alla mia sensibilità era quella del Buddhismo Theravada, in particolar modo nel segmento riformato e socialmente impegnato del Buddhismo Theravada Thailandese.
 
 
La questione tibetana in che luce dobbiamo inquadrarla a tuo avviso?
Bella domanda…ci sono a mio avviso due approcci correnti: Il primo è quello dei sostenitori del governo tibetano in esilio, caratterizzato da un sentimento anti cinese molto marcato e da una conoscenza della storia politica del Tibet e della Cina molto superficiale.
In genere costoro non approfondiscono tali aspetti storici, e non prendono minimamente in considerazione ( o forse alcuni fanno finta di non sapere??) la storia del Tibet, che di fatto era una teocrazia basata su un sistema di tipo feudale in cui venivano  praticate la schiavitù, il concubinaggio, e la tortura, solo per citare alcuni degli aspetti peggiori.
A mio avviso, è una modalità basata sull’ingenuità e molto idealista. Poi c’è il governo Cinese con la sua propaganda, che tenta di far apparire la situazione tibetana come idilliaca, omettendo molte cose poco onorevoli da loro commesse in quel territorio negli ultimi 50 anni.
Forse come diceva il Buddha, la verità la si trova trascendendo gli opposti estremi..
Penso che si debba studiare la storia e l’attualità del Tibet e della Cina in maniera più approfondita e senza pregiudizi di sorta, e sviluppare una propria comprensione di questa complicata questione politica.
 
 
Il buddismo non è affatto aperto nei confronti dell’omosessualità: il discorso “contro natura” sembra attecchire nei pensieri di molti dei vostri. Ma la natura per voi non è un concerto polifonico? Una varietà di differenze da valorizzare?
Nell’etica Buddhista l’omosessualità non è di per se un fenomeno negativo, non più di quanto lo sia l’eterosessualità.
Dipende sempre dall’attitudine, dall’intenzione, e dal modo in cui le cose vengono fatte.
L’etica naturale del Buddhismo o Sila Dhamma concepisce come “akusala” o malsane quelle azioni che hanno come risultato la sofferenza per l’agente e per il recipiente. Quest’ etica si basa sulla comprensione della legge delle azioni e dei loro risultati ( karma), e non sull’imposizione dall’alto di una norma morale a cui sottostare.
Sulla base di queste considerazioni possiamo asserire che per quanto riguarda il Buddhismo delle origini, la sessualità, (inclusa quindi l’omosessualità) in sé non rappresenta un problema di ordine etico, ma può diventarlo, se vissuta in maniera inconsapevole, egoica, e non etica.
Più che il buddhismo, inteso come movimento culturale, sono forse certi buddhisti ad essere chiusi nei riguardi dell’omosessualità, ma la loro chiusura nei confronti dell’ omosessualità può dipendere da fattori culturali ed ambientali esterni all’ambito buddhista.
Il buddhismo non supporta alcun tipo di discriminazione,razziale, sociale o di genere.
 
Cosa è il buddismo sociale nella pratica e chi lo attua? Tu personalmente come ti impegni?
Il buddhismo sociale o sanghama niyama Dhammika in lingua pali, è l’applicazione dell’insegnamento del Buddha per la risoluzione radicale dei problemi sociali; E’ radicale perché va alla radice delle cause dei problemi della società umana, (i conflitti tra nazioni, tra persone, ma anche lo sfruttamento delle persone tramite il lavoro salariato, la distruzione sistematica dell’ambiente, la discriminazione di genere, il razzismo) che il Buddha indica negli inquinanti interiori: L’ignoranza, l’avversione, il desiderio illusorio, l’egoismo, la paura, etc, elementi che stanno alla base di molte delle nostre azioni e scelte quotidiane. Negli antichi discorsi del canone buddhista, questa questione è trattata in maniera molto dettagliata.
In quei discorsi, Il Buddha offre un analisi molto dettagliata di quello che è il processo di co produzione dipendete del conflitto sociale, mostrando al contempo una soluzione, una “road map” per poter sviluppare una società più armoniosa ed equilibrata.E’ un discorso interessante, ma poco conosciuto in occidente.
 
 
Come vanno gli affari di cuore? Come si corona il sogno d’amore nella tua comunità?
Gli affari di cuore? hanno alti e bassi, come tutte le cose della vita!
La cosa importante è come prima cosa imparare ad accettare se stessi, ad amare noi stessi, a perdonarsi e volersi bene, a prescindere dagli altri.
Per il buddhismo, far dipendere la propria felicità da qualcosa di instabile ed incontrollabile come i sentimenti di un’altra persona, ancorché sinceri e puri è un atteggiamento pericoloso, e penso che tutti noi abbiamo una certa esperienza in tal senso…
 
 
Esiste un buddismo senza tempio e senza monaci?
Per il praticante, Il proprio corpo e la propria mente-cuore sono il tempio, il luogo della contemplazione. Per il buddhismo antico, per monaci (samana) si intende quelle persone che decidono di dedicare la propria vita alla ricerca interiore a beneficio di tutti gli esseri; I monaci e le monache non sono quindi ministri di culto, né figure mediatrici con un divino al di fuori di noi, anche se in tutti i paesi dove il Buddhismo è arrivato, l’ordine monastico alla fine si è trasformato in un qualcosa di molto simile al clero della chiesa cattolica.
Anche le ragioni sono abbastanza simili: una pericolosa commistione di potere politico e religione, che alla fine ha finito per snaturare l’idea originaria di comunità spirituale disegnata dal Buddha. A questo proposito ritengo preziosa  l’opera dei  riformatori come il monaco Thailandese Ajahn Buddhadasa, o Ajahn Chah nel tentare di riformare l’organizzazione monastica, ritornando  alla semplicità e purezza  tipiche del primo buddhismo.
I luoghi di studio e pratica, i monasteri, hanno la loro importanza, sono luoghi deputati alla coltivazione della consapevolezza, luoghi dove i laici si recano per poter trarre ispirazione per la propria pratica quotidiana, grazie al contatto con i monaci e le monache, i coltivatori del Dharma, la via indicata dal Buddha.
Non vanno quindi presi come luoghi per scappare, o per anestetizzare quei sintomi di disagio che invece necessitano di essere osservati con quello che giustamente qualcuno definiva L’oppio dei popoli. In ultima analisi dipende sempre da noi, dallo spirito con il quale ci avviciniamo alle cose.
 
