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Da Martin Luther King in poi

Giuliano Pisapia ha scelto nel comizio di chiusura della campagna elettorale una frase di Martin Luther King per simboleggiare a Milano la lotta gentile contro l’estremismo di potere della signora Moratti. Spesso la politica dei partiti cerca dei riferimenti che possiamo definire metapolitici per imbastire approcci di analisi della realtà esistente. Lo fanno oggi – sempre con Martin Luther King – anche i conservatori dei tea party in USA con l’obiettivo di screditare Obama, che ha vissuto recentemente un periodo di crisi d’identità politica. Almeno fino all’assassinio di Osama Bin Laden. La perdita della maggioranza parlamentare, in un ramo del parlamento, è stato solo un forte segnale della perdita di appeal oltre che di consensi.

Pisapia – non a caso – rappresenta oggi in Italia il possibile uomo della svolta. Da Milano sono partite nella storia italiana tutti i cambiamenti: dall’Italia liberale al fascismo, dal potere centralista democristiano a quello leghista o al Berlusconismo imperante, almeno fino ad oggi.

Pisapia deve ben tener presente, nella sua riflessione e azione amministrativa, che il reddito medio dei lombardi è crollato negli ultimi anni. In Europa è sceso dal 19esimo al 29esimo posto. A lui compete la sfida di capire come ridistribuire la ricchezza nel dare pane e lavoro ai milanesi ma anche nuovo vigore alla nostra amata città. Non è possibile liquidare il fronte conservatore se non ripartiamo dal ricostruire fabbriche e officine, non solo quelle delle idee, ma quelle del lavoro! E’ da lì che parte lo sviluppo della società. Della Lombardia in primis.

Ed è questo che ci interessa.

Martin Luther King jr. (1929-1968)


(VE) Quando Martin Luther King morì, la sua figura, i suoi discorsi, la sua lotta nonviolenta contro il razzismo e per l’emancipazione della comunità afroamericana erano già entrate nella storia dell’America.
Martin Luther King era nato ad Atlanta il 15 gennaio 1929. Suo padre era uno dei più noti predicatori evangelici battisti della città. King si formò nell’ambito delle chiese nere, una rete di comunità di fede con una lunga tradizione di impegno sociale e politico. Conclusi gli studi teologici, nel gennaio del 1954 King divenne pastore di una comunità evangelica battista a Montgomery, Alabama, il cuore del Sud razzista in cui la segregazione razziale vigeva perfino sugli autobus.
E fu proprio sugli autobus di Montgomery che King condusse la sua prima grande battaglia contro la segregazione razziale, quando Rosa Parks fu messa in carcere per essersi rifiutata di cedere il suo posto, in fondo all’autobus, a un bianco. I neri di Montgomery, guidati dal pastore King, decisero di boicottare la compagnia di trasporti pubblici. Meglio andare a piedi, che subire continue umiliazioni sugli autobus, fu lo slogan di quella agitazione, duramente repressa dalla polizia. Per quasi un anno i neri boicottarono, con metodi nonviolenti, i mezzi pubblici della città.
Fu una battaglia durissima contro la regola che imponeva ai neri di sedersi nel retro degli autobus e a cedere il posto ai bianchi. Ma alla fine la corte suprema degli Stati Uniti dichiarò illegale la pratica della segregazione razziale sui mezzi di trasporto pubblico. Era la prima vittoria. Ma il cammino verso la libertà, come lo definì Martin Luther King, era ancora molto lungo.

Un cammino di libertà
Dopo dieci anni di attività frenetiche, di battaglie, di dure repressioni, dopo avere convocato a Washington, nell’agosto del 1963, una grande manifestazione nazionale per il diritto di voto, durante la quale pronunciò il celebre discorso “Ho fatto un sogno”, Martin Luther King ottenne il Premio Nobel per la pace, nel dicembre 1964.
Ma il Nobel non costituì che una breve sosta. Il movimento antirazzista riprese a marciare, nei primi mesi del 1965, ancora in Alabama, per chiedere pacificamente il diritto di voto. E ancora ci furono scontri con la polizia.
Malgrado il consenso morale suscitato dal movimento antirazzista, sul fronte interno la situazione era molto tesa: la tanto sospirata legge sui diritti civili, che avrebbe concesso ai neri il diritto di voto, tardava ad arrivare. Il moderato presidente Kennedy era stato assassinato. Da molte parti si metteva in dubbio l’efficacia della strategia nonviolenta adottata da Martin Luther King. E nelle grandi città del nord cresceva il movimento separatista nero, guidato da Malcom X.

