Non tutti gradiscono il file in formato pdf, anche perché desiderano inserite nei propri siti web dei riferimenti, delle citazioni o ancora la recensione di quello che si preannuncia come l’evento librario del 2010.
Lo riproduciamo con l’indicazione di oggi della nota di Riccardo che trasmettiamo in copia al prof. Ricca.
Se il professore prenderà una posizione la diffonderemo. I nostri lettori e lettrici di religione ebraica non hanno invece bisogno di inviti particolari, sono nelle nostre liste e intervengono come quando lo ritengono.
Ecco gli articoli in formato word. Per renderli disponibili li ho almeno in parte riletti e qua e là ho riscontrato qualche accento che non condivido pienamente. Del tutto naturale del resto. Poco più che sfumature, ma in una situazione come l’attuale credo significative delle differenze di sensibilità che si stanno sviluppando.
Ti faccio un esempio. Paolo Ricca contesta a suo modo l’unicità della Shoah come la intende Fackenheim. Lo faccio anch’io da una prospettiva diversa. Lui chiama in causa la presenza nei campi di zingari, omosessuali, comunisti ecc. Si dimentica però, ripeto può essere solo una sfumatura alla quale presto troppa attenzione, come il programma di sterminio degli ebrei sia stato anticipato dal programma di abolizione dei malati di mente, delle leggi eugenetiche e della conseguente liberalizzazione dell’aborto. Insomma un programma che, per questi aspetti, potrebbe essere oggi promosso da qualche agenzia per i diritti umani, europea e progressista. Su questi aspetti si discute troppo poco e tutti sacrificano più del dovuto a queste istituzioni nella pretesa di laicizzare gli stati e il superstato europeo che di questo passo e a suon di sentenze giuridiche (ma senza uno jus condiviso come si fa?) individua la sua laicità solo in contrapposizione alle religioni e così facendo diventa un superstato etico di dimensioni mai viste. Ovvio… è la mia opinione.
Cordiali saluti e valuta l’opportunità di un approfondimento da parte di mia di qualche tema specifico.
Riccardo De Benedetti
Sicuramente Riccardo ti inoltriamo le richieste o gli interventi che ci perverranno e debbo riconoscerti che come cattolico ti deve essere costata non poca fatica la traduzione del testo, veramente di notevole spessore. Sullo Jus condiviso spero tu non ti riferisca anche ai feticci religiosi appesi nelle aule scolastiche: il nostro compito come discepoli è diffondere la testimonianza al D-o vivente e fare apologia di pezzi di legno con l’etichetta di stato fascista “fabbricato in Italia”? Poi spero che non vorremmo ancora issare le bandiere contro i matrimoni omosessuali; ma cosa deve aspirare un omosessuale credente come me? Ai locali con camere oscure dove trovi spesso preti “incontenibili”? La domenica dicono messa ma durante la settimana…
Anche questi hanno comunque diritto di ospitalità qui, come tutti quelli che proprio non ci piacciono.
Un caro saluto e un ringraziamento sincero. Ti siamo vicini nelle tue vicissitudini per l’anziano papà.
Non abbandonare mai i vivi.
Maurizio
Da il Foglio del 3 aprile 2010 – La traduzione del libro di Emil Fackenheim è di Martino Doni e la prefazione di Massimo Giuliani. La casa editrice è Medusa.
TEOLOGIA SENZA CROCE
Torna l’urlo di Fackenheim: il pensiero occidentale non ci ha strappato dalla fossa che si è spalancata con l’Olocausto. In quell’abisso è mancato il Dio dei cristiani
di Riccardo De Benedetti
L’importanza di un libro si misura sulle domande che pone, non per le risposte che contiene. Molte di quelle presenti nel libro di Emil L. Fackenheim, “Tiqqun. Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah”, sono laceranti e da noi difficilmente ascoltabili. Ora queste domande si possono leggere grazie alla traduzione che ne fa Martino Doni per le Edizioni Medusa a ventotto anni dalla sua pubblicazione negli Stati Uniti. Tutto ruota sull’affermazione perentoria e non aggirabile della dimensione essenzialmente ontologica della Shoah e sulla ricerca di quale filosofia e teologia siano adeguate all’evento. Costretto a occuparsi di ciò che è accaduto agli ebrei, è la tesi principale di Fackenheim, il pensiero occidentale non è più in grado di comprendere e interpretare il reale. La Shoah, con l’enormità del suo accadere e l’incancellabilità dell’orrore che porta con sé, non può essere dissolta in una delle tante totalità concettuali che la filosofia ha prodotto nel corso della sua storia. La filosofia non solo ne è profondamente interrogata ma, come voleva Adorno, è ammutolita, paralizzata e cancellata. I metafisici non ci hanno strappato dalla fossa che si spalancava, urla Fackenheim, in pagine di confronto profondissimo con Spinoza e Rosenzweig (la lettura della filosofia di Heidegger è semplicemente drammatica).