 
Perché l’UBI ha chiesto di accedere ai fondi otto per mille? Lo trovi personalmente giusto?
L’UBI, iniziò la trattativa per il riconoscimento del buddhismo da parte dello stato italiano ormai più  di venti anni fa.
All’epoca, la guida carismatica dell’UBI era Vincenzo Piga, un Ex europarlamentare socialista e persona di grande esperienza politica. Le ragioni di tale richiesta erano essenzialmente quelle di voler estendere i diritti costituzionali in materia di culto e associazione anche ai cittadini italiani seguaci del Buddhismo.
Oggigiorno, i buddhisti, come altre minoranze religiose del nostro paese sono di fatto discriminati, a causa del mancato riconoscimento legale da parte dello stato. Penso che se altri gruppi religiosi  possono usufruire dell’otto per mille, anche i Buddhisti debbano avere  la stessa possibilità di finanziare le proprie attività tramite questo sistema.
Per me, si tratta di una questione di pari dignità e di eguaglianza fra tutti i cittadini, come sancito dalla costituzione repubblicana nata dalla resistenza al totalitarismo fascista, che di fatto poneva il Buddhismo ed altre minoranze religiose in una condizione di inferiorità giuridica rispetto alla religione di stato.
Detto questo, se potessi preferirei devolvere il mio otto per mille ai disoccupati, o a sostegno dei lavoratori precari che non hanno una continuità di reddito, o magari a chi, come L’associazione Libera di Don Luigi Ciotti, si batte concretamente per combattere la criminalità organizzata attraverso forme di antimafia sociale.
 
 

Mi pare che l’UBI non sia tra l’altro l’unico interlocutore buddista dello Stato italiano, è vero e perché?
E’ vero, parallelamente all’iter burocratico iniziato dall’ UBI, anche l’associazione buddista italiana Soka Gakkai ha intrapreso un percorso per il riconoscimento del proprio stato giuridico da parte dello stato italiano.
La Soka Gakkai Italiana non aderisce all’UBI in quanto non si riconosce in alcuni elementi fondanti espressi nello statuto dell’UBI, che sancisce pari dignità a tutte le scuole buddhiste senza distinzioni, e che riconosce come entità suprema la figura del Buddha Storico o Gautama Buddha, mentre la SGI riconosce come entità suprema il monaco Nichiren Daishonin, fondatore dell’omonimo movimento (la scuola Nichiren) di cui la Soka Gakkai è una delle tante ramificazioni.
 
 

Il miracolismo ricercato dagli italiani nelle vostre adunanze non ti disturba?
Certamente che il miracolismo di disturba, vuoi perché sono una persona razionale e tendenzialmente scettica nei confronti di certe manifestazioni folkoristiche di religiosità miste a superstizione, vuoi anche per il fatto che mi riconosco nell’insegnamento originario del Buddha storico, che era fermamente contrario a questo tipo di cose.
In molti passaggi del Canone Buddhista il Buddha afferma chiaramente l’inefficacia e l’inutilità delle credenze non verificate, del ritualismo, dei sacrifici fatti agli dei per ottenere favori mondani, delle cerimonie religiose atte a conseguire poteri miracolosi, in quanto il fine ultimo del Buddhismo è l’ottenimento della liberazione dal condizionamento degli inquinanti mentali, la causa profonda della sofferenza esistenziale. D’altro canto, dobbiamo cercare di capire il background culturale ed anche psicologico dell’italiano medio che si avvicina al Buddhismo, la sua storia personale ed umana, al fine di comprendere le ragioni di così tanto interesse nei riguardi di certi aspetti tipici delle culture asiatiche che stanno filtrando in occidente assieme al più genuino insegnamento buddhista.
 
 
Quali miti o leggende vuoi sfatare che riguardano i seguaci del Buddha? Che messaggio spirituale intendi invece lasciarci?
Il Buddhismo è ancora una novità in occidente, e come tale è soggetto a moltissimi fraintendimenti e mistificazioni. Forse una leggenda che vorrei collaborare a sfatare è quella che vede tutti i buddhisti, specie quelli agghindati con abiti dal sapore esotico, indistintamente come puri e santi e al contempo come persone indifferenti a ciò che succede nel mondo.
E’ un grosso fraintendimento, perché in realtà i Buddhisti, monaci e laici sono persone come tutti gli altri, nonostante lo sforzo che mettono nel praticare la consapevolezza e gli altri aspetti del sentiero spirituale buddhista.
Il messaggio che vorrei condividere con gli amici ed i lettori di Ecumenici è quello che sta alla base del sentiero Buddhista, ovvero di cercare di rendere significativa la nostra preziosa vita umana, di non sprecarla nell’ inconsapevolezza e nella chiusura mentale.
Questa preziosa vita umana è più grande ricchezza che abbiamo, ma diminuisce costantemente, che ci piaccia o meno.
Dobbiamo quindi essere premurosi e solleciti nell’ utilizzare questa vita al meglio, cercando di non sprecarne neanche un attimo, investendola in attività che siano di reale beneficio per noi stessi e per gli altri.
La pratica Buddhista è serve a questo scopo, ad ottimizzare al massimo in nostro capitale umano, trasformandolo in ricchezza per noi stessi e per gli altri esseri viventi.
Tutto il meglio.