Critica del militarismo
L’ultima fase della vita e della lotta di Martin Luther King registrò il suo progressivo isolamento e il moltiplicarsi delle voci critiche, soprattutto di tanti moderati bianchi, delusi per la radicalizzazione della sua analisi che lo portò a intrecciare i temi della lotta al razzismo con quelli della lotta alla povertà e al militarismo.
A partire dall’estate del 1965, King collocò la sua iniziativa nel quadro di una critica sempre più incisiva delle strutture del potere politico, economico e culturale degli Stati Uniti. Giungendo a parlare di una vera e propria malattia morale dell’America.
Le posizioni di King subirono dei mutamenti. Tuttavia egli non abbandonò mai i principi della lotta nonviolenta.
“Vi sono, in questo paese, 40 milioni di poveri. E un giorno dovremo chiederci perché. E quando ti poni questa domanda cominci a porti degli interrogativi sul sistema economico. E quando ti poni questi interrogativi, cominci a mettere in questione l’economia capitalistica. Siamo chiamati ad aiutare gli scoraggiati sulla piazza del mercato dell’esistenza, ma un giorno dovremo pur giungere a capire che un edificio che produce mendicanti ha bisogno di essere ristrutturato. Chiamatelo come volete: chiamatela democrazia, chiamatelo socialismo, ma all’interno di questo paese ci deve essere una migliore distribuzione della ricchezza per tutti i figli di Dio”.

Lotta alla povertà
L’iniziativa di Martin Luther King per la lotta alla povertà, è strettamente collegata a un altro drammatico problema: quello della guerra in Vietnam. Su questo tema ci fu una rottura con molti ambienti che lo avevano sostenuto nel corso della battaglia per i diritti civili. Che cosa c’entra la guerra in Vietnam con l’emancipazione dei neri americani, si chiesero in molti?
“Vi è un’immediata e ovvia relazione tra la guerra in Vietnam e la lotta che io e altri abbiamo condotto in America. Finché avventure come quella in Vietnam continueranno a distruggere uomini, competenze e denaro, l’America non potrà dedicarsi alla riabilitazione dei suoi poveri. Noi stiamo mandando dei giovani neri a garantire nel sudest asiatico le libertà che essi non hanno mai trovato in Georgia o a Harlem. Parlo per i poveri del Vietnam, il cui paese viene distrutto. Parlo per i poveri dell’America che pagano il prezzo doppio delle loro speranze frustrate e della morte in Vietnam”.

La rivoluzione e la fine
Negli ultimi anni King allargò progressivamente il campo della sua iniziativa: dalla desegregazione ai diritti civili, quindi all’antimilitarismo e alla lotta contro la povertà. Fino a parlare di “rivoluzione nera”. Una rivoluzione nonviolenta e spirituale, ma comunque tesa a cambiare in profondità la struttura della società americana. Una rivoluzione, disse, che costringe l’America a guardare in faccia tutte le sue crepe: razzismo, povertà, militarismo e materialismo.
King fu ucciso da un killer appostato a poca distanza dal Lorraine Motel, a Memphis. In quel motel gli organizzatori della marcia di appoggio agli spazzini neri di Memphis avevano stabilito il loro quartier generale.
Le indagini portarono all’arresto, due mesi dopo, a Londra, di James Earl Ray. Ray dapprima confessò di essere l’assassino di King, poi ritrattò. Riconosciuto colpevole, fu condannato a 99 anni di carcere.
La sua colpevolezza fu messa più volte in dubbio. Egli stesso dichiarò di essere stato incaricato dell’omicidio da un misterioso Raoul. La moglie e i figli di King finirono per credergli, e chiesero al presidente Clinton di rilasciarlo.
La teoria secondo cui Martin Luther King sarebbe stato vittima di un complotto, non è mai stata dimostrata. E James Earl Ray è morto in carcere.