Della Shoah può fare memoria, non filosofia, solo chi l’ha subita, ritrovando al fondo di questo racconto straziante null’altro che la fedeltà a se stesso del popolo ebraico. Nell’abisso che si spalanca manca Dio. Cosa questo comporti per tutti coloro che nel ricordo di ciò che è accaduto ad altri loro simili non possono far altro che rivivere il proprio senso di colpa, è però ancora da pensare. Come ripristinare (tiqqun) la vita etica e morale dell’occidente così brutalmente revocata dall’ontologia distruttiva della Shoah? Posto in questi termini ciò che è accaduto nella Storia, prima e dopo la Shoah, non può più avere una misura sua propria. Che significato potranno ormai avere le sofferenze dei non ebrei se un evento storico è strappato dalla sequenza degli altri avvenimenti per assumere una funzione che tutti li trascende?
Fackenheim è chiaro: solo gli ebrei, tra le genti, hanno subito il tentativo, per poco non realizzato, di essere sterminati sulla base esclusiva del loro essere. Solo a loro, infatti, è stato imputato il crimine di esistere. La scelta di ontologizzare la Shoah, può essere letta come un’opposizione preventiva ai tentativi di relativizzare la Shoah e minimizzarla sul piano storico, ma la strategia perseguita da Fackenheim non è affatto priva di conseguenze più ampie. Alcune di queste si osservano abbastanza chia
ramente nella diversità di trattamento che la memoria collettiva riserva alle vittime di altri eventi storici, carichi anch’essi di violenza e sadismo. Al semplice ricordare i milioni di morti dei socialismi reali si sono alzate grida contro l’illegittimo “furore comparativista”. Su Hiroshima, altro esempio, dopo le grandi riflessioni di Karl Jaspers e di Günther Anders (scompare dai ricordi il suo “Essere o non essere. Diario di Hiroshima e Nagasaki”), è difficile ormai leggere qualcosa di significativo. Dopo di che si può pur convenire che la valutazione storica è una cosa e il giudizio onto-teologico è un altro, ma lo scarto aperto dal trattamento che la sofferenza dell’uomo riceve da questo modo di impostare le cose rimane.
Cosa ci resta da fare e da capire nella e della Storia una volta che l’abbiamo ripiegata sulla Shoah? Possiamo, che so, considerare le sofferenze del Gulag come un pallido anticipo o un altrettanto anemico seguito di ciò che è accaduto agli ebrei? O un avvicinarsi asintotico e quindi infinito della condizione umana a quella delle vittime della Shoah? O possiamo considerare gli ebrei come il simbolo più perfetto della condizione universalmente tragica dell’uomo, e possiamo guardarli come un vertice inarrivabile di dolore e disperazione? E, anche in questo caso, dovremmo ancora interrogarci sul senso di questo “primato”, per altro né voluto né cercato.
Ma Fackenheim procede oltre, va diretto verso la teologia. Rifiuta qualsiasi interpretazione espiatoria della Shoah: gli ebrei non dovevano espiare nulla e di nulla dovevano rispondere se non della propria esistenza come comunità di fedeli al Dio unico con il quale hanno stretto un patto, qualche volta disatteso, ma sempre riconfermato e tenacemente difeso. Credere quindi che la Croce cristiana possa raccogliere e conservare il senso di ciò che è accaduto è pura bestemmia, se è vero che la presenza di Dio la si riconosce nelle domande che lascia senza risposta. E nella Shoah il tacere di Dio è assoluto (Wiesel). Vero anche che lo stesso Cristo agonizzante in croce non ottiene risposta alcuna dal Padre che invoca nel momento dell’abbandono, e pur non producendo alcuna consolazione pochi lo hanno ricordato agli ebrei. A causa della presenza-assenza di Dio dopo Auschwitz è la vita dell’ebreo, non la sua morte, ad essere sacra, dice Fackenheim (è lo stato di Israele ora a vigilare su questa vita). La conseguenza è che la Shoah rimane evento impossibile da redimere, e quindi radicale e infinita inquietudine per il pensare cristiano. Con tutta la delicatezza con la quale si potrebbe avvicinare la Croce ad Auschwitz il gesto ormai non può essere accettato. Di fronte a questo rifiuto resta solo lo spazio della riflessione, dal momento che il rifiuto della Croce interroga il cristiano alla radice della sua fede. Il fatto è che la Shoah si presenta agli ebrei come la tragedia assoluta di una salvezza mancata, dopo due millenni di sofferenze ed esilio imputate al cristianesimo.