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Una panoramica diversa sul buddismo, dalla Svizzera

17 febbraio 2010

Il buddismo è la più amata tra le religioni non cristiane in Svizzera

(Sabine Schüpbach) Molte persone, in Svizzera, sono incuriosite e attirate dal buddismo. Alcune possiedono solo una statuina del Budda, appoggiata sullo scaffale, come un soprammobile. Altre si dedicano invece allo studio della filosofia e della spiritualità buddiste, praticano esercizi di meditazione, si interessano di Zen, frequentano centri o gruppi buddisti.
“Il buddismo è la religione noncristiana più amata in Svizzera”, dice Georg Schmid, collaboratore del Centro di documentazione “Kirchen-Sekten-Religionen”. Schmid ritiene tuttavia che molte persone abbiano “un’immagine sbagliata” del buddismo. “Vedono solo la dottrina e la prassi meditativa”, osserva. Il buddismo della gente comune, nei paesi asiatici, è una cosa diversa, in cui confluiscono credenze negli spiriti e culto degli antenati.
Capita così che il buddismo degli svizzeri e quello degli immigrati – provenienti ad esempio dalla Thailandia o dal Tibet – siano profondamente diversi. Schmid dice che spesso gli immigrati rimangono a bocca aperta di fronte alle conoscenze teoriche degli adepti svizzeri del buddismo.

Siddharta in Occidente
Ma come ha fatto il buddismo ad arrivare in Occidente? Tra i pionieri si annovera il filosofo Arthur Schopenhauer (1788-1860), il quale trovò nel buddismo una conferma delle sue intuizioni. Nella seconda metà del Novecento molti intellettuali tedeschi si interessarono di filosofia e spiritualità buddista. Testi buddisti furono tradotti nelle lingue occidentali e molti temi e motivi di ispirazione buddista furono accolti nella letteratura occidentale. L’esempio forse più celebre è il romanzo “Siddharta”, di Hermann Hesse, del 1922. E infine molti giovani europei e americani compirono, negli anni Sessanta, dei viaggi di ricerca spirituale in India, dai quali riportarono impressioni e suggestioni.
Georg Schmid dice di comprendere il fascino esercitato dal buddismo su parecchie persone. Il pastore e docente, ora in pensione, dice addirittura che farebbe della filosofia buddista la propria religione, se non ci fosse il cristianesimo. A differenza della fede cristiana, la filosofia cosiddetta theravada non conosce un Dio, spiega Schmid. Il traguardo più alto è quello di raggiungere il nirvana, che corrisponde all’eliminazione di ogni sentimento di odio, di accecamento, di brama e quindi con il venire meno di quelle forze che determinano il ciclo senza fine delle nascite, morti e reincarnazioni. “E la prospettiva di avere una fede che non conosce nessuna relazione con un Dio personale”, dice Schmid, “è per alcune persone, in Occidente, molto allettante”.
Schmid critica tuttavia decisamente il fatto che molti svizzeri abbiano una visione “ingenua” del buddismo. L’idea che il buddismo non conosca violenza, ad esempio, è del tutto sbagliata. Schmid ricorda gli avvenimenti in Sri Lanka: “Nella lunga storia dei conflitti tra cingalesi e tamil, i monaci buddisti sono intervenuti, a tratti, con inaudita ferocia”.

Buddismo egoista?
Il noto ricercatore Michael von Brück ritiene che il buddismo stia entrando “in una nuova fase della sua storia”. I buddisti in Occidente starebbero dando un nuovo aspetto al buddismo. In Occidente, ad esempio, sono i laici a studiare la filosofia buddista, mentre tradizionalmente, in Oriente, questo è un esercizio affidato ai monaci. Inoltre, i buddisti occidentali ritengono importante l’impegno sociale ed ecologico: anche in questo campo, la cultura cristiana occidentale, con i suoi ideali umanitari, influenza il buddismo.
E il Budda appoggiato sugli scaffali, come un soprammobile? Franz-Johannes Litsch sostiene che il buddismo non debba essere in nessun modo trasformato in oggetto di consumo, cedendo “alle mode occidentali”. Al contrario, sostiene, la disciplina buddista della coscienza deve spingere l’uomo e la donna occidentali a riflettere criticamente sulla cultura

(voce evangelica.ch)

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Qualcosa sta cambiando nel buddismo

L’amico buddista Davide Puglisi ha ripreso questo articolo che diffondiamo oggi nel forum dei buddisti italiani : leggeremo presto le reazioni dei diretti interessati. La sua personale idea è una condivisione di massima del contenuto, sia pur nell’ amarezza. Riporteremo in ogni caso anche altre posizioni sull’argomento se ci perverranno.

Ci piacerebbe leggere da Davide anche dei molti lati nascosti del mondo buddista che i più ignorano: il nazionalismo estremista reazionario tibetano,  le correnti miracolistiche degli italiani o peggio quelle fondamentaliste presenti in molte aree calde del globo. La lotta senza esclusioni di colpi fra le correnti interne e molto altro ancora. Lui riesce a parlare di questo in quanto ha raggiunto una maturità intellettuale ed esperienziale di grande spessore. Un patrimonio che non potrà non arricchirci

Centri di yoga e di meditazione buddhista, scuole di tai chi, monasteri tibetani e templi induisti, sparsi per le nostre città e le nostre colline, frequentati non solo da immigrati ma prima ancora da tanti italiani che hanno trovato nelle antiche tradizioni dell’Asia una nuova via di ricerca religiosa, un sostituto della fede cristiana, giudicata inadeguata o insufficiente di fronte alle ansie spirituali della nostra epoca… Come tutti sanno, negli anni Ottanta e Novanta del secolo appena trascorso le tradizioni spirituali dell’Oriente si sono propagate tra noi con grande rapidità: eppure in questi ultimi anni qualcosa sembra cambiare…
Giampiero Comolli