Leggi il testo del celebre discorso “Ho un sogno”, tenuto da Martin Luther King jr. alla marcia di Washington del 28 agosto 1963

Bibliografia
Lerone Bennett, Martin Luther King. L’uomo di Atlanta, Claudiana, Torino 1998
Paolo Naso, L’altro Martin Luther King, Claudiana, Torino 1993
Cristina Mattiello, Le chiese nere negli Stati Uniti. Dalla religione degli schiavi alla teologia nera della liberazione, Claudiana, Torino 1993

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Lotte nonviolente: Rosa si è seduta affinché noi potessimo alzarci…

Ci sono vite stupende di donne coraggiose: noi cerchiamo di raccontarvene qualcuna da un po’ di tempo a questa parte. Pleonastico precisare che la Storia non è solo al maschile e non necessariamente vede coinvolta l’elite intellettuale. Anzi! … Anche se i libri che avete letto da studenti dicono proprio l’esatto contrario.

Il coraggio parte sempre e solo dal profondo, dallo Spirito dentro di noi, dalla luce interiore e fa crescere fiumi di libertà nella forza tranquilla che tutto può cambiare. Sempre a partire da noi stessi.

Si puo’ dire no all’ingiustizia senza imbracciare le armi della violenza o peggio quelle dell’odio e della vendetta (magari di Stato, con tanto di coperture religiose!). Si puo’ dire sì alla vita e ai diritti per tutt* e bere “sia alla fontana dei bianchi che a quella dei neri”. Dei padani e dei meridionali d’Italia. Degli stranieri e degli indigeni. Degli arabi e degli ebrei. Degli infami e dei virtuosi. 

L’acqua è creata per tutt*. Le fontane sono per tutt*

Martin Luther King è oggi “scoperto” dai conservatori americani dei c.d. Tea party, proprio per questo coraggio, piu’ che per i contenuti specifici delle sue lotte. Gli evangelici americani (e il loro satelliti o sedi di espansione in Italia) sperano così di riscrivere la storia, non comprendo che non c’è Pace senza Giustizia, anche se è vero che non basta avere il colore della pelle di un certo tipo per dare rassicurazioni a tutti e avere ricette giuste.

La tragedia nel Golfo del Messico necessitava indubbiamente di scelte risolute e radicali ma non è questo, quello che contestano nei Tea party all’attuale Presidenza americana. Il Creato non è all’ordine del giorno (salvo forse nel lontano Brasile, ove le foreste sono in fase di distruzione ormai avanzata), semmai lo è il proprio portafoglio. In altri termini questi gruppi  non vogliono pagare le tasse per la sanità dei più poveri.

Ma l’Italia non è poi così lontana dall’America del nord. C’è una grande onda, non fatto solo di idrocarburi, che è in movimento. C’è chi sta cercando di scardinare anche qui in Europa la battaglia per la salute di tutti in nome di diritti liberali alla morte individuale. Guarda caso la battaglia è capeggiata da liberali, che stanno anche a sinistra! E non possiamo liquidarlo come un fenomeno solo romano.

Dopo la giornata dei risvegli, cerchiamo di  mobilitarci per il diritto alla salute, alla  compassione, alla tenerezza umana, alla Speranza.

La morte quando arriverà si sorprenderà della vita eterna che è già iniziata qui e senza attendere essa. Senza avere la sua minima considerazione. Perché non ne merita e soprattutto non merita nemmeno le nostre paure. Siamo – è vero – piccole donne e piccoli uomini, ma possiamo essere anche grandi sarti coraggiosi del Regno. E non ci stiamo riferendo a Dolce & Gabbana, che vendono lustrini e strass con tanto di “made in Italy”. Pardon, “made in Legnano”. …

 Non è quello che ci interessa.

Maurizio Benazzi

Rosa Parks (1913-2005), una sarta contro il razzismo
(Gabrielle Desarzens – V.E.) Rifiutando di cedere il suo posto a un bianco in un bus 55 anni fa, l’afroamericana Rosa Parks ha dato via al boicottaggio dei bus di Montgomery, in Alabama. Ma anche a un vasto movimento che ha messo fine alla segregazione razziale.
Nulla lasciava presagire che Rosa Parks, sarta, fosse destinata a diventare l’icona dei diritti civili negli Stati Uniti o la “madre” di un movimento che ha portato all’abolizione delle leggi razziali.
Il primo dicembre del 1955 rifiuta, in un bus, di cedere il suo posto a un uomo bianco, così come prevede la legge. Si fa arrestare, condannare a pagare una multa e viene in seguito incolpata di disordine pubblico e violazione della legge. Ha allora 42 anni.
Come la maggior parte degli afroamericani di allora, è attiva nella vita di una Chiesa nera. Dal suo libro intitolato “Quiet Strength” (La forza tranquilla), emerge che quasi suo malgrado, ma cosciente della sua dignità di essere umano, suscita un vero e proprio terremoto nell’America del dopo-guerra.
“È spesso stato detto che quel giorno ho rifiutato di alzarmi perché ero troppo stanca, ma non è esatto. Non provavo una sensazione di fatica fisica, o perlomeno non più del solito (…). Non erano i piedi a farmi male, ma il mio cuore di essere umano. La mia stanchezza era piuttosto morale. Ne avevo abbastanza di dover sempre fare ciò che mi dicevano i bianchi. Ero soprattutto stanca di dovermi sempre piegare”.