Per la teologia ebraica della Shoah non c’è alcuna corrispondenza possibile tra la morte di Cristo e quella degli ebrei. Anzi, da questo lato la morte di un ebreo come Cristo contro i milioni di ebrei innocenti sterminati non recupera alcun significato utile ad alleggerire il discorso sulla colpa del cristianesimo. Di più, è impensabile che qualcuno possa
concepire per gli ebrei un qualche ruolo, fors’anche vicario, in un qualsiasi dramma salvifico. Il sospetto che la salvezza in Cristo e da Cristo abbia potuto mettere in conto l’estinzione del popolo eletto si aggiunge come ulteriore motivo di angoscia. Per larga parte dell’ebraismo post-Shoah la cristologia ha uno stretto rapporto con le persecuzioni che gli ebrei hanno subito nel nome di Cristo. Le attuali difficoltà che si registrano nel dialogo ebraico-cristiano sono comprese tutte all’interno di questo rifiuto della Croce.
Sono ancora poche le idee teologiche in grado di cogliere la dimensione radicalmente critica che il libro di Fackenheim ha fatto e fa emergere. Se Cristo non è più in grado di riorientare la Storia, anzi, se la sua stessa Croce è motivo di rifiuto per coloro che hanno provato e subito l’orrore, su cosa si possono confrontare ebrei e cristiani?
Mi chiedo, spero senza urtare la sensibilità di alcuno, se non si possa leggere nella teologia di Fackenheim, un tentativo di sostituzione del cristocentrismo. Dopo Cristo è la Shoah a dover ricentrare la Storia, lo fa in quanto evento inaudito oltre il quale non c’è più nulla che si possa intendere alla vecchia maniera hegeliana dei superamenti progressivi (per Fackenheim Hegel è il pensatore cristocentrico per eccellenza). La Shoah compresa come evento insuperabile conduce direttamente alla revoca di ciò che è essenziale per i cristiani, vale a dire il ruolo salvifico del Cristo. “Tiqqun” lo mostra con una chiarezza alla quale dovremmo riservare gratitudine.
E’ il nazismo ad aver spinto il cristianesimo nella scomoda condizione di dover continuamente ammettere reticenze e colpe su fatti e testi, prassi e convinzioni delle sue chiese e della sua dottrina. Si può dire quasi che ormai viva sotto l’ingiunzione di emendare la propria colpa, in un processo pressoché infinito, imparando da questa sua pena a praticare lo spazio residuale che resta alla fede. Fackenheim è netto: “Accettando, se non addirittura tollerando tacitamente, la loro designazione di ‘ariani’, i cristiani, pur non intenzionalmente, finirono con l’abbandonare i ‘non ariani’ alla loro sorte. Si resta profondamente turbati dall’insidiosità di questo attacco nazista al cristianesimo, forse il più profondo dei molti, e non resta che rimpiangere quel kairos che fu mancato. Come possono i cristiani del dopo Olocausto affrontare questo trauma?”.
Fackenheim riconosce che il nazismo muove alla distruzione anche del cristianesimo, non solo degli ebrei, ma la debolezza che imputa ai cristiani è di quelle da cui non ci si riprende facilmente. Che significa, infatti, per i cristiani accettare una caratterizzazione razziale se non l’abiura più radicale dell’essere della propria fede?
Ma prima di poter superare un trauma occorrerebbe riconoscerlo e i cristiani questo, dice Fackenheim, ancora non l’hanno fatto. Sono, infatti, ancora sostenitori di una teologia inadeguata, addirittura impraticabile dopo la Shoah, perché convinta che l’immane sofferenza patita dagli ebrei possa ancora partecipare di quella del Cristo, l’unica in grado di operare la redenzione del mondo. Anche in questo caso la franchezza di Fackenheim è esemplare: se l’uomo generico partecipando delle sofferenze del Cristo le completa facilitando la sua opera di redenzione, lo stesso non può dirsi di una sofferenza non scelta ma imposta e somministrata da una potenza terrena nutrita di un odio totalizzante ed esauribile solo con la definitiva estinzione del suo oggetto.
L’impossibilità di guarire il mondo dopo quello che è successo obbliga i cristiani a uscire dall’equivoco secondo il quale basti chinarsi sulla tragedia degli ebrei credendo che essa in un modo o nell’altro abbia risparmiato i cristiani. Non è vero, la Shoah ha coinvolto i cristiani, sebbene a subire il tentativo di sterminio siano stati gli ebrei.
Dopo la Shoah non c’è modo di cogliere nella Storia una qualche ripartizione coerente e bilanciata delle responsabilità, nello stile di una trimestrale aziendale. L’unico modo di farlo è quello, vetero-hegeliano, di ricomprendere gli accidenti della Storia all’interno del suo movimento. Ma Fackenheim ci dice, con Jean Améry, che la Shoah è un evento non più superabile. Come la mettiamo?