(riforma.it) Centri di yoga e di meditazione buddhista, scuole di tai chi, monasteri tibetani e templi induisti, sparsi per le nostre città e le nostre colline, frequentati non solo da immigrati ma prima ancora da tanti italiani che hanno trovato nelle antiche tradizioni dell’Asia una nuova via di ricerca religiosa, un sostituto della fede cristiana, giudicata inadeguata o insufficiente di fronte alle ansie spirituali della nostra epoca… Come tutti sanno, negli anni Ottanta e Novanta del secolo appena trascorso le tradizioni spirituali dell’Oriente si sono propagate tra noi con grande rapidità: molti europei e molti italiani le hanno accolte come un’alternativa vincente rispetto alle proposte religiose delle chiese cristiane e alle proposte culturali dell’Occidente. Sono sorti così in Europa e in Italia nuovi movimenti spirituali di ispirazione orientale. E la loro diffusione è stata talmente rapida e incisiva, da far credere, almeno ai più entusiasti, che fosse ormai imminente una nuova epoca, più pacifica, feconda e serena, proprio perché la via salvifica offerta dalla sapienza orientale sarebbe divenuta per noi cultura egemone e principale riferimento religioso.

Ma poi qualcosa deve essersi inceppato: negli ultimi anni, infatti, la grande fase espansiva della proposta orientale sembra essersi almeno in parte rallentata, la sua forza di attrazione non risulta più così preponderante, così vincente. Intendiamoci, non è che i gruppi o le scuole dove si pratica lo yoga o la meditazione zen siano in declino e in ripiegamento. Anzi, i centri di ispirazione asiatica risultano sempre più radicati nel nostro Paese come una presenza ormai stabile e feconda: tant’è che in essi sono state creativamente elaborate nuove forme di buddhismo o di induismo di tipo occidentale, adatte ai bisogni e alle aspettative degli adepti e dei praticanti nostrani. Prova di questo avvenuto radicamento è la giusta richiesta della stipula di intese con lo Stato da parte di induisti e di buddhisti italiani: richiesta a cui colpevolmente le nostre istituzioni non hanno dato ancora piena e attuativa risposta. Eppure questa fase di consolidamento dell’Oriente italiano si direbbe oggi affetta anche da una certa stasi: i numeri dei praticanti non crescono più con la velocità di una volta, il discorso intorno alle religioni orientali risulta meno presente sui media e nel dibattito pubblico; capita meno di un tempo di incontrare nomadi dello spirito di ritorno da estatici viaggi in Asia…

I segni di una crisi in atto

Tutti piccoli, non vistosi ma in ogni caso significativi segni di una crisi in atto o perlomeno di una certa stanchezza che sembra affliggere il mondo dell’Oriente italiano. Tanto che vale la pena di chiedersi il perché. Ne vale tanto più la pena se si tiene conto che alla lieve crisi della proposta orientale sembra fare riscontro, almeno in Italia, un nuovo, sia pur contenuto aumento di fiducia nei confronti delle chiese cristiane. È cresciuta infatti l’attenzione per il discorso (culturale, politico, oltre che di fede) da esse proposto, come se le chiese potessero costituire di nuovo un valido punto di riferimento di fronte alle sfide del nostro tempo. Quindici o venti anni fa non era esattamente così, se mai l’inverso: l’annuncio cristiano sembrava aver perso, almeno per i tanti che guardavano all’Asia, ogni attrattiva: veniva da loro giudicato un annuncio finito, morente, rispetto alla vitalità e alla validità della sapienza orientale. Ora invece ci troviamo di fronte a una situazione almeno in parte invertita: è l’alternativa orientale che per qualche verso non pare più così adeguata come risposta ai problemi che ci affliggono. Si tratta dunque di capirne le ragioni. Ma per capirlo occorre innanzitutto esaminare i fattori che negli anni passati hanno determinato il grande successo della proposta orientale.

È bene ricordare che già a fine Ottocento (basti pensare alla nascita della Società teosofica) gruppi di intellettuali europei individuavano nella sapienza orientale una via di salvezza per il declino dell’Occidente.

La fascinazione dell’Oriente

Ma è solo con gli ultimi decenni del secolo scorso che l’attenzione, o la fascinazione, nei confronti delle tradizioni spirituali asiatiche perde il suo carattere elitario per assumere dimensioni di massa. I nuovi movimenti spirituali che guardano a Oriente nascono infatti come ricerca di una diversa proposta salvifica e innovativa dopo la crisi delle ideologie politiche e rivoluzionarie che fino a tutti gli anni Settanta erano stati dominanti in Europa. Orfani del sogno di poter cambiare il mondo attraverso la politica, molti militanti si volgono a Oriente in cerca di una palingenesi alternativa, di una nuova rigenerazione. Ma perché proprio a Oriente? Perché il mondo occidentale – che si è rivelato immodificabile per via politica – appare loro affetto da una degenerazione rovinosa, da una crisi perniciosa, irrisolvibile sulla base delle sue sole risorse interne.

Contro un Occidente dualista e oppositivo

Fondato infatti su un paradigma dualista e oppositivo, che fa sorgere dolorose scissioni e devastanti conflitti fra mente e corpo, natura e cultura, individuo e società, razionalità e irrazionalità, l’Occidente – così si diceva allora – insegue il fine perverso di uno sfruttamento economico e di uno sviluppo tecnologico sempre più accelerati e fini a se stessi, con il risultato di creare alienazione individuale, ingiustizia sociale e devastazione ambientale. Lungi dal migliorare la società, il progresso occidentale trascina il mondo intero verso la rovina: e il futuro si profila come uno scenario apocalittico, a meno di non invertire il corso della storia. Ma in che modo? Appunto mettendosi in «pellegrinaggio» verso la via salvifica della millenaria saggezza orientale. L’O­riente, infatti, non è dualista ma monista: insegna che mente e corpo, natura e cultura, eternità e storia, umanità e divinità costituiscono un Uno, un grande Tutto, dove i conflitti – quelle contraddizioni che per l’Occidente paiono insuperabili – possono invece ricomporsi in una superiore armonia cosmica.