Fierezza e rispetto
Figlia di un carpentiere e di un’insegnante, Rosa Parks è nata nel 1913 a Tuskegee, in Alabama. Dopo il divorzio dei suoi genitori, con suo fratello e sua madre si trasferisce nella fattoria dei suoi nonni, membri della Chiesa africana metodista episcopale. A quell’epoca, l’organizzazione xenofoba Ku Klux Klan (KKK) ha un’enorme influenza. Terrorizza i neri, li lincia e brucia le loro case. La scuola per bambini neri che frequenta Rosa Parks brucia a due riprese. Suo nonno monta sempre la guardia davanti alla casa familiare, un fucile in mano, e ripete alla nipote: “Non accettare mai trattamenti ingiusti da dovunque vengano. Non abbassare mai le braccia davanti all’ingiustizia”. Anche sua madre le raccomanda di essere degna: “Sii fiera di ciò che sei. Diventa qualcuno che sarà rispettato dagli altri e che li rispetterà a sua volta”.
Per tutta l’infanzia e la sua vita di giovane adulta, Rosa è tuttavia confrontata con il razzismo quotidiano. Nella sua autobiografia, menziona un fatto che l’ha ferita profondamente. Nella città di Montgomery c’erano delle fontane riservate ai bianchi e altre per i neri: “Da bambina pensavo che l’acqua delle fontane per i bianchi avesse un gusto migliore di quella dei neri”.

Segregazione nei bus
In questo Stato del Sud degli Stati Uniti, gli autobus sono il simbolo della segregazione razziale. Sono divisi in tre parti: quella anteriore è riservata ai bianchi e i neri non hanno neanche il diritto di restare in piedi nel corridoio e quella posteriore è riservata ai neri, ma non dispone sempre di posti a sedere. Vi è infine una zona intermedia, accessibile sia ai bianchi sia ai neri. Non appena tuttavia un bianco glielo chiede, un nero deve alzarsi.
Per prendere l’autobus, i neri pagano il biglietto direttamente al conducente, scendono dal mezzo e poi e risalgono nella parte posteriore. Non è raro che l’autista riparta prima che questi passeggeri di seconda categoria abbiano il tempo di risalire, lasciandoli sul posto.
Il 1. dicembre 1955, quando Rosa Park prende l’autobus al termine della sua giornata lavorativa, riconosce l’autista che l’aveva cacciata dal suo mezzo 12 anni prima, dopo che lei si era rifiutata di riuscire dal bus per risalire dietro. Si siede quindi nella zona intermedia e, contrariamente agli altri passeggeri, si rifiuta di alzarsi quando un uomo bianco le chiede di sedersi. Il conducente le ordina di cedere il suo posto. Lei però resiste. In collera, l’autista scende e torna con un poliziotto che arresta Rosa Parks. A quest’ultimo la donna chiede: “Perché tante persecuzioni?”. E lui: “Lo ignoro, ma la legge è la legge, ed io la devo arrestare”.
Entrano allora in gioco i leader dell’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore (National association for the advancement of colored people, Naacp) di cui Rosa è la segreteria. Un avvocato liberale bianco, Clifford Durr, accetta di difenderla e, di fronte alla Corte Suprema, contesta al fianco di Rosa Parks la legge sulla segregazione che ha condotto al suo arresto.