La Shoah non è unica a motivo delle sue dimensioni, lo è nella sua metastoricità. E’ unevento che si verifica nella Storia e nello stesso tempo in grado di trascenderla. Il negazionismo religioso, alla Williamson, che noi tutti riteniamo inaccettabile, forse ancor più di quello storico, segnala però che costoro hanno percepito meglio di altri la posta in gioco, e per non capitolare del tutto negano il presupposto evenemenziale, cioè dicono che non è andata come è andata. Se riconoscessero che la Shoah si è verificata nelle modalità descritte dai testimoni dovrebbero accettare le conclusioni che l’ebraismo ne trae in ordine non tanto alla sola responsabilità storica del cristianesimo ma anche nei riguardi della sua insostenibile soteriologia. Il
Cristo non salva alcunché, questa la confutazione pratica del cristianesimo che il nazismo ha introdotto nella Storia e che l’ebraismo non manca mai di ricordare ai cristiani. Eppure entrambi sanno che è solo da questo nodo che potranno avviare tiqqun e teshuvah, intesi rispettivamente come riparazione e pensiero della conversione. Ma senza questa preliminare chiarezza il dialogo ebraico-cristiano continua a incespicare su elementi in fondo inessenziali, senza prospettiva, esposto ai venti di ricostruzioni storiche più o meno plausibili, come è il caso di Pio XII. In effetti, il silenzio che si rimprovera a
quel Papa non è solo un atto mancato, come ha detto il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici a Benedetto XVI, perché per i cristiani l’efficacia dell’azione redentiva nella Storia era in qualche modo preservata da coloro che, da cristiani, si adoperavano per la salvezza degli ebrei. Questi cristiani non avevano bisogno che il Papa parlasse per agire come hanno agito. Ma è proprio questo che la teologia della Shoah di Fackenheim rimprovera ai cristiani: di aver creduto ancora possibile una qualche redenzione dopo un orrore così indicibile. “Ad Auschwitz i neonati venivano gettati nelle fiamme ancora vivi. Le loro grida si potevano udire in tutto il campo. Trovare una redenzione nella sofferenza di questi bambini, o di coloro che udivano quelle grida, è un’impossibilità umana e, si spera, anche divina”. Ma se è così quale significato possiamo dare all’agire di chi ha cercato di salvare anche uno solo di questi bambini? Non è forse il segnale di una redenzione possibile, la cui economia è ancora tutta da comprendere, per quanto non dovrebbe poi essere così lontana da quell’economia della salvezza prima rifiutata? O è solo il rovescio, altrettanto insensato e ininfluente, delle atrocità commesse ad Auschwitz? Ma chi può assumersi l’onere terribile di rendere insensata la pietà?
La fede nella redenzione cristianadovrebbe essere così profondamente scossa dalla Shoah da non potersi più esercitare e pensare, ma perché più di un cristiano, anche se “troppo pochi” come disse Giovanni Paolo II a Berlino nel 1996, si impegnò a salvare gli ebrei? Lo fece contro il suo stesso credo? O forse continuando ad essere un cristiano era già quasi un bravo ebreo?
Riccardo De Benedetti è giornalista e saggista, si occupa di filosofia
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Fackenheim vola nei cieli dell’ontologia, ma la storia non è finita con la Shoah
di Giorgio Israel
“Tiqqun” di Fackenheim non è, come qualcuno ha preteso, un libro che sviluppa una “teologia dell’Olocausto”. Come dice l’autore “non ci può essere una disciplina di questo tipo”. Ma c’è – egli aggiunge – “una teologia che è sfidata dall’Olocausto e che, evitando ogni tipo di fuga, salva la propria integrità auto-esponendosi ad esso”. La questione è delicata perché una teologia ebraica nel senso stretto del termine non esiste. Difatti, nell’ebraismo gli eventi divini sono momenti di un percorso interminato e proiettato verso la fine dei tempi e verso la redenzione messianica. Questo percorso vive nella tensione continua tra il sistema dei precetti, la cui osservanza garantisce in modo quasi automatico di restare entro i confini di una vita irreprensibile, e l’ammonimento profetico contro il rischio dell’automatismo: la confusione tra formalismo e morale. E’ una tensione che riecheggia anche nel Talmud quando, chiedendosi perché mai fu distrutto il Secondo Tempio proprio in un periodo in cui il popolo seguiva in modo irreprensibile i precetti, si dice che “Gerusalemme fu distrutta unicamente perché vi si seguiva scrupolosamente la legge della Torah”.
L’ebraismo ha tratto la sua forza dall’operare continuo di questa tensione. Se il Talmud ha enfatizzato il primo termine le correnti mistiche e messianiche hanno riproposto il messaggio profetico, fino alla sua forma più recente rappresentata da Teodoro Herzl e dal sionismo. La Kabbalah rappresenta ciò che più nell’ebraismo è vicino alla teologia, sebbene si tratti più che altro di teosofia e di esplorazione delle forme della vita divina, al fine di colmare l’abisso tra uomo e Dio attraverso un percorso di avvicinamento mistico.