Se l’Occidente sostiene che non vi può essere progresso sociale senza contesa politica – col risultato di creare società sempre più repressive e conflittuali – per contro i maestri induisti, buddhisti, taoisti insegnano che la sofferenza individuale e universale può essere dissolta con la pratica non certo della contesa ma tutto all’opposto dell’unificazione. Hanno così elaborato particolari tecniche psicofisiche – la meditazione buddhista, la respirazione taoista, gli esercizi yoga… – che non solo creano pace interiore, ma diffondono pace nel mondo intorno, permettono di uscire dalle tensioni rovinose della storia per accedere a una condizione extrastorica di divina consapevolezza: una Serenità suprema e luminosa che libera dal dolore non solo i singoli praticanti, ma il mondo intero, perché fra noi e il mondo, fra noi e la natura, fra noi e il Divino, non vi è divisione, ma appunto Unità, Totalità.

Un’alternativa per gli orfani della politica

Agli orfani dell’impegno politico, quindi, l’antica saggezza orientale si presenta non solo come un’alternativa al fallimento delle ideologie movimentiste che non erano riuscite a rivoluzionare il mondo: ma appare anche come la risposta adeguata, la soluzione giusta alle nuove ansie spirituali, alle nuove inquietudini religiose sorte in concomitanza con la crisi dell’impegno politico. Proprio la perdita della speranza di poter agire politicamente per una società migliore fa nascere infatti nuovi interrogativi, di carattere spirituale o religioso, prima semplicemente ignorati: chi sono io? Perché la sofferenza? Qual è il senso ultimo della vita e della morte? L’ex-militante che si sente preso da simili ansie, il più delle volte non prende nemmeno in considerazione l’annuncio cristiano, guarda invece alle vie di salvezza offerte dall’Oriente, e lì crede di trovare la risposta alla sua ricerca di spiritualità. Non si volge verso la proposta delle chiese perché nei confronti del cristianesimo tutto ha già elaborato da tempo un giudizio irrimediabilmente negativo.

Ai suoi occhi infatti le chiese cristiane paiono centrare il loro messaggio sul senso di colpa e del peccato: chiedono pentimento e sottomissione, propongono una via religiosa che impone la mortificazione del corpo, la repressione dei desideri e della sessualità, la sottomissione dell’anima: «Tu sei già angosciato per i fatti tuoi, e la Chiesa, invece di aiutarti a esprimere i tuoi desideri, a liberare le tue potenzialità, ti dice che devi soffrire ancora di più e fare penitenza per i tuoi peccati…». Non solo: il cristianesimo pretende anche una «fede cieca»: chiede infatti di credere a qualche cosa che non si vede, che non si può provare: l’esistenza di Dio, la risurrezione nell’aldilà… Propone di conseguenza una speranza vaga e astratta, rimandata a un futuro indimostrabile. Per contro la saggezza orientale non esige la fede, non chiede di credere: offre la possibilità di sperimentare qui e ora un rasserenamento e un’illuminazione che cominciano subito, i cui effetti benefici si possono avvertire già nell’immediato, grazie a una serie di esercizi concreti (la meditazione, la respirazione, lo yoga…) che apportano al tempo stesso miglioramento fisico e consapevolezza spirituale.

È proprio questa unificazione fra pratiche corporee e pratiche mentali quella che permette all’adepto di percepire fin dal primo momento una trasformazione positiva del proprio Sé, una palingenesi, che comincia con un lento dissolversi delle tensioni interiori, per poi dischiudere, al limite ultimo, le porte dell’Illuminazione suprema: quel Risveglio definitivo che permette l’identificazione beatifica con il Tutto, il raggiungimento di una Consapevolezza totale, di una Pace assoluta e incondizionata.

Le ragioni del successo della proposta orientale

Proprio questa impostazione pratica e unificante – basata sull’insegnamento di una tecnica psicofisica che apporta benessere al tempo stesso corporeo e spirituale, senza bisogno di una confessione di fede – costituisce il punto di forza vincente, la causa prima che ha determinato il rapido il diffondersi delle tradizioni orientali nel nostro Paese. Tale punto di forza non è venuto meno fino a oggi, e su di esso si basa il radicamento, il consolidamento dei gruppi di ispirazione orientale, rinvigoriti anche dalla presenza di nuovi, più giovani praticanti, che per questioni anagrafiche non hanno vissuto la crisi del movimentismo politico. Ai delusi dell’impegno rivoluzionario, infatti, si è aggiunta negli anni successivi una nuova leva di adepti: persone che – senza più il sogno di voler cambiare il mondo – avvertono su di sé tutto il disagio, il peso di una società, come la nostra, la quale pretende dagli individui prestazioni efficienti (sul piano sociale, lavorativo, sessuale…) in un contesto di diffusa competizione e generalizzata conflittualità. Chi non riesce ad accettare le regole di questa contesa perenne – che esige molto dai singoli e che emargina i perdenti – comincia a soffrire, fisicamente, mentalmente e spiritualmente. Avverte un disagio crescente e almeno apparentemente irrisolvibile, che lo spinge a chiedersi dove mai stia andando la propria vita, che senso abbia tutto ciò per lui.

Ed ecco che le pratiche dello yoga o della meditazione buddhista offrono un’inaspettata via d’uscita a tanto disagio personale: acquietano le contratture del corpo, placano la mente, rasserenano le emozioni, donano un nuova consapevolezza spirituale, dove tutte le tensioni si dissolvono, sia pure alla lunga, nella riconciliazione di una Quiete beata e illimitata. Tali esercizi psicofisici fanno dunque accedere il praticante a un’inattesa dimensione di armonia cosmica, dove il conflitto con gli altri e con se stesso si placa, dove la propria solitudine si scioglie nell’unità del Tutto, e dove quindi trova finalmente risposta la domanda più difficile: chi sono io?

