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DIETRICH BONHOEFFER
di Rossana Rossanda
Non so se Dietrich Bonhoeffer possa essere un nostro antenato, tanto è segnata dalla vicenda tedesca fra le due guerre la sua breve vita, tanto diversa è la figura del pastore protestante da quella del prete cattolico e tanto poco consolatoria – rispetto alla nostra religiosità, ricca di Madonne e santi con i quali intrattenere un rapporto familiare – è la sua rinuncia a ricorrere a un essere trascendente perché ci risparmi le prove dell’esistenza. Siamo diventati adulti – egli scrive – la modernità e la ragion critica, l’analisi della società e dell’io, ci hanno fatto maggiorenni che non cercano più la mano del padre per stare in piedi, si reggono da soli, decidono da soli, scegliendo e pagandone il prezzo. “Come se Dio non ci fosse”. Per Bonhoeffer, credente, Dio e il Cristo e la sua passione, le scritture e la rivelazione sono assolute, sono il senso dell’universo, la premessa e l’orizzonte. Su di loro l’uomo misura la sua esperienza terrena, ma di essa si assume l’intera responsabilità. Non ha da un paio di secoli desacralizzato la sovranità restituendola al popolo e alle costituzioni storiche? non ha acquistato sapere sulla natura e su di sé? Sono acquisizioni di maturità, e se è un errore pensare che in esse si esaurisca la sapienza, e si possa fare a meno della rivelazione, non è più ammissibile che ci si sottragga ai diritti e responsabilità che da esse derivano. Le cose ultime, e non solo vita e morte, appartengono a Dio. Ma è la crocifissione quel che Dio ha in comune con gli uomini e gli uomini in lui, il percorso del figlio fatto uomo e crocifisso. Il cristiano deve attraversare senza sottrarvisi la storia in cui si trova, come il Cristo. Del quale tiene ferma la fede, buttano la sua riduzione a querula religiosità. Deve vivere senza Dio in presenza di Dio. Per la prima volta sentii queste parole da Ugo Perone nella biblioteca dei camaldolesi a San Gregorio a Roma; conoscevo “Resistenza e resa”, le “Lettre” e “Scritti dal carcere” di Bonhoeffer, ma me ne era venuto soprattutto il ritratto d’una figura alta della sfortunata resistenza tedesca. Mi mancava la chiave. Da allora ho letto e riletto altri scritti, sovente spezzati, difficili, riflettendo su quel suo essere cristiano e solo davanti al mondo – interamente nel mondo, guardandosi da fughe, financo nell’ascetismo – senza il conforto di una devozionalità anestetizzante. Non che sia meno complessa, penso, l’esperienza mistica di chi è con Dio in un perpetuo dialogo amoroso, o meno rispettabile quella di chi cerca nell’umile religiosità una regola di vita. Ma è per questo suo accento che Bonhoeffer – che deve molto a Karl Barth anche se ne separa – è uno dei pochi antenati possibili per un non credente. Dietrich Bonhoeffer nasce nel 1906 in una famiglia colta, operosa, luterana ma poco praticante, padre psichiatra e una madre che ha fatto l’esame di maestra per provvedere alla prima formazione degli otto figli. E’ una casa dove si studia, si lavora, si fa musica, si sta ai pubblici doveri e si assumono pubbliche funzioni, si frequenta una certa nobiltà prussiana colta. Il secondogenito morirà giovanissimo nella prima guerra mondiale, una sorella di Dietrich sposa il giudice Carl von Donhanyi, e la sua gemella, Sabine, un professionista ebreo, Gert Leibholtz. E’ una borghesia illuminata, “giusta”, che sarà ostile al nazismo ma non gli si è opposta, e ne sarà distrutta. Non poca Germania si riconosce in quel vivere serio e impegnato, credendosi al riparo dalle tragedie del potere, fidando nella saggezza dell’autorità, finché ne scopre troppo tardi la furia omicida. Adolescente, Dietrich ha alle spalle la sconfitta tedesca in guerra e nel suo presente la repubblica di Weimar. Nulla in casa lo spinge verso gli studi teologici, se non forse la voglia di essere