Forse la Kabbalah più “teologica” (ma sempre in un senso molto speciale) è quella cui fa riferimento il titolo del libro di Fackenheim: “Tiqqun”. E’ la Kabbalah cinquecentesca di Safed, soprattutto quella di Isaac Luria. Gershom Scholem ne ha approfondito le motivazioni individuandole nel terribile dramma che fu per l’ebraismo l’espulsione dalla Spagna nel 1492. Fackenheim, con molta superficialità, considera questo dramma come un evento di rilievo minore della Shoah. Invece esso fu un cataclisma epocale. Come osserva Scholem, ci volle un secolo perché fosse assimilato, dando poi luogo alla Kabbalah di Safed che, a sua volta, ispirò una drammatica speranza di redenzione che culminò in un’esplosione vulcanica di messianismo di cui fu principale esponente fu il falso messia Sabbatai Zevì. Furono eventi le cui ondate si propagarono fino al Settecento.
La dottrina di Luria affrontò in modo audacissimo il problema del male identificandone addirittura l’emergere in un “errore” cosmico avvenuto nell’atto creativo del mondo. La creazione del nulla era spiegata con un atto di “autocontrazione” (tsimtsum) di Dio, una sorta di “esilio” divino con cui Egli fece posto a uno spazio finito e vuoto in cui doveva propagarsi l’emanazione generatrice del mondo. Durante il processo emanativo i “vasi” che trasmettevano la luce divina non ne sostenennero la potenza e si ruppero in frammenti, così che molte scintille della luce divina si diffusero in un’esplosione cosmica e restarono imprigionate negli strati inferiori del
mondo del male. Il compito del popolo ebraico è ricercare ovunque le scintille divine per estrarle e farle ascendere ai livelli superiori, in vista di una riparazione universale (Tiqqun). Trovano così senso sia il dramma della “prigionia” del bene che l’esilio del popolo ebraico condannato alla dispersione per il compito di ricercare i frammenti dispersi fino alla redenzione finale.
Il Tiqqun è però un evento destinato a compiersi alla fine della storia, in coincidenza con l’avvento messianico, da costruire giorno per giorno nellapratica con cui l’ebreo riconosce i suoi errori e i suoi peccati e ad ogni istante ricomincia daccapo: la Teshuvah. Quest’ultima è la riparazione a misura d’uomo, Tiqqun è l’evento conclusivo, che costituisce la riparazione della vita divina, dell’errore avvenuto nell’atto creativo.
Nel pensare il Tiqqun come atto di riparazione del mondo dall’evento metastorico rappresentato dalla Shoah, Fackenheim rischia di proporre una teologia apocalittica che già una volta minacciò di dissoluzione un ebraismo che, dopo essere stato colpito nel 1492 dalla dispersione e dalla distruzione (tra roghi, conversioni forzate e marranismo), era caduto nello smarrimento provocato dal falso messianismo e dalla conversione finale di Sabbatai all’islam. In realtà, Fackenheim fa molto di più: egli propone il Tiqqun nella cornice di un’ontologia di un Olocausto di cui dichiara l’assoluta unicità: un evento la cui riparazione è necessaria affinché il mondo possa riprendere il suo cammino che si è arrestato per l’enormità dell’accaduto ma che in realtà sembra possa compiersi soltanto all’interno dell’ebraismo.
Di fronte al librarsi di Fackenheim nel cielo dell’ontologia, ci si vergogna quasi di scendere sul triviale terreno dello storiografia per contestare la tesi dell’assoluta unicità della Shoah. Ma, in fin dei conti, è proprio Fackenheim ad avvalorare questa tesi sul piano storico. Solo che lo fa con pochi e scarni argomenti, dati come ovvi. Le sue righe sbrigative sfigurano dinanzi alla profondità con cui un Vassili Grossmann ha esplorato il senso del legame profondo tra Lager e Gulag. Quindi, Fackenheim prende un incerto volo verso l’ontologia, e intesse un dialogo esclusivo proprio con quella tradizione della filosofia la cui pretesa di costituire una scienza assoluta dell’essere è una radice dei mali che hanno colpito la civiltà europea. Viene da chiedersi perché mai Fackenheim dialoghi in modo povero e piattamente recriminatorio con Spinoza; perché scelga qualsiasi interlocutore filosofico salvo che Husserl, ovvero colui che trovò la forza e la speranza, anche negli ultimi anni quando ebbe la Gestapo sotto casa, di proporre una via d’uscita per salvare la vocazione filosofica europea liberandola dalle impasses dei grandi sistemiontologici. Viene da chiedersi perché non dialoghi con un filosofo cristiano così attento al tema della memoria come Paul Ricoeur; e perché senta così poca consonanza con le correnti dell’ermeneutica (Lévinas incluso) e della fenomenologia. E viene da rispondere che egli si è chiuso da solo in una sterile prigione pretendendo che le aporie teologico-filosofiche suscitate da Auschwitz siano un fatto inedito nella storia storia, e ricercando il “Tiqqun filosofico” (come lo chiama) nel posto sbagliato.