Ma se la capacità di rispondere a una domanda tanto ardua costituisce la ragione principale che spiega la persistenza e il radicamento in Occidente dei gruppi di ispirazione orientale, diventa allora inevitabile chiedersi: perché tali movimenti non hanno avuto ancora più successo? Che cosa ha rallentato il loro progressivo dilagare? Come mai oggi si avverte una sia pur contenuta perdita della loro forza attrattiva? La questione risulta talmente complessa che le ipotesi di spiegazione vanno cercate sicuramente su più piani.

La commercializzazione delle discipline orientali

La prima causa di crisi che ha colpito i gruppi di ispirazione orientale dipende proprio dal carattere specifico delle pratiche di rigenerazione al tempo stesso corporea e mentale da essi offerte. In quanto tecniche psicofisiche, infatti, tali pratiche hanno potuto facilmente, rapidamente essere assunte, copiate, manipolate e riproposte anche in ambiti che non avevano più direttamente a che fare con l’Oriente: palestre di ginnastica moderna, fitness club, alberghi termali, villaggi turistici, dove la meditazione zen e gli esercizi yoga vengono oggi insegnati insieme allo stretching, alle arti marziali, alla danza del ventre, alla ginnastica dolce… Questi nuovi centri benessere, di conseguenza, hanno tolto esclusività alle scuole di tradizione orientale, trasformando yoga, buddhismo e taoismo in un prodotto commerciale e di consumo che convive con altri metodi fisiodimanici elaborati invece in Occidente. In questo modo però le antiche dottrine dell’Asia hanno perso la loro purezza originaria, la loro dimensione più spirituale, oltre che il fascino della loro origine esotica, per ridursi a metodi di benessere utilizzabili insieme a tanti altri, contaminabili con altri metodi, da praticare e abbandonare a piacimento. Se una simile commercializzazione in chiave consumistica delle tradizioni orientali ha favorito la loro diffusione e conoscenza facendone pratiche alla moda, ha però al tempo stesso indebolito la loro identità di vie sapienziali, religiose, la loro natura di metodi difficili, esoterici, conoscibili solo attraverso l’insegnamento dei maestri più autentici, quelli che a loro volta si sono formati alla scuola di un maestro di antica tradizione.

L’inadeguata riflessione sul rapporto maestro-allievo

Proprio tale richiamo alla figura del maestro ci introduce a un secondo motivo di crisi, ancor più grave del primo. Occorre sottolineare che, appunto in quanto metodi complessi e di arduo apprendimento, le discipline orientali non possono essere praticate da soli, e nemmeno vagando a capriccio da un centro all’altro. È indispensabile ricevere l’insegnamento come un dono offerto dalle mani di un maestro, un guru, la cui funzione risulta fondamentale, imprescindibile, non solo perché conosce a fondo i segreti del metodo, ma prima ancora perché, con la sua stessa persona, ne dimostra l’efficacia. Il maestro delle tradizioni orientali, infatti, non può limitarsi a essere il bravo insegnante di una tecnica da apprendere. Se la disciplina che insegna porta alla Liberazione suprema, alla Rigenerazione totale, allora il maestro deve proporsi come immagine vivente di quella stessa liberazione: deve cioè presentarsi all’allievo ed essere da lui percepito come un liberato in vita, come un autentico illuminato, come la prova in carne e ossa che il risveglio alla Consapevolezza finale è possibile.

Il maestro come simbolo

Con la sua stessa presenza, il suo sguardo, il modo di muoversi, parlare, agire, il maestro mostra la Verità ultima sotto spoglie umane, ne diventa incarnazione e simbolo vivente. Il che però produce un effetto paradossale. Il discepolo che segue un maestro per raggiungere la Liberazione totale del proprio Sé, finisce con ciò stesso per dipendere in modo onnipervasivo dal maestro. Se vuole intraprendere il cammino verso la Liberazione, deve sottomettersi a lui, affidarsi totalmente a lui: non solo accogliere con piena fiducia il suo insegnamento ma anche offrirsi, addirittura abbandonarsi alla sua persona intera. Solo grazie a tale abbandono, il discepolo potrà alla fine liberarsi anche dal maestro stesso e divenire a propria volta un maestro, un liberato in vita. Tale tensione contraddittoria – tale dialettica paradossale fra dipendenza dal maestro e liberazione dal maestro ma solo grazie al maestro – è ben conosciuta da tutte le tradizioni orientali, che hanno sempre messo in atto i dovuti accorgimenti perché il rapporto fra maestro e allievo non decada nel plagio, nella dipendenza da un cattivo maestro che, invece di portare i propri discepoli alla liberazione, li assoggetta per sempre.

I rischi possibili

Ebbene, sui rischi e le possibili degenerazioni determinate da questa difficilissima dinamica fra maestro e allievo, è probabile che nei centri di ispirazione orientale diffusi in Occidente non si sia riflettuto abbastanza. Non lo si è fatto perché molti di questi centri sono nati grazie alla presenza di un singolo maestro che troppe volte ha agito incontrastato e in solitudine, senza il continuo confronto, senza quella continua supervisione reciproca, che avviene invece in Oriente, grazie alla presenza di numerose scuole sempre in collegamento fra loro. Isolato, e al tempo stesso padrone assoluto della propria scuola, il maestro occidentale ha così finito troppe volte, anche suo malgrado, per trasformarsi in un nume onnipotente e oppressivo, vale a dire in cattivo maestro che non solo ha ostacolato il cammino di liberazione dei propri allievi (provocando in molti casi turbamenti e illusioni sfociate poi in dolorose disillusioni), ma ha anche impedito, più che favorito, la formazione di nuovi possibili maestri che ne potessero in futuro prendere il posto.