King organizza il boicottaggio
In brevissimo tempo la comunità nera, ovvero il 75% dei clienti della compagnia che gestisce gli autobus cittadini, si organizza per boicottarla. E cammina: “Oggi cammino affinché i miei nipoti possano un domani prendere l’autobus senza essere umiliati”, si sente dire dai più anziani.
Alcuni taxi fanno la loro apparizione e trasportano le persone per 10 centesimi, il prezzo di un biglietto del bus. Gli organizzatori mettono anche in opera un servizio parallelo di autobus. In breve tempo la società dei trasporti pubblici è a rischio di fallimento. Un giovane pastore popolare è scelto per dirigere questa campagna: Martin Luther King.
La stampa internazionale si fa allora eco del movimento. Il mondo ha gli occhi puntati sull’America. Fondi, scarpe e vestiti vengono inviati da tutto il mondo per sostenere i camminatori. In reazione, il Ku Klux Klan si scatena: telefonate notturne, minacce, arresti ingiustificati, attentati, rinvii illegali,… La stessa casa di Martin Luther King è obiettivo di un attentato esplosivo, mentre sua moglie e il loro bambino di due mesi sono all’interno dell’abitazione.
Apostolo della non-violenza, Martin Luther King chiede a tutti di non reagire se non continuando il boicottaggio degli autobus, affinché i neri e i bianchi possano sedersi dove vogliono, gli autisti siano più cortesi nei confronti di tutte le persone e siano assunti dei conducenti di colore.
Nello stesso periodo, la Corte Suprema è incerta sulla validità costituzionale della condanna di Rosa Parks. Il 13 novembre 1956, quasi un anno dopo l’arresto di quest’ultima, rende il suo verdetto: le leggi segregazionistiche di Montgomery sono dichiarate illegali. Il 20 dicembre 1956, la Corte Suprema obbliga la società dei trasporti ad applicare la sentenza.
Il boicottaggio cessa l’indomani, ma la violenza contro i leader del movimento e le chiese frequentate dai neri raddoppia. La repressione si abbatte sui Parks e i membri della loro famiglia. La maggior parte di loro perdono il lavoro o sono molestati dai bianchi. Nel 1957, Rosa e Raymond Parks anch’egli militante a favore dei diritti civili, decidono di traslocare a Detroit, nel Michigan. La coppia trova finalmente del lavoro: Rosa diventa l’assistente di John Conyers, democratico afroamericano alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti.

Molti riconoscimenti
Dopo la morte del marito nel 1987, Rosa crea una fondazione destinata ai giovani. Il suo scopo: insegnare agli adolescenti che è necessario impegnarsi in favore della giustizia e della libertà. Far loro conoscere la storia del movimento dei diritti civili, e iniziarli a una cultura della pace.
Tra le numerose onorificenze che le sono conferite vi è anche la Medaglia d’oro d’onore del Congresso americano, che le viene assegnata nel 1999 e che rappresenta la più alta distinzione onorifica conferita a un civile. In quest’occasione, dichiara: “Questa medaglia rappresenta l’incoraggiamento da parte di tutti a continuare affinché tutti abbiano gli stessi diritti”.
Allora unico nero nel Senato americano, l’attuale presidente degli Stati Uniti Barak Obama ha definito Rosa Parks “un’autentica eroina americana (…) Era molto umile e molto misurata nelle sue parole. Ma possedeva una grande determinazione. (…) Con il suo coraggio e il suo esempio ha gettato le basi che hanno permesso al Paese di vivere in accordo con i suoi principi”. Rosa Parks si spegne il 24 ottobre 2005, 37 anni dopo l’assassinio di Martin Luther King, che aveva definito il “Mosé del popolo nero americano”. Il Reverendo Jesse Jackson ha detto di lei: “Si è seduta affinché noi potessimo alzarci” (trad. it. Amanda Pfändle)

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Periscopio cinematografico

Da qualche settimana è distribuito il film “Milk” nella sale cinematografiche italiane: la newsletter ne consiglia vivamente la visione a tutt*. Si tratta di un’alta testimonianza nel segno della nonviolenza sulle orme di Gandi e M. Luther Kink da parte di Harvey Milk. Preferiamo comunque non antiparvi nulla. Gli amici di Milk da San Francisco hanno accolto oggi con simpatia i segni della nostra stima e condivisione per le lotte di questo politico americano democratico, assassinato per la difesa dei diritti civili .

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(Alain La Goanvic) In piena campagna, un padre, una madre e i loro tre figli trovano la loro dimensione ideale ai bordi di un’autostrada in disuso da anni. Ma all’improvviso la radio annuncia che i lavori riprenderanno e il traffico comincerà a scorrere. E quando arrivano le prime automobili, inizia l’assedio.
Sulle prime la famiglia si illude di poter resistere, di riuscire a continuare a condurre la stessa vita di prima. Ma ben presto il fiume di macchine sconvolge ogni equilibrio.