Ontologizzando la Shoah Fackenheim legittima la domanda di De Benedetti se egli non stia proponendo “un tentativo di sostituzione del cristocentrismo”. Chi scrive non ha il timore di De Benedetti di urtare suscettibilità e ritiene che, sì, dal punto di vista ebraico questa di Fackenheim è un’“eresia” cristologica. Col tentativo di fare della Shoah il sostituto di Cristo (nello stile di un moderno sabbataismo) e col presentare il Tiqqun come un heideggeriano ritorno al “da” del “Dasein” ebraico, Fackenheim congeda l’ebraismo. Difatti, egli dice: “Senza una tradizione recuperata non c’è futuro per gli ebrei”. Tutto qui? A questo si riduce il Tiqqun che dovrebbe riparare il mondo? In effetti, si riduce a questo perché il cataclisma ontologico arrestando la storia imprigiona anche l’ebraismo mutilandolo della sua dimensione profetica che alla storia appartiene irrevocabilmente. Ma la storia non si lascia arrestare da nessuna sentenza circa il carattere ontologicamente inassimilabile e insuperabile di un evento.
Giorgio Israel è docente di Storia della matematica all’Università La Sapienza di Roma e studioso di problemi dell’ebraismo
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Teologia senza croce
MA GIOBBE SOFFRIRA’ IN ETERNO?
Il teologo Cottier contesta Fackenheim e sostiene che Dio non resterà muto
di GeorgeCottier
Non mi riferisco direttamente all’opera di Fackenheim ma alla presentazione che ne dà Riccardo De Benedetti.
Una prima difficoltà è capire il significato di ontologico applicato all’evento della Shoah. Probabilmente vuol esprimere non soltanto l’unicità della Shoah ma la sua funzione di principio strutturante la storia, di punto di riferimento per tutti gli altri avvenimenti. Ne riceve una posizione trascendente.
E’ probabile che l’affermazione abbia anche il senso di denuncia critica delle grandi filosofie razionaliste, come quella di Hegel, che relativizzano l’evento, e specialmente l’evento carico di male, facendone un momento dello sviluppo della storia come processo razionale e necessario. Tale critica, se questo è il caso, era già stata formulata da Kierkegaard. Davanti alla mostruosità della Shoah, le spiegazioni razionalistiche sono totalmente inadeguate e derisorie.
Infine, positivamente, l’aggettivo ontologico vorrebbe sottolineare che si tratta, con la Shoah, di un male assoluto, faccendone una specie di entità. Ma così si profila all’orizzonte l’ombra dell’antico dualismo. Infatti, la Shoah ci mette a fronte di una dimensione abissale del male. Spontaneamente si pensa all’interrogazione piena di ansia di Giobbe, la qualesfocia su un atto di speranza eroico. Ma tale non è la via scelta da Fackenheim.
Il pensiero di Fackenheim è un’espressione di spicco della “religione della Shoah” così chiamata e analizzata da Alain Besançon. La tragedia della Shoah che ha colpito il popolo ebraico e che ha ferito in maniera incancellabile la sua memoria, è unica, a tal punto che il paragone con altre tragedie è rigettato come una blasfemia. “Nell’abisso che si spalanca manca Dio”: non si tratta di un silenzio temporaneo, ma di un fatto dato come irreversibile. Per i cristiani come per gli ebrei fedeli alla religione dei loro padri, la Shoah è unica, perché il popolo che colpisce è il popolo eletto da Dio. In questo senso, il crimine contro questo popolo è simultaneamente un crimine contro il Dio dell’Alleanza. La “religione della Shoah” fa dell’esperienza del silenzio di Dio vissuta da tante vittime innocenti una categoria metafisica. La relazione a Dio diviene estranea alla definizione dell’unicità dell’evento. Rimane soltanto “la fedeltà a se stesso del popolo ebraico”.
Davanti a questa secolarizzazione radicale, non possiamo non porre la domanda patetica: qual è il fondamento di questa fedeltà, se non c’è più la fedeltà di e al Dio dell’Alleanza? E’ necessario a questo punto ricordare da quale ideologia i persecutori e gli assassini del popolo ebraico hanno tratto la loro ispirazione. Il dio del nazismo, immanente alla natura e alle sue forze irrazionali, è un dio pagano, un idolo, che non poteva non combattere il Dio della rivelazione. Dalle profondità tenebrose della natura divinizzata e delle sue energie biologiche, proviene la divisione dell’umanità in razza superiore e razze inferiori, schiavi o razze non degne di sopravvivere. L’affermazione della razza superiore, grazie alla forza, della sua superiorità, equivale ad una elezione. La razza superiore è la razza eletta. La guerra di conquista è per lei un diritto, diritto di essere fedele a questa elezione. L’eliminazione del popolo dell’Alleanza considerato come un concorrente, è un corollario di questa mostruosa pazzia. Così l’ideologia nazista rappresenta una parodia satanica dell’elezione divina del popolo ebraico.