Sottomessi al carisma eccessivo di un unico maestro, molti centri (non tutti, ovviamente) sono entrati così in una dinamica involutiva, si sono ripiegati sulla ripetizione sempre identica degli stessi insegnamenti, sulla riproposizione continua del medesimo maestro fondatore, presentato quale unico e insostituibile guru. In questo modo però tali centri non sono stati in grado di rinnovarsi, di stabilire una dinamica di apertura verso il mondo esterno. Certo, questo processo degenerativo non ha colpito indistintamente tutte le scuole. Ma ciò che finora è mancato, probabilmente, è un dibattito condiviso ed efficace sulla natura del rapporto fra maestro e allievo. Non è stata elaborata di conseguenza una strategia adeguata per contrastarne i rischi. E tale assenza di strategia ha indebolito alla lunga la capacità propositiva, la forza attrattiva di tanti centri, impegnati più nella propria autoconservazione che non nell’impegno per fondarne di nuovi.

La riduzione a comunità di nicchia

Tale ripiegamento su di sé ha poi prodotto un’ulteriore trasformazione nell’identità di questi gruppi: da comunità in espansione, da nuclei allo stato nascente di mutamenti che avrebbero dovuto diffondersi in modo benefico nella società intera, i centri di ispirazione orientale si sono ridotti spesso a piccole nicchie dove trovare rifugio, sollievo, consolazione rispetto a un mondo esterno vissuto non solo come troppo ostile, ma anche come ineliminabile fonte di dolore. Fondati anni addietro sulla base del convincimento che per cambiare il mondo occorreva innanzitutto partire da sé, cambiare se stessi, molti centri avevano assunto un’identità di avanguardia: si presentavano come piccole comunità utopiche dove si sviluppavano nuove forme di consapevolezza, di convivenza armoniosa e pacifica che lentamente avrebbero influito sul resto del mondo, inaugurando una nuova era di pace universale. A poco a poco però queste pulsioni utopiche sembrano essersi spente per fare posto a una proposta più semplice e ristretta: offrire spazi protettivi dove dedicarsi alla cura di sé, dove i singoli possono trovare consolazione individuale rispetto a un ambiente troppo stressante, a un mondo troppo ostile. Ma tale metamorfosi in piccoli mondi paralleli di compensazione, conforto e rasserenamento per persone troppo stressate, ha finito col rendere i gruppi di ispirazione orientale relativamente marginali e ininfluenti rispetto ai nuovi problemi che agitano la nostra società.

La mancata risposta alle domande di identità

Questi problemi negli ultimi anni hanno sempre più assunto una connotazione sociale. Le dinamiche, le tensioni di una società multietnica, multiculturale, multireligiosa e globale, infatti, hanno fatto emergere in modo pressante interrogativi che riguardano non più solo la nostra identità individuale, ma prima ancora la nostra identità collettiva. Al posto della domanda sul «chi sono io» in quanto individuo, si è fatta avanti in modo dirompente una nuova domanda sul «chi siamo noi» in quanto comunità. È diventato inevitabile cioè chiedersi che cosa significa oggi essere occidentali, europei, italiani; che cosa implica volersi definire cristiani o atei o laici, di sinistra o di destra, del Nord o del Sud; come ci si deve concepire in quanto società civile, comunità religiosa, nazione, etnia; come ci si deve rapportare, in quanto collettività, rispetto a chi è altro da noi, perché straniero, migrante, rifugiato, di altra etnia, di altra religione… Sempre più ineludibile e pervasiva, tale domanda di identità collettiva interpella non solo la politica, le istituzioni, i partiti, le associazioni, le chiese, ma agita anche le coscienze dei singoli, crea ansie, tensioni e incertezze in noi tutti. È una questione che, per essere affrontata e risolta, esige l’elaborazione di adeguate strategie di integrazione sociale, di convivenza civile, di reciproco riconoscimento fra comunità diverse presenti in un unico territorio.

Ma proprio perché centrata sulle nuove possibili prospettive con cui definire e progettare oggi una comunità, una società, un’unione di gruppi diversi, la questione dell’identità collettiva appartiene a una dimensione, a una logica, che non coincide con le dinamiche che regolano invece il piano individuale. È dunque una domanda che non può essere risolta riportandola semplicemente alla misura delle relazioni interpersonali. Implica un progetto politico, una visione di società che non può accontentarsi di delineare una comunità in pace in quanto costituita da un insieme armonioso di singole menti illuminate.

Ora, che i problemi del mondo non possano risolversi agendo solo sul piano della trasformazione individuale, le chiese cristiane lo hanno da sempre saputo e proclamato. E infatti hanno di volta in volta elaborato progetti (giusti o sbagliati che fossero) di liberazione, di giustizia, di pace per «le genti», per le comunità del mondo intero, e non solo per singole anime in ricerca. Li hanno potuti elaborare perché il loro riferimento primario è sempre stata la Scrittura, la quale ci mostra il Signore parlare a «tutto Israele», ci mostra Gesù proclamare l’Evangelo «alle folle», «alle moltitudini» dei poveri, dei malati, dei peccatori, e non solo a singole persone in affanno (a differenza degli antichi sapienti orientali, che trasmettevano i loro insegnamenti non a popoli, non a comunità intere, ma a discepoli solitari o a piccoli gruppi scelti di laici o a pochi monaci riuniti in una grotta, in un eremo della giungla). Ed è per questo che oggi le chiese sembrano avere la capacità di proporre progetti (adeguati o meno), per rispondere all’enorme questione del­l’identità collettiva che ha investito il nostro mondo.

Chi sono io?