differente. La regola fra i Bonhoeffer è il rispetto, perciò a diciotto anni – è il 1924 – studia teologia a Berlino, presto diventerà libero docente, frequenta circoli luterani a Barcellona, a New York e in Gran Bretagna, e prenderà gli ordini nel 1931. Il nazismo è al potere un anno dopo. E impatta con la Chiesa, cui le leggi discriminatorie del 1933 impongono di non ordinare più chi è nato ebreo. Accettare significa farsi vassalla dello stato, e infatti diventa ufficialmente Chiesa del Reich; non accettare è la scissione, e sarà quella della chiesa confessante cui appartiene il pastore Bonhoeffer. Non è semplice per un uomo che ha introiettato l’obbedienza allo stato come educazione alla cittadinanza, partecipazione al destino della nazione tedesca. E che dopo la primissima e brillante fase degli studi si dice – e lo scriverà in “Sequela” – che obbedire in modo “semplice” e “concreto” è un passo avanti nell’essere cristiani, perché cala dalla testa nel cuore, libera dall’orgoglio. E invece deve essere disobbediente, alla chiesa e allo stato; Martin Niemoeller, che pure ha fondato nel 1933 la chiesa confessante, che sarà arrestato e poi internato a Dachau, dovrà arrivare al 1945 per comprendere la natura del nazismo. Bonhoeffer no, forse è già di allora – suppone l’amico e biografo Bethge – il suo famoso: “Chi non grida con gli ebrei non può cantare il gregoriano”. Il cristiano deve dare a Cesare quel che è di Cesare. Ma chi è Cesare? In un discorso del 1934 Bonhoeffer ammonisce che una guida, un Fuehrer – e nel principio che le nazioni hanno bisogno d’una guida è stato cresciuto – può diventare un Verfuehrer, uno che ti porta fuori strada. Sta di fatto che presto è sottoposto a vigilanza e nel 1936 perde la libera docenza. Nel 1935 la chiesa confessante lo ha nominato direttore d’un seminario di studi a Finkewalde, comunità di studio meditazione preghiera silenzio e musica, dove si disegna una scelta quasi monastica, ma basata più che sulla solitudine sul discepolato, l’importanza della parola scambiata. “Il Cristo nel mio cuore è più debole del Cristo nella parola del fratello, il primo è incerto, il secondo è certo”; purché la parola venga dalla vita, non sia mera ripetizione d’una teologia raffreddata in ideologia. Finkewalde sarà tenuta d’occhio dal regime e chiusa dopo due anni, nel 1937, e molti allievi finiranno arrestati. Quando la guerra sta arrivando, il che fare? diventa drammatico. Il cognato giudice von Donhanyi introduce Bonhoeffer nel circolo dell’ammiraglio Canaris, che dirige la Abwehr, i servizi segreti dell’esercito, autonomi da quelli del governo e delle SS. Canaris e alcuni altri ufficiali vedono l’abisso cui porta il nazismo, tentano di far sì che la Germania non sprofondi con Hitler, cercano di farlo sapere agli alleati. Bonhoeffer ha molte relazioni in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, sarà un “agente” della Abwehr, che le SS sospettano ma sul quale non possono mettere le mani. Al cristiano che è, questa scelta fa certamente problema, ma gli permette di far espatriare alcuni gruppi di ebrei. Tuttavia non è facile augurarsi la sconfitta del proprio paese. Quanti lo comprenderebbero? Attraverso quale impietosa riflessione vi giunge egli stesso? La tesi sulla solitudine dell’umanità adulta, che decide la sua condotta senza, per dir così, coinvolgere Dio, riflette l’esperienza che sta facendo. E che affronta come vita, vita completa, dalla quale non bisogna fuggire, fino al punto di innamorarsi nel 1942, in piena guerra, di Marie von Wedemeyer. E’ una giovane donna, diciotto anni, bellissima, lusingata da un uomo tanto più grande e colto, che ha un sorriso largo e allegro, ama camminare e sciare, e le propone il matrimonio come compimento assoluto, totalità dell’incontro – quello di cui parla nel saluto per le nozze dell’amico Bethge. Sarà uno strano fidanzamento, perché pochi mesi