Pio XI, dichiarando che noi cristiani siamo spiritualmente dei semiti e pubblicando l’enciclica “Mit brennender Sorge” (redatta dal futuro Pio XII) aveva denunciato una impostura che offendeva la santità di Dio stesso.
Che dei cristiani abbiano utilizzato il simbolo della croce come se fosse la giustificazione della persecuzione degli ebrei è uno scandalo per la quale la chiesa domanda perdono. Ma per la fede cristiana la croce è lo strumento che l’amore di Dio ha scelto per la nostra redenzione. L’articolo tocca un tema centrale, oggetto di un malinteso dolorosissimo fra ebrei e cristiani. Lo fa nella logica della “religione della Shoah”. Se la Shoah, come l’interpreta
Fackenheim, è il centro della storia, questo significa che si sostituisce a Cristo. Ma come, se Dio ne è assente, tale evento può avere un valore redentore? O non c’è redenzione o la redenzione diviene l’autoredenzione dell’uomo, della quale Dio è stato espulso. Siamo nella logica dell’umanesimo ateo. Per Fackenheim, leggiamo, “Hegel è il pensatore cristocentrico per eccellenza”. Ma Hegel rappresenta in realtà una gnosi cristologica, nella quale la fede in Cristo non può riconoscersi.
La redenzione è oggetto di fede. Per i cristiani, il suo fondamento è la persona stessa di Cristo, che per il dono di sé ha offerto all’umanità la liberazione dal peccato. L’opera della nostra redenzione si sviluppa nel tempo della storia, nella lotta spirituale contro le forze del peccato, prima nel nostro cuore ma anche nel mondo. La vittoria definitiva sul male non sarà data all’interno della storia presente, ma al di là.“Cristo è risorto dai morti primizia di coloro che sono morti”, scrive Paolo ai Corinzi (1 Corinzi 15, 20), precisando che se la nostra speranza in Cristo fosse soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini. Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma siamo pellegrini in cerca della città futura. Lassù tutto sarà rivelato e vedremo come l’amore di Dio ha sconfitto ogni male.
Il domenicano George Cottier è cardinale, teologo emerito della Casa pontificia
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Il vangelo nazista prosperò sul “fatale divorzio” tra chiesa e sinagoga
di Paolo Ricca
Non sono sicuro di aver capito tutto quello che l’articolo riferisce del libro di Fackenheim. In particolare non capisco bene che cosa egli intenda per “dimensione essenzialmente ontologica della Shoah”, come pure non sono certo di aver capito l’affermazione secondo cui “dopo Cristo è la Shoah a dover riorientare la Storia… La Shoah compresa come evento insuperabile conduce direttamente alla revoca di ciò che è essenziale per i cristiani, vale a dire il ruolo salvifico di Cristo”. Ma siccome molto del messaggio del libro di Fackenheim mi sembra dipendere proprio dalla sua scelta di “ontologizzare la Shoah” e dalla sua negazione, in nome della Shoah, della salvezza di Cristo, può darsi che quanto brevemente dirò a commento dell’articolo non colga propriamente nel segno. Ho pensato, per essere il più chiaro possibile, di isolare quattro problemi sollevati dall’articolo: (1) Che cosa è stata la Shoah. (2) La responsabilità del cristianesimo. (3) Il nesso (impossibile) tra la croce di Cristo e la Shoah. (4) Unicità (o meno) della Shoah.
1. Che cosa è stata la Shoah. E’ stata il tentativo di annientare fisicamente il vero popolo eletto – gli ebrei – in nome del falso popolo eletto – i tedeschi. L’anima del nazismo, si sa, è stata la fede, lucida e folle ad un tempo, nel popolo tedesco guidato da Adolf Hitler come popolo eletto, nella razza ariana come razza superiore destinata a dominare le altre, nell’ideologia nazista come nuovo evangelo. Va dasé che nell’antisemitismo nazista confluirono molti fattori: un fenomeno di così vasta portata, così inaudito e orrendo non può avere un’unica spiegazione. Ma la ragione di fondo ritengo sia stata quella indicata: agli ebrei è stato effettivamente “imputato il crimine di esistere” perché la loro esistenza metteva radicalmente in questione la pretesa dei nazisti di promuovere i tedeschi come popolo eletto. Non possono esserci due popoli eletti: o i tedeschi o gli ebrei. L’esistenza degli uni è la negazione dell’esistenza degli altri come popolo eletto. In questa ottica si comprende perché è proprio l’esistenza degli ebrei che Hitler non poteva tollerare, e perché dovevano essere tutti eliminati, compresi i bambini: perché finché un solo ebreo restava in vita, la pretesa nazista barcollava, anzi crollava.