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Le inquadrature, così come la composizione delle immagini (una veduta da una finestra che disegna un quadro nel quadro, ad esempio) rappresentano l’isolamento dei personaggi. E la fotografia sottolinea la loro discesa agli inferi: i paesaggi luminosi e i colori vivi dell’inizio cederanno il passo a un’insondabile oscurità.
La colonna sonora è molto curata: i rombi dei motori sono l’eco di un mondo esterno nocivo, opposto alla tranquillità che circonda la casa. E la musica ha un ruolo drammatico fondamentale in questo racconto che troverà nella follia una miracolosa (e per certi versi comica) via d’uscita.

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Svizzera/Francia/Belgio 2008
Regia: Ursula Meier
Interpreti: Isabelle Huppert, Olivier Gourmet, Adelaïde Leroux, Madeleine Budd, Kacey Mottet Klein

 

Il cuore di Jenin (The heart of Jenin)

jenin

(D. Olaf Schmalstieg) La storia si svolge nel 2005. La famiglia Khatib vive in Cisgiordania, nel campo profughi di Jenin, distrutto pochi anni prima dall’esercito israeliano. Il dodicenne Ahmed viene ferito gravemente da un soldato israeliano. Ahmed stava correndo con un mitra giocattolo tra le mani. Il ragazzo muore poco dopo il ricovero in una clinica israeliana. Il medico chiede al padre di Ahmed di poter prelevare gli organi del ragazzo. Serviranno per salvare la vita di altri bambini. Dopo breve riflessione, il padre acconsente. Anche il cuore di Ahmed potrà essere prelevato: un’autorità religiosa islamica, interpellata dal padre, ha dichiarato che ciò non contraddice le regole musulmane. Grazie agli organi di Ahmed, cinque altri bambini possono essere salvati. Il film parla di tre di quei bambini, tra cui una ragazzina israeliana.
Il padre di Ahmed, Ismail, e suo fratello, contattano le famiglie dei bambini che sono stati salvati grazie alla donazione di organi. Presto si intuisce che in quei bambini, per la famiglia Khatib, continua a vivere Ahmed. In occasione delle visite, e malgrado le circostanze drammatiche e terribili, nasce un clima di riconciliazione e si fa largo un sentimento di gratitudine. L’incontro con la famiglia israeliana, segnato da qualche difficol-tà iniziale (“Avrei preferito un donatore ebreo. Non lascerò mai che i miei figli abbiano amici arabi: potrebbero subirne la cattiva influenza”, afferma il padre della ragazzina che ha ricevuto un rene di Ahmed), porta infine alla nascita di un legame positivo.
Ciò che colpisce maggiormente, in questo film, è il crescente rifiuto nei confronti di ogni forma di rassegnazione e di uccisione di innocenti e l’ostinata ricerca di rapporti po-sitivi e vitali. Ahmed diventa una figura simbolica della coesistenza pacifica tra palestinesi e israeliani. I difficili passaggi della frontiera, preceduti da lunghe attese e da estenuanti controlli, assurgono a simbolo della ricerca del contatto e dell’incontro.
Analizzando con attenzione il film, ci si può chiedere quale sia in definitiva la figura più significativa della vicenda. L’idea di utilizzare gli organi di Ahmed per salvare delle vite è venuta al medico dell’ospedale israeliano. Senza il suo intervento, la sua insistenza, la sua pazienza e la sua mediazione, il cuore di Ahmed non avrebbe continuato a battere. Ma anche il cuore del padre di Ahmed batte: lo si percepisce dal suo sguardo, nella sua ricerca di stabilire contatti, nel suo impegno a favore del centro giovanile di Jenin (sostenuto da fondi provenienti dall’Italia meridionale).
Alla fine ”Il cuore di Jenin“ è diventato un film della speranza. Ahmed, il padre Ismail e il medico sono le figure principali. E il cuore di Jenin ispira tutti gli altri a battere per la pace. Il film, presentato lo scorso anno al Festival di Locarno (per la regia di Marcus Vetter e Leon Geller, una coproduzione israeliana-tedesca), avrebbe senza dubbio meritato maggiore attenzione da parte della giuria ecumenica. Si tratta di un documentario che offre un’ottima piattaforma di discussione sul tema della pace in Medio Oriente (trad.it.P.Tognina)

Il cuore di Jenin
Germania 2008
Regia: Leon Geller e Marcus Vetter

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Progetto 2009: Facebook

Cerchiamo una persona che gestisca i rapporti amicali di Ecumenici (sostenitori anche nel 2009 di www.MLP.org  e di www.associazione31ottobre.it  ) su Facebook attraverso un gruppo internazionale, che basa la propria comunicazione sulla lingua inglese.