dopo, è il 5 aprile del 1943, Bonhoeffer è arrestato, poco dopo Donhanyi. Canaris e i suoi cercano una pace separata con l’Inghilterra, anche per proteggersi dall’Unione Sovietica della quale temono lo sfondamento da quando la Wehrmacht è stata battuta a Stalingrado alla fine del 1942. L’Inghilterra non patteggia alcunché finché Hitler governa. Nel 1943 Canaris comincia a preparare un attentato contro il Fuehrer, Donhanyi e Bonhoeffer lo sanno. Il governo e le SS sospettano e perciò li arrestano, ma c’è poco contro di loro, possono sperare nel tempo. E Bonhoeffer spera per sé e per Maria, chiamata di colpo a diventare adulta, lasciando le cavalcate in campagna per correre a Berlino tra lavoro obbligatorio e visite al carcere. Che sono paurose, la comunicazione è ridotta al minimo, si erano appena conosciuti, è poco più d’una bambina, a un certo punto si ritirerebbe dall’impegno, ma egli non lo concede. E’ la sua lealtà, la sua speranza. Ma il 14 luglio del 1944 – poco più d’un mese dopo lo sbarco in Normandia – l’attentato clamorosamente fallisce, e la vendetta sarà tremenda. Le SS abbatteranno ogni copertura nell’esercito e nella magistratura, tutto il gruppo di Canaris sarà giustiziato dopo veloci Corti Marziali, l’Armata rossa è già alle porte di Berlino. Bonhoeffer viene impiccato il 9 aprile del 1943. Il cognato il 10, il fratello Klaus il 23 aprile. Avrà passato in carcere due anni, prima a Tegel, negli ultimi due mesi – Maria corre disperatamente a cercarlo e non lo trova da nessuna parte – trasportato a Dachau, a Buchenwald e infine a Flossenburg. E’ una terribile storia tedesca del novecento. Alla signora von Hase Bonhoeffer, la madre, la prima guerra mandiale ha preso un giovanissimo figlio, il nazismo ne ha giustiziati altri due e il genero più amato. La figlia Sabine ha appena fatto in tempo a mettersi in salvo con il marito ebreo. La sconfitta si abbatte sui due vecchi genitori come ha travolto all’est, i Wedemeyer. Da quella fusione fra amore per la vita e fedeltà alla crocifissione, ricerca della fede e assunzione di responsabilità terrene, nulla di facile, nulla che non sia totalmente esposto nel vacillare della chiesa e della nazione tedesca, vengono i testi dell’ “Etica” e le “Lettere dal carcere” pubblicate in “Resistenza e resa”. Marie von Wedemayer ha reso pubbliche più tardi le lettere del fidanzato – s’è spenta da pochi anni, era diventata una grande informatica, aveva avuto una vita piena, come egli avrebbe desiderato. Il lascito di Bonhoeffer è vasto, non agevole, traccia d’un pensiero che tende all’assoluto ma in ogni piega della Scrittura e dell’esistenza, molto concede alla gioia e nulla alla facilità. Mi ha colpito un breve filmato francese dove il biondo pastore Bonhoeffer, in giacca sportiva al bordo d’un bosco, non so dove né con chi, ride di cuore, come quando l’allegria ci travolge, una spuma iridescente che scorre sopra i pensieri. E’ un uomo come noi. Ed è vissuto come noi ma in presenza di Dio, senza sfuggire a nulla, senza chiedere a Dio nulla se non la forza. Non c’è non credente che possa non sentire questa lezione di laicità, nulla del mondo fuggito e nulla abbandonato. La biografia più completa è di Eberhaed Bethge, Dietrich Bonhoeffer, Una biografia, Queriniana 1975 sull’edizione tedesca del 1966, Monaco Kaiserverlag. Notizie più precise sul fidanzamento con Marie von Wedemayer in: Lettere alla fidanzata, Cella 92, Dietrich Bonhoeffer e Marie von Wedemeyer, Queriniana, Brescia, 1994. Una bella serie di saggi sulle fasi della vita e del pensiero in “Vorrei imparare a credere”, a cura di F. Ferrario, Claudiana, Torino 1999. Fra le opere tradotte: D. BONHOEFFER, Resistenza e resa. ed. Paoline 1970; Etica, Bompiani 1969; Una pastorale evangelica, Torino 1990, La parola predicata, corso di omiletica a Finkewalde, Torino, 1994.
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