2. La responsabilità del cristianesimo nella Shoah. E’ grande, molto grande, più grande di quello che in generale si pensa. E’ probabilmente vero quel che Fackenheim sostiene, e cioè che i cristiani non hanno ancora veramente fatto i conti con le loro responsabilità nella Shoah né hanno veramente affrontato “il trauma” che essa comporta. Gli studiosi oggi distinguono, credo a ragione, tra antigiudaismo cristiano e antisemitismo nazista (e non solo nazista): il primo con motivazione religiosa, il secondo con motivazione razziale; il primo ha causato agli ebrei discriminazioni, ghettizzazioni e innumerevoli sofferenze, senza però quasi mai metterne in gioco la sopravvivenza; il secondo – nella sua versione estrema nazista – li ha votati allo sterminio, all’annientamento fisico. La distinzione, credo, è legittima. Ma va anche riconosciuto che l’antigiudaismo cristiano ha preparato un terreno sul quale l’antisemitismo nazista ha potuto prosperare senza incontrare resistenze significative, tranne che in personalità isolate (Dietrich Bonhoeffer) e in gruppi relativamente ristretti. La coscienza cristiana era stata, per così dire, anestetizzata e resa incapace di reagire. Icristiani non erano più in grado di vedere la continuità di fondo esistente tra la loro radice ebraica e la comunità ebraica loro contemporanea. L’antico, fatale divorzio tra chiesa e sinagoga avvenuto nel II secolo aveva generato un’alienazione profonda, sulla quale si è presto innestata una ostilità sorda, cupa, costante, alimentata da parte cristiana da accuse assurde come quella del “deicidio”, contutto ciò che ne è seguito in termini di vessazioni, persecuzioni, umiliazioni, pogrom e così via. Fackenheim ha anche ragione quando dice che “accettando la loro designazione di ‘ariani’ i cristiani… finirono con l’abbandonare i ‘non ariani’ alla loro sorte”. E’ solo nel nostro secolo, dopo la Shoah, che è iniziato tra ebrei e cristiani un dialogo difficilissimo perché è vero che il nome di Cristo, vitale per la fede cristiana, è il nome della tragedia degli ebrei nei duemila anni di storia che sta alle nostre spalle. Ci vorrà molto tempo prima che questo dialogo, miracolosamente avviato, cominci a portare qualche frutto.
3. Il nesso (impossibile) tra la morte di Cristo e la Shoah. Fackenheim ha perfettamente ragione a rifiutare “qualsiasi interpretazione espiatoria della Shoah” e a sostenere che “non c’è alcuna corrispondenza possibile tra la morte di Cristo e quella degli ebrei”. Ed ha anche ragione quando contesta una (ipotetica?) teologia cristiana che sia “convinta che l’immane sofferenza patita dagli ebrei possa ancora partecipare a quella di Cristo” completandola, e così contribuendo all’opera della redenzione. Queste interpretazioni ed elucubrazioni sono senz’altro da cassare. Resta però il fatto che Gesù era un ebreo e che la violenza omicida che su di lui s’è abbattuta è nella stessa linea della furia micidiale che, nel secolo scorso, in forme orrende, s’è abbattuto sul suo popolo. Non c’è corrispondenza tra la morte di Gesù e quella degli ebrei, c’è però corrispondenza tra le forze oscure e palesi che, nei due casi, le hanno progettate e compiute. Dietro il rifiuto degli ebrei, come dietro il rifiuto di Gesù, c’è, consapevole o no, il rifiuto di Dio. Per quanto concerne in particolare la morte di Gesù, c’è da dire due cose: la prima è che il suo valore redentivo non sta nella sofferenza, ma nel dono di sé; la seconda è che il sospetto di Fackenheim che “la salvezza di Cristo abbia potuto mettere in conto l’estinzione del popolo eletto” è completamente infondato: si leggano in proposito i capitoli 9, 10, e 11 della Lettera ai Romani dell’apostolo Paolo.
4. Unicità (o meno) della Shoah. Si può comprendere che Fackenheim la affermi, ma il fatto stesso che nei campi di sterminio vennero ammassati non solo ebrei, ma anche comunisti e oppositori politici di varia ispirazione, zingari e omosessuali rivela che non si trattava solo di sterminare gli ebrei, ma anche altri gruppi umani. E nella storia vi sono state altre comunità che sono state sterminate, perché non dovevano esistere. Menziono solo la comunità catara completamente annientata nel XIII secolo, senza un solo sopravvissuto. Ma gli esempi, purtroppo, sono tanti. Penso quindi che bisogna essere cauti nell’affermare l’unicità della Shoah. Unica lo fu certamente per le proporzioni, non però per la qualità del crimine. A molti altri gruppi umani, nella storia, fu “imputato il crimine di esistere” e furono per sempre cancellati dalla faccia della terra. E la storia non è finita.
Paolo Ricca è teologo e pastore della chiesa valdese, già presidente della Società biblica in Italia, esperto di ecumenismo