Ma è proprio tale capacità che sembra invece fare difetto ai gruppi di ispirazione orientale. E qui veniamo a un’ulteriore ragione di crisi, forse la più seria di tutte. Questi gruppi infatti hanno sempre elaborato le loro proposte a partire da una domanda di identità individuale, dal quel «chi sono io? » inteso come domanda totalizzante, capace di congiungere la dimensione del singolo con quella del Tutto. La strategia di convivenza civile proposta dal mondo del­l’Oriente italiano si basa infatti sulla convinzione che per liberare gli altri occorre innanzitutto liberare se stessi, e quindi lavorare primariamente su di sé. Non per egoismo, ma perché solo partendo da se stessi si potrà esprimere autentica compassione, benevolenza, equanimità verso tutti gli altri esseri viventi, verso la totalità del mondo. Ma fra il singolo individuo che lavora su di sé e il Tutto cosmico, esiste appunto la dimensione intermedia, e irriducibile, delle «genti», le quali non costituiscono soltanto una somma di singoli. E le «genti» oggi cercano risposte in quanto «genti», in quanto collettività, non solo in quanto insieme di individui. Ebbene, proprio causa della loro impostazione di partenza, i gruppi di ispirazione orientale questa risposta non sembrano ancora in grado di elaborarla, a differenza delle chiese. E ciò li ha indeboliti.

Nuove prospettive per l’Oriente italiano?

Per questo dunque la fiducia nei confronti delle chiese è andata crescendo, mentre sembra essere diminuita quella nei confronti del­l’Oriente italiano. Ciò non significa che l’area di ispirazione orientale sia costitutivamente incapace di elaborare una risposta alle nuove domande di identità collettiva. Qua e là, infatti, s’intravedono indizi che una presa di coscienza del problema è in atto. E nuove iniziative in tal senso cominciano a essere assunte: si fanno strada, ad esempio, riflessioni su «bud­dhismo e società civile»; mentre per promuovere la pace nel mondo si propongono «meditazioni camminate» in luoghi pubblici (e non più solo meditazioni sedute negli spazi chiusi di un centro). Tutti piccoli, ma non irrilevanti segni che il mondo dell’Oriente italiano rimane in movimento. E se ha perso parte del proprio fascino non è detto che in futuro non sappia trovare nuove forze propositive. Il che sarebbe un bene per la società intera, la quale sempre trae giovamento dall’apporto di una nuova, feconda prospettiva culturale. E sarebbe un bene anche per le chiese. Il dialogo interreligioso infatti ne risulterebbe intensificato. E in un dialogo ben condotto, come si sa, ci si arricchisce sempre vicendevolmente.

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Riflessioni buddiste condivise

“Soprattutto dobbiamo capire qual è la relazione fra di noi, per esempio fra me e il Buddha. Se pensi che il Buddha sia una realtà totalmente avulsa, senza alcun tipo di relazione con te, che tu ti trovi quaggiù e il Buddha è seduto lassù, allora la tua preghiera o la tua prosternazione non è reale, perché si basa su una percezione erronea, la percezione di un sé separato. Una prosternazione fondata sulla percezione che il Buddha abbia un sé separato dal tuo e che tu abbia un sé separato da quello del Buddha può essere definita solo un atto di superstizione. Quando sei in piedi con le mani giunte davanti a un’immagine dell’Onorato dal mondo, il Buddha, oppure all’immagine del destinatario delle tue preghiere, chiunque sia, devi compiere una visualizzazione. Quell’immagine davanti a te, quella statua di ottone, stucco, giada o diamante che sia, non è altro che un simbolo; stando alle apparenze, quella statua esiste al di fuori di te. Il Buddha però non è qualcuno che esiste al di fuori di te. Dobbiamo essere capaci di visualizzare la connessione che ci lega a quell’immagine. Nel buddhismo una breve poesia o preghiera si chiama gatha. Ecco l’inizio della gatha per la visualizzazione, che si recita nella mia tradizione: Colui che si inchina e colui al quale è rivolto l’inchino per natura sono entrambi vuoti. Significa che la natura di Buddha e la natura degli esseri viventi è vuota. Questa idea, che colui che si inchina e colui al quale è rivolto l’inchino siano per natura entrambi vuoti, è una cosa che alcuni credenti cattolici trovano stranissima; qualcuno ne rimane scosso. Come può esserci una religione che osi dire al suo fondatore «Tu sei vuoto, non hai un sé separato»? Ma “vuoto” (in sanscrito shunyata) non significa che non ci sia niente, significa “non dotato di realtà separata”. Tu e il Buddha non siete due realtà separate: tu sei nel Buddha e il Buddha è in te. Questi semi di comprensione possono trovarsi anche nella tradizione cattolica e in tutte le altre religioni; il buddhismo, però, li esprime in un modo molto chiaro e diretto: colui che si inchina e colui che riceve l’inchino sono entrambi vuoti. Nessuno possiede un sé separato. Dunque, per rispondere alla quinta domanda, quando preghiamo noi buddhisti rivolgiamo la preghiera allo stesso tempo a noi e a ciò che è al di fuori di noi: non c’è alcuna distinzione. In verità, praticando ci possiamo rendere conto che siamo fatti della stessa sostanza di amore, consapevolezza e comprensione di tutti i grandi esseri. Dio e noi siamo della stessa sostanza; fra Dio e noi non c’è differenza né separazione. Quella della consapevolezza è un’energia reale, e ogni volta che si applica un’energia si verifica un cambiamento: per esempio l’energia del sole può cambiare la vita sul pianeta terra. Il vento è un’energia e anche la nostra consapevolezza è un’energia in grado di modificare la condizione del mondo e delle specie umane. Per questo, noi siamo in grado di pregare solo quando generiamo l’energia della consapevolezza.” (Thich Nhat Hanh, L’energia della preghiera, Milano, Mondadori 2006, pp. 12-13)

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