Trattasi di un impegno settimanale molto stimolante che lo vedrà coinvolto con gli aderenti ad associazioni amiche in Olanda, in Germania e negli States. Persone che offriranno un punto di vista molto differente dal contesto conservatore italiano.

Si tratta di costituire una ragnatela di relazioni dall’Olanda agli USA per scardinare gli stereotipi e creare una comunità fuori dal provincialismo e dai condizionamenti interni. Non siamo un gruppo politico ma cerchiamo di elaborare una teologia politica per la pace, la giustizia e la salvaguardia del creato. Siamo rigorosamente contro la violenza, da qualsiasi parte essa provenga. Non siamo sionisti o antisionisti. Se dovessimo guardare alle radici socialiste del sionismo non esiteremo a schierarci in suo favore. Ma le cose oggi non stanno esattamente come lo erano in origine del movimento.

Siamo semplicemente cristiani in dialogo.

 

Ospitalità:

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INTERDEPENDENCE newsletter

Se gli altri esseri sono separati da me, sarà legittima la mia indifferenza per la loro sorte; ma se essi sono inseparabili da me come io da loro, se la mia stessa identità è formata dal tessuto delle relazioni in cui sono coinvolto, allora ogni autentica cura verso me stesso coincide con l’agire responsabile nel contesto che mi comprende.

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Da alcuni anni negli Stati Uniti il terzo lunedì del mese di gennaio, in prossimità dell’anniversario della nascita di Martin Luther King, si celebra il Martin Luther King Day. Quest’anno, a Torino, per la prima volta sarà celebrato in Italia e la ricorrenza ha un significato eccezionale, essendo il 19 gennaio la vigilia dell’insediamento di Obama alla presidenza degli Stati Uniti.Il sogno del pastore King prende forma nel modo più straordinario, e gli uomini e le donne di ogni continente hanno in quel sogno il fondamento di un futuro comune. Le immagini di morte che ossessivamente in questi giorni si sono riversate da Gaza sono invece un incubo da cui vogliamo uscire. Occorre saper voltare pagina, cercare vie nuove, uscire dalla spirale dell’odio e della paura. Possa un più lungimirante senso di responsabilità e di giustizia guidare coloro che reggono le sorti del mondo.

www.interdependence.it

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Una profezia di Martin Luther King divenuta realtà

Dateci il voto e trasformeremo la nazione!

La vittoria elettorale di Barack Obama
 

ROMA, 5 novembre 2008 – E’ il titolo solo leggermente emendato di un famoso discorso di Martin Luther King nel 1957 a tre anni dalla storica dichiarazione della Corte Suprema che aveva abolito la segregazione nelle scuole. “Dateci il voto” (“Give us the ballot”) chiedeva King e i neri che hanno tanto sofferto sapranno cambiare il volto di questa nazione. Questo per rimarcare un obiettivo politico strategico, che come sappiamo fu raggiunto solamente nel 1965. Ma tra l’avere il diritto di voto e saperlo esercitare restava ancora una lunga strada. La vittoria di Barak Obama è la vittoria del voto, non solo delle minoranze. E’ la vittoria della democrazia praticata e non semplicemente formale e spesso vuota. Barak Obama diventa presidente degli Stati Uniti proprio nell’anno del 40° anniversario dell’assassinio di King. Le immagini di repertorio in cui King, la sera prima di essere ammazzato, fa il discorso del “Mountain top”, in cui dice di aver visto la Terra Promessa, nella quale, si dice certo, il popolo entrerà, e che come Mosè, forse lui vedrà soltanto da lontano, ci consegnano un King dal volto teso e dallo sguardo lucido, cosciente della tragica fine imminente. Oggi dopo 40 anni (vi dice niente il numero 40?), l’incubo viene trasformato in sogno. Oggi vince il voto e la democrazia. Quando abbiamo visto eleggere uno dietro l’altro dei presidenti sostanzialmente perché sostenuti da potenti lobbies economiche (pensiamo al peso della lobby delle armi a favore di Bush padre e figlio), abbiamo disperato per la democrazia. Essa appariva negli USA, come in molti altri posti, sempre più solo formale, perché in verità quel che contava in realtà erano solo i soldi. Con quelli ti compri tutto, la reputazione, i giudici, i parlamentari, il potere politico… è una storia che conosciamo bene e da vicino.

Anche Barak ha avuto la sua lobby: la gente comune che con i suoi dieci e venti dollari di donazione ha fatto la differenza. Se da una parte non è stato possibile sfuggire alla logica di una campagna elettorale miliardaria, dall’altra è stato possibile finanziarla coi soldi della gente comune. E perciò Obama è un presidente più libero, che non solo ha delle idee e dei valori per il paese, ma ha anche una forte base popolare per poterli attuare. Non è ostaggio di potentati economici o lobby militariste.

Michael Eric Dyson è un pastore battista, professore di teologia, ma soprattutto pubblicista di libri di grande popolarità. Nel 40° della morte ha scritto un saggio che si intitola “La morte di Martin Luther King e come questa ha cambiato (changed) l’America”*. In appendice, di questa interessante rivisitazione della vita di King e di come nei 13 anni del suo ministero e attività politica egli sia stato costantemente accompagnato dalla probabilità di una morte violenta, Dyson, profondo conoscitore del movimento dei diritti civili, scrive un’intervista impossibile, fingendo che King sia ancora vivo. Un’intervista fatta in occasione del suo 80° compleanno. In questo modo, da attento esegeta del pensiero di King, Dyson gli può fare domande anche sull’attualità dell’America e immancabile arriva la domanda su Barak Obama. Ecco la risposta virtuale di King, ma che ho trovato, molto realistica:

“Barak Obama è una forza della natura. Negli anni sessanta dissi che nei circoli neri non eravamo ancora riusciti a produrre una personalità politica che avesse qualcosa del magnetismo e del grande rispetto di un John F. Kennedy. Credo di poter dire che oggi abbiamo trovato quella persona proprio nel senatore Obama. E’ incredibilmente preparato, brillante, riflessivo, e senza spocchia, sebbene per natura, ogni politico debba mettersi in vetrina dicendo quel che ha fatto e quel che intende fare per il Paese.
Il solo pensiero di avere una simile persona nell’ufficio più alto della Nazione è meraviglioso. Al fascino del suo carisma e del magnetismo della sua personalità egli aggiunge un forte senso delle aspettative e delle speranze del suo elettorato, e tutto questo, testimoniarlo, è semplicemente sorprendente, per me che sono un nero di quel Sud dove fino alla metà degli anni sessanta non era concessa la facoltà di voto. Desidero comunque frenare le eccessive aspettative della gente nei confronti del Senatore Obama, se fosse eletto presidente. Un presidente nero non fermerà all’istante le sofferenze del popolo nero, tuttavia potrà usare il suo pulpito per rapportarsi a questioni sociali che sono rilevanti per noi, e potrà sicuramente aiutarci a mettere in atto una legislazione indirizzata ai bisogni urgenti del popolo, a partire da una assistenza sanitaria per tutti, al taglio delle tasse per i ceti più poveri, a opportunità di lavoro e di carriera per i meno abbienti. Tutto questo però, sia ben chiaro, non renderà superfluo il bisogno che continueremo ad avere, di profeti che parlino fuori dal sistema.
Dunque, dobbiamo sostenerlo e incoraggiarlo, come dovremmo fare per un qualsiasi altro presidente. Ora questo sarebbe un vero segno di progresso tra le razze: dare ad un presidente nero, impegnato nel suo confronto quotidiano con le materia spinose della politica, una forte voce profetica proveniente dalla comunità afroamericana.”

Massimo Aprile
Segretario del Dipartimento di Teologia dell’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia

*Michael Eric Dyson, April 4, 1968: Martin Luther King’s Death and How it Changed America, New York: Basic Civitas Books, 2008

 

Ecumenici si stringe alla comunità evangelica battista domenica prossima come segno di lode e di ringraziamento all’Onnipotente: è cambiata l’America ma è stato vinto anche il nostro scetticismo nel contrastare un’aggressiva campagna estremista di pentecostali e evangelicali che qui in Italia trova inquietanti presenze anche sul web, appoggiate perfino da settori deviati e devianti del protestantesimo storico.  Proprio quelli che ci ignorano sistematicamente. Abbiamo motivo di rallegrarci per una profezia che viene da oggi scritta anche nei libri di storia e non solo sulle pagine dei giornali…

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